mercoledì 28 settembre 2011

Stato e moneta.


Istituendo l’ ci si è dimenticati che prima della moneta dovrebbe sempre esserci uno stato.


La storia, infatti, insegna che prima vi è uno stato e poi si crea una moneta; diversamente non si sa dove, come, perché e quando una moneta possa essere valida. Perché una moneta priva delle proprie armi di difesa è destinata solo a cadere.


L’Ue non è uno Stato né di fatto, né potenziale, così com’è ora percepito: è una semplice unione di comodo. E l’istituire l’€ parve ai fondatori un possibile rimedio alla crisi economica che un po’ ovunque si stava delineando: crisi che non sapevano contrastare se non espandendo continuamente il debito sovrano.


Infatti, se ben ci si ricorda, molti politici hanno affermato – e alcuni lo dicono pure ora – che l’€ ci ha messo al riparo da crisi ben più gravi.


Il fatto è inoppugnabile. Ci ha protetto facendo incancrenire la situazione e distruggendo ingenti risorse pubbliche e private, togliendo ad ogni singolo stato in difficoltà l’arma convenzionale per poter procedere senza violenti contraccolpi sociali: la svalutazione secca o strisciante.


Se la Grecia avesse oggi ancora la Dracma – Turchia docet -, è ovvio che non sarebbe in un reale default, proprio perché la svalutazione avrebbe corretto sia il tenore di vita, sia l’ammontare reale del debito, perciò anche le spese. Cittadini e investitori avrebbero soggiaciuto ad una svalutazione che comunque li avrebbe in parte tutelati da un secco ridimensionamento imposto da fuori, come ora sta avvenendo, e creando, di conseguenza, sfiducia nel futuro e gravi moti sociali.


Forse (è auspicabile) l’€ non crollerà e il contagio si circoscriverà, ma l’austerità/pena morale potrà innescare una grave turbolenza sociale, già presente in molte nazioni pur se in modalità diverse.


La grande disoccupazione porta molti alla disperazione: in media si è sul 9%/10%, in Spagna oltre il 20%, in Grecia oltre il 16% e in Portogallo oltre il 13%. Cifre estremamente preoccupanti, perché a queste andrebbe aggiunta la percentuale di chi, sfiduciato, vive di espedienti e nella precarietà e il lavoro non lo cerca più.


Chi gestisce l’€? Uno stato? No! Un organismo (quasi) indefinito che non è né carne né pesce, spesso diviso da interessi e su modalità di indirizzo economico, finanziario, strategico e anche politico: quello soggetto ai vari G7, G8, G20, Ecofin o dei capi di stato Ue.


L’€ è di (quasi) tutti gli europei, essendo moneta comune; ma nella realtà è di nessuno perché non è soggetto al popolo, ma solo alla grande finanza globalizzata che lo ha voluto per facilitare senza alcun vincolo i propri interessi.


I paesi in difficoltà hanno bisogno di un aiuto esterno non possedendo più la propria autonomia monetaria in grado di poterli rendere competitivi con la svalutazione; ma questo aiuto è soggetto sia al mercato – che con la speculazione sui differenziali acuisce ulteriormente le difficoltà – sia agli stessi stati economicamente potenti dell’unione che ne dettano le condizioni, in pratica commissionando i vari governi.


Se vi fosse stato un’Ue con un unico indirizzo monetario, economico, finanziario e politico la strategia sarebbe stata chiara e i danni attuali molto minori, perché gli altri paesi con propria moneta pur nelle difficoltà non rischiano il tracollo che nell’Ue si sta manifestando sempre più minaccioso e vicino.


La strategia delineata nei giorni scorsi al G20 è assai tardiva e i 3.100 mld di € messi in campo sono solo la somma dei debiti sovrani dei paesi in difficoltà. Somma virtuale che per essere elargita avrà bisogno di forti ridimensionamenti nazionali, atti solo a generare ulteriore recessione e povertà.



