sabato 15 novembre 2008

Il ceto medio e l'etica comportamentale.

Un lettore mi pone questa interessante domanda che sintetizzo: “Perché Obama e i governi Europei si interessano (sostengono) più del ceto medio e delle aziende a questi collegate che del ceto popolare ed operaio?”.

Per rispondere devo fare un passo indietro e interessarmi della psicologia comportamentale, perciò del comportamentismo delle classi.

Scinderei la società in tre classi: i ricchi (miliardari in € o in $), il ceto medio e il ceto popolare.

I ricchi

I primi sono quelli che Keynes chiamò i rentiers[1], perciò quelli che possono benissimo vivere di rendita senza doversi preoccupare minimamente di dover produrre un reddito, per vivere, per tutta la loro vita.

Ovviamente non tutti sono uguali, ma, di norma, l’agiatezza di costoro è tale che il resto della società è per loro ininfluente: sono conservatori[2], perché la loro unica preoccupazione è quella di salvaguardare il loro status quo da possibili spoliazioni. Al massimo, dove il senso sociale si abbina al cristianesimo convinto, o ad uno spiccato senso sociale evoluto, possono essere filantropi, anche se solo nelle briciole finanziarie del loro avere.

Non sono molto propensi né ad investire, né a speculare; a meno che il vantaggio economico sia totalmente sicuro.

Il loro numero non è eccessivo, benché buona parte della ricchezza mondiale sia nelle loro mani.

Volendo analizzare dei dati macroeconomici si può dire che il loro numero, nei secoli, si sia mantenuto abbastanza stabile in percentuale, anche se le caste di appartenenza possono essere variate nei secoli per la scomparsa di alcune e la nascita di altre, come, ad esempio, la nobiltà (re, principi …) e il latifondismo. Spesso i primi si sono trasformati in secondi e poi in altre classi sociali sempre benestanti.

Essendo pochi è ovvio che il “consumismo” non incida su di essi, anche perché, se spendono, hanno una fascia molto alta, perciò esclusivamente di nicchia. Vivono in un mondo a sé stante e diversamente dagli altri.

Portandolo al praticismo paradossale, possiamo affermare che un tale individuo non mangia 100 pani al giorno per scoppiare, ma solo il paio che gli serve per vivere da sazio.

Ceto medio

Questo è quello che, nella storia, ha subito dei rimescolamenti classisti notevoli, perché la vivacità operativa lo ha posto spesso in competizione con le sue stesse classi.

Fino all’inizio del secolo scorso il ceto medio si identificava nella borghesia: in quella categoria fluttuante di persone che avevano tratto beneficio sia dalla rivoluzione industriale, sia dal commercio che l’industria aveva caratterizzato nella competizione economica per acquisire settori di mercato.

Specie dopo il secondo conflitto mondiale il ceto medio si è quasi identificato nei colletti bianchi, perciò in quella parte di società che, nel lavoro impiegatizio (industriale, statale, finanziario o commerciale), assumeva un ruolo dirigenziale più o meno importante, avendo una retribuzione ed un trattamento sociale quasi privilegiato.

Ultimamente per ceto medio non vi può essere una classe facilmente definibile, ma, con l’avvento del terziario, la si può intendere come tutti coloro che hanno un reddito non talmente alto da appartenere ai ricchi, né sostanzialmente basso per essere classificati poveri (ceto popolare). Negli States, per intenderci, si intende chi oscilla tra i 100.000 e il milione di $; qua da noi il limite inferiore si abbassa ulteriormente.

Sia nel passato che nel presente è la classe maggiormente stimolata a progredire[3] socialmente e, appunto per questo, spesso in competizione con gli altri individui; per tale motivo gli appartenenti al ceto medio assumono, nei vari periodi storici, connotazioni sociali diverse di appartenenza come dicevamo prima: borghesia, colletti bianchi, classe reddituale media.

L’individuo del ceto medio non solo è attivo e tendenzialmente inclinato a salire di grado, ma cerca, sia con l’investimento sia con il consumismo, di assurgere ad un ruolo elevato nella società.