La crisi dei Subprime non è stata la causa del tracollo delle economie occidentali, ma solo la scintilla, perché il sistema di mercato aveva già degenerato, creando quei danni che persistono pure oggi e che via via si sono moltiplicati.


I governi hanno cercato in vari modi di contrastare la recessione usando armi convenzionali vecchie e spuntate, utili solo un secolo fa quando l’economia era molto diversa: i tassi, l’iniezione di liquidità, i tagli e il rilancio della produzione, perciò dei consumi.


L’economia si può espandere e può creare benessere solo se è destinata all’export, in grado quindi di generare quel surplus commerciale atto a motivare e a rendere redditizio l’investimento fatto; ma se tutto è relativo solo al mercato interno si innesta quella spirale negativa che può solo espandere il consumo e con questo il debito, rendendo l’investimento produttivo solo fine a sé stesso. Si potenzia solo la ricchezza di alcuni, aumentando la disparità sociale.


Ora pare che la Bce di Trichet voglia ravvedersi e riabbassare i tassi, in pratica contraddicendo sé stessa. Paventava l’inflazione, mentre i pericoli reali sono la disoccupazione e la recessione.


La Grecia non potrà essere salvata se non o con l’assistenzialismo comunitario a fondo perduto o con una drastica ristrutturazione interna che aumenterà miseria e disoccupazione.


Entrambi non sono la risoluzione del problema, ma solo l’ulteriore degenerazione d’esso. Il primo sottintenderebbe la ristrutturazione del debito, il secondo una prolungata recessione.


Il Governo Papandreou non è libero di decidere, perciò non è soggetto al popolo, ma è solo vincolato alle imposizioni internazionali che lo rendono di fatto schiavo della volontà (interessi) altrui.


Sicuramente alla Grecia sarebbe utile fallire e ricominciare di nuovo, come altri paesi han fatto in precedenza. L’appartenenza all’€ non glielo consente, proprio perché non avendo una moneta nazionale non può intervenire sul cambio. Né può sottrarsi all’€, perché gli equilibri della moneta comune sono delicatissimi e difficilmente quantificabili e divisibili nella complessiva massa monetaria.



Nella società civile ogni anno e in ogni stato vi sono aziende che falliscono. Ciò, ovviamente, crea dei problemi ai creditori, ma non per questo tutto crolla. Vi sono aziende che nascono e altre che muoiono. Se l’azienda è importante si può innescare un effetto domino, ma solo perché oggi tutto si basa sulla leva e non sul risparmio reale, quindi sul capitale proprio.


La Lehman Brothers è fallita, ma pur con grandi sconquassi il mondo non è crollato. Gli sconquassi sono avvenuti perché troppe aziende finanziarie praticano il rischio spropositato.


Lo stesso avverrebbe per la Grecia, pur se altri paesi ne subirebbero delle conseguenze. Molte banche dovrebbero essere ricapitalizzate; ma se non avessero leva eccessiva il danno si limiterebbe ad aver perso solo una parte del capitale.


Ciò invece non avviene per il semplice fatto che il rapporto capitale impegnato/capitale versato è sproporzionato e basato spesso su una leva eccessiva che moltiplica i pericoli e la fragilità stessa dell’investitore, rifacendo cadere il rischio anche sul suo creditore.


Pensare che 3.100 mld di € virtuali siano sufficienti a calmare i mercati mobiliari e a farli rimbalzare può essere un ragionamento condivisibile solo a brevissimo tempo. Diversamente si è solo degli illusi, sia che ciò avvenga al G20, sia in sede Bce, perché i paesi in difficoltà avranno bisogno d’essere assistiti ancora per molti anni se si vorrà evitare il default, perciò … mantenuti.


I titoli finanziari da troppo tempo stanno riducendo il loro valore, proprio perché la grande finanza che opera sul mercato ritiene il pericolo sempre maggiore. Si innesta in forma parallela e contraria lo stesso circolo dei differenziali: maggior rischio/maggior interesse, maggior rischio/meno valore.



Rilanciare il Pil necessita di ingenti capitali che per essere recepiti sul mercato devono offrire allettanti interessi. Ciò rende l’investimento oltre che rischioso scarsamente redditizio.


Aumentare il debito sovrano per rilanciare il Pil, stante il suo ammontare, non è più possibile, perché si innesterebbe, come avvenuto in Grecia, la via del non ritorno.


Sostenere, aumentandolo, i titoli sovrani con l’Efsf non ha alcun senso, perché indebolirebbe gli stati sani, ponendoli sotto la scure di un possibile declassamento, quindi della speculazione.


Perciò, per salvare il salvabile (l’€ e l’Ue) rimane solo la creazione di un organismo sovranazionale atto a sovrintendere bilanci, titoli sovrani, politica finanziaria, economica e monetaria. E con ciò anche un titolo sovrano unico: l’Eurobonds.


L’economia reale non è sempre quella virtuale del mercato che, al massimo, ne anticipa gli effetti e i corsi.


Tuttavia per renderla autosufficiente, perciò compatibile con la probabilità assai prossima alla realtà, ha bisogno di molte riforme strutturali.


Una riforma è tuttavia imprescindibile su tutte: quella della ristrutturazione del mercato, perché questo diventi un punto d’investimento e non di sola speculazione.


È inconcepibile il fatto che il rigore di bilancio inteso a ridimensionare l’esposizione finanziaria (debito sovrano) non venga altresì applicato a tutti quei soggetti che praticano una leva eccessiva.


La Tobin tax, e altro, può essere utile, se inglobata in un progetto atto a far diventare un investimento un suo radicarsi come soggetto su uno specifico territorio. Diversamente rimarrà sempre la speculazione e ogni nuova tassa un balzello utile solo a fare cassa, perciò a ridurre il capitale disponibile sul mercato.



La crisi ha cambiato modalità di vita e ha fatto comprendere a tutti che si è vissuto per lungo tempo come le cicale, facendo leva sul debito sovrano.


Perciò molte aziende saranno superflue e dovranno essere convertite, puntando soprattutto sull’innovazione tecnologica.


In Europa non si capisce perché si persegua ad avere eccessivi doppioni - aziende peraltro in crisi - su determinati prodotti – come ad es. l’auto – quando molte di queste sono costruite usando non solo la stessa tecnologia produttiva e lo stesso progetto, ma anche gli stessi identici pezzi. Serve una vera ristrutturazione e una razionalizzazione anche del manifatturiero.


Il mercato è saturo e la riduzione del benessere sarà lunga e progressiva. Non si può continuare a puntare sul solo consumismo interno.


Perciò servirà non tanto tutelare il posto di lavoro, ma soprattutto l’operaio.



Pensare di risolvere questa crisi aumentando la crescita, facendo affidamento sulla liberalizzazione delle professioni, sulla flessibilità del mercato del lavoro, su un nuovo progetto educativo e formativo, sul taglio a stipendi, pensioni e personale, senza provvedere a creare almeno un’unità decisionale centrale sul sistema economico e finanziario non ha alcun senso. Molte di queste riforme strutturali hanno bisogno di tempo e danno i loro frutti solo a medio lungo termine.


Lo scricchiolio di alcuni paesi Ue però non lo concede e ogni giorno che passa ridurrà notevolmente le possibilità di rinascita ed aumenterà i necessari costi, oltre ai pericoli.


Finora si è provveduto con tardivi tamponi capaci talora di far rimbalzare momentaneamente i mercati.


Ciò, tuttavia, non ha impedito che il crollo delle quotazioni sia sceso ben al di sotto dei minimi storici precedenti.



Una moneta è valida e difendibile quando vi è uno Stato. È solo un oggetto di transazione di comodo quando questo non esiste, perciò destinata a cadere.


Una nazione la si difende specie con il cambio, ma se non ha una propria moneta è ovvio che nel tempo sia destinata a fare solo default, specie se i suoi titoli sovrani sono in balia dei differenziali dettati dal mercato.