Il suo investire e lavorare è idealizzato individualmente a creare reddito per “poterlo” consumare, dove il poterlo va inteso quale dimostrazione pratica del suo valore personale.

Vi sono parametri particolari, nel suo inconscio, che lo spingono, quasi istintivamente, a questa sfrenata corsa consumistica: lo spendere, quale dimostrazione palese del livello raggiunto e della sua riflessiva capacità di produrlo.

Case, arredi, automezzi, aziende, dipendenti, carriera, rapporti sociali e look sono gli effetti di questa devastante degenerazione intellettuale che si divide operativamente quasi in caste, le quali si suddividono a loro volta in ghetti, quasi incomunicabili, identificabili dal lavoro svolto. L’avere e il possedere sono ritenuti titoli inconsci di supremazia!

Il ceto medio è, per antonomasia, il vulcano in ebollizione della società: quello che è attivamente impegnato, tanto nel bene quanto nel male, a creare, produrre e stimolare la ricchezza e il progresso di ogni paese.

Il rischio, più che essere freddamente calcolato, è idealizzato all’ottenimento del risultato; perciò portato pure all’eccesso, onde ottenere facilmente il benessere agognato e, con questo, il bene materiale desiderato.

La speculazione, la pubblicità, il consumismo e lo stesso commercio, volto ad addossare al consumatore oggetti talora altamente superflui anche se costosi, sono parte di un ingranaggio sociale teso ad asservire l’uomo ad un istinto classista ideologico, basato sull’apparenza: il voler essere per apparire, quindi il consumare per mostrarsi.

In sintesi il ceto medio è quello che ha in sé le maggiori contraddizioni sociali, appunto perché il suo modo operativo tende a sopravvaricare spesso l’altro: il superarlo economicamente e socialmente per apparirgli superiore.

Difficilmente l’individuo del ceto medio (oggi più di ieri) è solidale con altri, se non nei limiti che gli servono per ulteriormente qualificarsi; e spesso non lo è neppure nella famiglia, perché questa viene intesa, di norma, come luogo rifugio dove tornare per potersi riposare: il dormitorio.

La famiglia, quindi, non come donazione sociale all’altro, ma come comodato più o meno gratuito atto a raggiungere determinate sensazioni e posizioni.

Il ceto popolare

Questo potrebbe essere considerato l’anello debole della catena sociale, ma, a ben guardare, è il motore operativo meccanico della società.

È la mera forza lavoro che è conscia del suo limite, sia in capacità che in potenzialità; ma, appunto per questo, sa limitare il suo reddito alla sopravvivenza senza eccedere troppo nel consumismo. E per questa sua carenza individuale è quello che sfrutta e pratica maggiormente la solidarietà nelle varie forme operative: sindacato, solidarietà reciproca, assistenza sociale e volontariato ...

È composto soprattutto da operai[4] o da piccoli lavoratori autonomi, radicati spesso alle loro origini, quindi al territorio.

La maggior parte del reddito percepito è usato per vivere; di conseguenza non vi possono essere grandi fondi destinati al consumismo sfrenato e all’investimento fine a sé stesso. Al massimo vi è il piccolo risparmio per garantire un decoro esistenziale nei momenti di necessità o di possibile imprevisto.

Stabilito ciò è ovvio che tanto Obama quanto i vari paesi occidentali siano maggiormente attenti al ceto medio, appunto perché questo è quello che muove l’economia: investe, spende, consuma, rischia e programma. Innesta un circolo virtuoso che muove positivamente l’economia, ma, nello stesso tempo, può creare anche gravi crisi per il suo modo operativo aggressivo (rischio) di stare sul mercato.

Se va in crisi (recessione) il ceto medio, va in crisi operativa tutta la società.

Il ricco vive ugualmente nella sua torre d’avorio, data l’abbondanza di mezzi; il ceto medio si ritrova senza stimoli e spesso senza sostanza, mentre l’operaio rischia di rimanere senza lavoro.

Impedire che le banche falliscano significa garantire il lavoro e il risparmio all’operaio, la sua esistenza e la fluidità finanziaria atta ad assecondare ed a foraggiare l’iniziativa individuale.

Negli States i dati macroeconomici mostrano che il ceto medio è vissuto, negli ultimi due decenni, consumando in media il 7% annuo più del reddito che ha prodotto. Perciò il debito delle famiglie americane ha superato abbondantemente lo stesso Pil nazionale. Analoga situazione, pur se con percentuali lievemente diverse, la si trova anche in Inghilterra e in forma minore negli altri paesi occidentali.

Se si considera dove è arrivato il debito pubblico americano rispetto allo stesso Pil, ben si capisce come quella società abbia vissuto abbondantemente sopra il limite economico che poteva permettersi.

La vicenda subprime è emblematica della situazione che si è venuta a creare; non tanto perché è stata la scintilla che ha innescato la gravissima crisi finanziaria mondiale, ma, bensì, perché è la stessa procedura usata che ha in sé una degenerazione palese del modo operativo.

In pratica per muovere l’economia si è puntato sull’edilizia anche privata, creando il mito della casa per tutti.

Non solo: per spingere ulteriormente la ripresa, quindi i consumi e con questi l’economia, si è invogliato il singolo cittadino a spendere più di quanto poteva permettersi.

Il meccanismo usato era, a dir poco, eticamente truffaldino: ti finanzio il 110% dell’intera casa. Perciò chi più investiva, più aveva un eccesso di liquidità.

Chi poteva permettersi in base al proprio reddito una casa da 200.000 $ avrebbe avuto un finanziamento cash di ben 220.000; ma se ne costruiva una da 400.000 $ ne avrebbe avuto uno di 440.000.

Ovviamente c’erano di mezzo le garanzie da presentare, ma essendo queste improntate sulla potenzialità[5] e non sulla realtà è ovvio che siano state abilmente bypassate.

La Borsa americana era in bolla speculativa, perciò con titoli gonfiati. Tutti avevano interesse a tenerli alti, anche perché la potenzialità del livello azionario raggiunto, di fatto, garantiva un elevato valore patrimoniale ai vari soggetti interessati. E su questo teorico[6] valore patrimoniale si innestavano garanzie e consumi.

Assommando però il debito pubblico e il debito contratto dalle famiglie per le spese eccedenti il reddito, ben si capisce che la cuccagna non poteva durare in eterno.

Il ceto medio, seguendo le regole keynesiane, aveva debordato ampiamente le stesse regole di Keynes sia individualmente sia nella conduzione aziendale, investendo (spendendo) più del dovuto rispetto tanto al reddito reale quanto al patrimonio effettivo.

Concedere un mutuo per un immobile[7] al 110% del costo reale che vuol dire? In via teorica che si concede il 10% in più del capitale occorrente per far fronte a piccoli imprevisti nella scadenza dei ratei, onde facilitare il creditore con una maggiore elasticità; ma se il cash in eccedenza lo si usa per acquistare una nuova auto, ben si capisce che il fine è stato ampiamente superato e aggirato.

Banche e finanziarie investivano (nel concedere mutui) contro ogni regola commerciale e finanziaria; ma siccome il personale di queste aziende fa parte del ceto medio, un tale sistema portava ad ogni soggetto reddito per le percentuali sui contratti o per i profitti a breve che ne derivavano. I super manager, ad esempio, avevano contratti anche sui volumi raggiunti e sugli utili annuali conseguiti.

Il circolo virtuoso è diventato un circolo vizioso basato sul consumismo e sulle carte di credito[8], che fanno perdere al cittadino la cognizione esatta del valore della moneta in rapporto al patrimonio posseduto ed al reddito percepito.

In pratica l’euforia borsistica aveva innescato un’euforia consumistica.

Da affermazioni elettorali, che dovranno logicamente essere tradotte in realtà, Obama afferma che intende ridistribuire il reddito usando la leva della tassazione: ridotta fino ai 100.000 $, con leggeri ritocchi al basso fino ai 400.000, stabile fino ai 600.000 e superiore oltre tale cifra.