Vi è un parametro tra affidabilità e tassi; ma se si innesta la spirale della speculazione quella nazione è solo destinata ad affondare e tutte le risorse messe in campo per tenerla a galla saranno sprecate.


All’Ue per difendere l’€ serve un forte Governo centrale, perciò deve diventare uno Stato!


mercoledì 14 settembre 2011

I gravi errori di Trichet e dei politici.


La Grecia sta diventando un problema infinito e gli esperti stanno studiando un piano pilotato per concederle un default graduale. Quanto questo costerà all’Ue si vedrà, considerato che in base al Trattato di Lisbona nessuno stato membro può abbandonare o essere costretto a lasciare l’Unione.


I trattati, tuttavia, la storia insegna che si fanno e si … disfano, secondo le opportunità e le necessità del momento.


Il paese ellenico, che da solo 10 anni sta nell’Unione, ha dilatato oltremisura il suo debito e c’è da sottolineare che glielo hanno lasciato fare, oltre a favorirlo con abbondanti sovvenzioni comunitarie. Il che è tutto dire.


Ora il rigorismo di bilancio, unito a una forte e moralistica punizione (debito/dissolutezza, austerità/pena) stanno producendo un guaio ancora maggiore, sia perché la scintilla greca ha contagiato quasi subito in modo sequenziale i paesi periferici maggiormente indebitati (Portogallo e Irlanda), sia perché ora ha indotto i mercati a colpire in modo referenziale paesi ben più forti (Spagna e Italia) dove i conti non sono, in effetti, tanto catastrofici.


Ciò che li rende pericolosamente tali sono i differenziali alti, che costringono i paesi colpiti dalla speculazione a continue manovre correttive di bilancio. E queste, inevitabilmente, oltre a gonfiare il debito impongono salassi anche strutturali, privando i paesi interessati di importanti risorse, mandandoli prima in stagnazione e poi in recessione.



Se il differenziale greco ha superato i 1700 pb lo si deve al fatto che la banca centrale ellenica non può intervenire sul mercato in difesa dei propri titoli, per più motivi: non ha risorse, non ha più la propria moneta e deve sottostare a dettami comunitari. Perciò su questi 3 punti si innestano sia gli errori di Trichet che della politica, che pensano di poter ricorrere al rimedio con la costrizione, perciò con un commissariamento impositivo: o così o niente aiuti.


Un differenziale tanto alto impone solo il tracollo economico; perciò ben si capisce perché i greci siano restii non solo a risanare il proprio bilancio, il cui sforamento è dovuto anche ad interessi altissimi da pagare, ma pure ad effettuare le privatizzazioni necessarie previste dalla manovra (5 mld nel 2011), in pratica svendendo la Grecia alla finanza globalizzata.



Trichet, fin dal suo avvento alla presidenza della Bce, ha messo in chiaro la sua psicosi maniacale per l’inflazione e per la stabilità dei prezzi, usando il tasso come arma impropria. Sicché, mentre gli Yankee lo abbassavano per favorire l’economia, lui lo innalzò costringendo stati ed aziende ad una forte contrazione di liquidità. Proprio l’esatto contrario di quanto sarebbe dovuto essere fatto, perché ciò creò alta disoccupazione che è il male peggiore per un’economia moderna.


Poi, a danno fatto, lo ha ridotto; per procedere poi quest’anno ad elevarlo del 50% ancora per contenere l’aumento dei costi delle materie prime (leggi petrolio) il cui andamento non è dovuto a pure cause inflattive, bensì di mercato.


Trichet, ovviamente, non governa da solo la Bce, perciò la responsabilità è collegiale. E qua si innestano gli errori della politica che piazza propri uomini al centro di comando finanziario dell’Ue.



Le nazioni forti e con bilanci corretti sono per lo più capeggiate dalla Germania, che con la Merkel vede l’economia come una semplice derivazione di una comune legge fisica, facendo del rigorismo morale la regola unica di bilancio.


L’economia non è però statica, ma ha bisogno di continue variazioni che seguono esigenze diverse.