In pratica la riduzione sui redditi medio bassi verrebbe compensata dall’innalzamento su quelli alti.

Personalmente attendo questa formula alla prova dei fatti per diversi motivi: a) ridurre le tasse sui redditi medio bassi in un momento di grave recessione è una manovra meramente populistica, per il semplice motivo che vi è già una disoccupazione crescente che colpisce questi ceti destinati a rimanere senza reddito; b) l’innalzare le aliquote sui redditi alti può produrre una fuga di capitali, ed essendo questi, oggi, prettamente finanziari, perciò estremamente mobili, sono difficili da localizzare e tassare.

La ridistribuzione del reddito non passa affatto dalla semplice variazione delle aliquote, ma ben altri fattori!

Il futuro, dunque, non è roseo; e non lo è neppure da noi.

Unioncamere comunica che solo in Veneto tra marzo e settembre hanno chiuso i battenti ben 4.000 aziende.

Non mi voglio soffermare sul fatto se queste abbiano lasciato importanti pendenze finanziarie in essere, bensì sulla gravità della situazione in una zona che fino a poco fa veniva considerata il treno produttivo del paese.

In Valle Seriana, una tra le valli più industrializzate d’Italia, le aziende manifatturiere stanno chiudendo in rapida sequenza e pare che per Natale ben 4.000 persone saranno rimaste quest’anno senza lavoro.

Le aziende finora hanno prodotto per immagazzinare il prodotto finito, ma è da febbraio che non raccolgono più ordini. Ed un’azienda senza ordini è un’azienda morta. La crisi non è dovuta per prodotti non più competitivi o non più richiesti, ma solo per una drastica contrazione della domanda che ha bloccato, di fatto, il mercato, uniformando di conseguenza, per riflesso, il commercio.

A Prato le aziende legate al tessile hanno chiuso nella stragrande maggioranza, in parte sostituite da aziende a conduzione cinese, che usano per manodopera connazionali spesso clandestini e sottopagati, quasi reclusi.

La situazione è abbastanza similare anche altrove e non solo in Italia.

Per rendersene conto bastava essere un frequentatore delle fiere internazionali di settore, dove la crisi la si vedeva avanzare a grandi passi già da tempo.

Pure le banche sono in grave affanno sia per i crediti in sofferenza, sia per le perdite subite in speculazioni poco avvedute, sia per il crollo dei titoli azionari e … molto di più per non avere un patrimonio proprio capace di far fronte al rischio: si è speculato con i fondi della clientela o con somme prese in prestito sul sistema interbancario.

I manager, ovviamente, addossano le colpe della difficoltà attuale a fatti imprevedibili; personalmente li addebito a poca efficienza, a scarsa lungimiranza e ad etica superficiale, oltre al mancato rispetto delle regole stesse e in particolare di Basilea 2.

Le banche italiane, tuttavia, per ora sono riuscite a fluttuare discretamente nel mare tempestoso della crisi e l’intervento statale è stato dato come disponibile.

Il profitto aziendale è ancora in utile, pur se dimezzato, ma si sa che questo è stato ottenuto sia con l’aumento progressivo degli oneri bancari, sia con l’innalzamento dei tassi debitori, di molto superiore al rapporto TUS/Tasso praticato; fatto che, oltre alla carenza di credito, sta strozzando nei costi le aziende ancora sul mercato.

Poi, ovviamente, vi sarà da contabilizzare le perdite avute per partecipazioni nelle aziende fallite, comprese quelle americane.

Vi sarebbe la necessità di non distribuire il dividendo[9] per alcuni anni, dove ciò è ancora prodotto, onde potenziare il capitale proprio attualmente carente. Ciò porterebbe inevitabilmente a confermare la tragicità della situazione e a far fuggire il piccolo risparmiatore (cassettista) che, privato pure del dividendo, non vedrebbe più l’utilità di mantenere in essere un investimento già più che dimezzato dalle attuali quotazioni. Perciò si è intenzionati ad optare per una via di mezzo: niente dividendo in contante, ma solo in titoli od obbligazioni.

D’altronde l’ultimo trimestrale delle varie banche evidenzia una vera e propria caduta dei profitti. Come emerge chiaramente che le imprese operanti nel settore finanziario (banche e anche compagnie d’assicurazione: che sono all’origine della crisi finanziaria mondiale) hanno stati patrimoniali basati sulla leva, cioè sull’indebitamento eccessivo; in poche parole evidenziano una grande carenza di capitali propri, sicché vi è la necessità, per molte, di un robusto intervento dello stato.

Non volendo variare l’assetto azionario esistente i manager bancari affermano di avere un solido stato patrimoniale[10] sufficiente, anche se in molti casi auspicano l’intervento dello Stato per aggiungere capitale fresco, sotto forma di prestito subordinato, ai mezzi propri.

Ciò, ovviamente, è in netto contrasto con quanto declamato e cela, sotto le affermazioni di facciata, il non voler ammettere gli sbagli effettuati.

L’eccesso di indebitamento, infatti, non è una circostanza che si crea all’improvviso, ma un fatto che si determina con gradualità nel tempo, specie se si è fatto un grande e grave ricorso continuo ai Derivati[11].

Il non ammettere le proprie colpe indica, a mio parere, l’incapacità ad ammettere i propri sbagli, perciò l’intenzione di proseguire su una strada errata e pericolosa.

Forse, dietro questo amletico dilemma, come pure il non voler accettare l’intervento statale come diluizione dell’assetto azionario, si cela la salvaguardia della propria posizione, considerato pure che i vertici dirigenziali sono sostenuti da un assetto azionario composto da manager, che sono il frutto di altri identici assetti azionari a situazione analoga precaria.

Tremonti afferma che se le banche falliscono i manager devono andare in prigione e sottostare al giudizio della legge.

Personalmente, per quanto mi è lecito esprimere democraticamente, preferirei che, anziché aspettare il fallimento di una banca, il prestito subordinato fosse concesso previa rimozione dei manager che hanno condotto ad una simile situazione, considerato pure che questi continuano a gestire capitali (risparmi) privati dati loro in affidamento.

Perché, alla conta finale, non vorrei che il contribuente, finanziando lo Stato le banche, si debba accollare tanto la perdita del capitale dato in affidamento, quanto il sostegno finanziario pubblico concesso per scongiurare la tragica soluzione finale.

Ed allora oltre al danno si assommerebbe la beffa.

Perché, alla fine, si sa come certi procedimenti penali vanno poi a finire.

La classe media è, nella realtà, quella che ha travalicato le sue stesse regole; e lo ha fatto perché il controllo della situazione era nelle sue mani.

L’iniziativa privata è un’ottima cosa, se questa viene praticata nel rispetto non solo del buon senso, ma delle regole comportamentali codificate che ogni società si da.

Diversamente il rischio e la bramosia dell’avere, e dell’ottenere facilmente, portano ad un uso spregiudicato del capitale, ancor più se questo capitale non è proprio, ma acquisito in affidamento.

E quando l’apparenza prende il posto dell’essenza, allora è sicuro che questa (apparenza) diventi uno strumento rischioso nelle mani dello speculatore, sia che per speculazione si intenda un’attività commerciale o industriale, sia che venga inglobata in un circuito finanziario (banche e assicurazioni).

Il “giusto” guadagno dovrebbe essere il parametro imprescindibile dell’operare; perché è ovvio che, se lo si ottiene con poca fatica e con strumenti (Derivati) artificiosi, allora questo guadagno sia solo virtuale: una patata bollente che è destinata a scottare, nel tempo, sia l’onesto investitore (chi dà in affidamento il proprio risparmio), sia lo speculatore che a forza di rischiare l’osso del collo prima o poi se lo spezza.

Il nostro Debito pubblico in un anno ha assommato altri 46 ml di € al precedente. Calcolato pure che la caduta del commercio e la chiusura di migliaia di attività produttive porterà con sé un aggravio della spesa destinata al welfare per sostenere la disoccupazione, ben si capisce che lo stanziare nuove somme destinate all’investimento, onde sostenere l’economia, dovrà realizzarsi esclusivamente facendo ulteriore ricorso all’indebitamento, sia che venga contabilizzato in bilancio, sia che venga estrapolato da questo. E ciò nella sicura probabilità di un calo delle entrate fiscali per la recessione in atto.

Ho sentito una dichiarazione politica che ipotizzava l’emissione di titoli di stato perpetui.

Certo, in questo modo non si avrà più il problema di dover restituire l’importo sottoscritto; ma è ovvio che paia un’operazione finanziaria truffaldina tesa a corrispondere il solo interesse.

Chi si ricorda le cartelle fondiarie e la fine che fecero, ne tragga le relative considerazioni di merito.

L’investire sul disavanzo (debito) per muovere l’economia e produrre reddito per alcuni deve sembrare d’essere il dio della situazione, che creò il mondo dal nulla.

Solo che il nulla è invece ciò che si è ricevuto in affidamento e che, anziché “creare” reddito, si è, in alcuni casi, dissolto (dilapidato) nel nulla, speculando oltre ogni regola e senza alcuna decenza.

Forse sarebbe il momento di spiegare a tutti che la cicala vive e canta non preoccupandosi del futuro, al contrario della formica che lavora e risparmia per i tempi di carestia.

E l’economia, disgraziatamente, si fonda su solidi presupposti basati sul lavoro e non sul divertimento nello sperpero di capitali spesso inesistenti e solo virtuali.

E ciò non è eticamente corretto; come non lo è l’ammassare debiti che non si sarà mai in grado di restituire.

A meno che si faccia come quel tale il cui problema principale non era quello di dover saldare il debito, ma solo quello di poterlo fare: l’ottenerlo dai gonzi che non l’avrebbero più ricevuto in restituzione.




[1] - Dal francese: redditieri.

[2] - Culturalmente e politicamente, ad eccezione di alcuni rarissimi giovani rampolli che giocano a fare i rivoluzionari adagiati nella bambagia.

[3] - Assumere iniziative per accrescere il proprio potere economico e sicurezza esistenziale.

[4] - Idealizzabile nelle tute blu.

[5] - Di norma le garanzie si chiedono sul reddito percepito; però quello percepito è reale, quello che si percepirà è solo potenziale.

[6] - Il valore azionario dei titoli è solo un valore virtuale e mai reale; lo diventa solo quando il titolo viene monetizzato, perciò ceduto ad altri. Tuttavia il valore virtuale dei titoli viene usato generalmente per stabilire il patrimonio del possessore stesso (individuo o società) in base alla quotazione momentanea. Ovviamente tale sistema viene usato pure per stabilire il valore virtuale di ogni altro bene posseduto (immobile, proprietà fondiaria, opere d’arte …)sul valore di mercato. Val la pena ricordare che abitualmente, nei bilanci aziendali, il bene destinato alla rivendita va considerato al valore di carico iniziale, perciò al prezzo del costo effettivo.

[7] - Va pure sottolineato che questo metodo finanziario di massa ha gonfiato eccessivamente il prezzo del mattone, portandolo a bolla speculativa. Perciò sia chi riesce a far fronte all’impegno mutuatario, sia l’azienda che, per insolvenza, si ritrova a dover realizzare con la vendita l’immobile mutuato, non riescono a rientrare della somma investita.

[8] - Molti analisti sottolineano come il pericolo dei debiti inesigibili dovuti alle carte di credito possa essere superiore ai danni arrecati dai subprime.

[9] - Alcune notizie in proposito hanno affossato alcuni titoli bancari con percentuali a due cifre in una sola seduta e, in alcuni casi, in più sedute settimanali.

[11] - Una domanda interessante è proprio questa: se lo stato patrimoniale è solido e sufficiente, perché si è fatto grande uso dei Derivati per tutelarsi? - I Derivati e i CDS.

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