Un sasso lanciato in aria per la legge della gravità cadrà sempre a terra, seguendo un predefinito parametro peso/massa, gravità.


Un bilancio, invece, è soggetto a delle finalità, perciò ad un preciso progetto di espansione, di risorse, di mantenimento o di contenimento. Il basarlo su un puro fatto di rigorismo morale è controproducente.


Nella seconda metà del secolo scorso, grazie anche alla degenerazione interpretativa della teoria keynesiana, moltissimi stati hanno espanso in modo abnorme il proprio debito.


L’Italia, ad esempio, per reperire risorse giunse ad offrire interessi a 2 cifre sui propri titoli, costringendo le proprie aziende a pagare interessi bancari spesso anche superiori al 20%, creando di fatto una situazione insostenibile.


Tali interessi, benché alti, erano però calmierati dalla svalutazione progressiva che la moneta subiva, perciò anche della riduzione sistematica di valore del proprio debito: se i titoli venivano attaccati la Banca d’Italia li acquistava stampando cartamoneta, perciò immettendo liquidità sul mercato e svalutando progressivamente. Ciò creava un circolo vizioso atto ad alimentare un debito (inflazionato) maggiore, ma nel frattempo favoriva l’esportazione e perciò la produzione industriale.


Il grave era che questa tecnica era usata soprattutto per accaparrarsi voti, volta quindi ad una stabilizzazione temporale del potere politico acquisito, spazzato poi via con tangentopoli.



La Grecia sarà costretta in pratica ad uscire dall’€ e dall’Ue, stando così le cose. La liquidità necessaria per non fare default è, infatti, vincolata ad una drastica austerità atta a correggere il bilancio, impossibile da sistemare con tassi tanto elevati.


Quindi: niente aiuti default certo! Fatto che la troika Ue/Fmi/Bce ha ampiamente più volte ribadito.


Tuttavia questa nazione si trova nella kafkiana situazione che non può lasciare la zona €, ma non ha neppure le risorse necessarie per rimanerci. Sarà perciò solo una questione di tempo, sufficiente a trovare la soluzione politica per lasciar andare la Grecia, in pratica costringendola ad estromettersi da sé in barba agli statuti giuridici comunitari.


Ciò creerà ingenti problemi alle banche franco tedesche, i cui stati dovranno provvedere a ricapitalizzare per non farle fallire, perché ben che vada i titoli ellenici subiranno una svalutazione secca superiore al 50%.


La Grecia, infatti, per salvarsi da sé dovrà ridurre il proprio debito dai circa 400 mld attuali ai circa 150/200 massimi.



Ciò che è possibile per la Grecia non sarebbe però possibile per l’Italia, che in pratica è troppo grande per fallire e troppo grande per essere salvata.


1.900 mld di obbligazioni sovrane – il 120% del Pil - sono, infatti, classati per circa il 45% all’estero e ciò porterebbe al fallimento certo di tutte le banche italiane ed estere, o perché direttamente detentrici del debito, o perché controparti del debito stesso.


Il problema greco è perciò quasi irrilevante per l’Ue, in quanto il pericolo vero viene dal mercato, perciò della probabile frattura che l’impatto Italia può creare su tutto il sistema.


La Bce ora ha una sola alternativa pratica, nonostante le fratture di impostazione del proprio board: continuare ad acquistare titoli italiani per mantenere i tassi bassi e battere la speculazione. Il farlo in modo virtuale non è però sufficiente, perché ciò può essere fattibile solo a breve tempo. Bisogna farlo stampando moneta e con questa acquistando titoli.


Ciò creerà svalutazione strisciante e inflazione; anche se è discutibile quanto questa possa essere elevata in un’economia fortemente depressa. L’investitore teme il default e non l’inflazione.


Tutto ciò è l’esatto contrario di quanto il rigido rigorismo di Trichet ha sempre perseguito.



In precedenza (L’Occidente verso un collasso economico e strutturale.) ho affermato:


Non conosco le motivazioni di Stark, né, ben inteso, il suo intendere l’economia/finanza nel grave momento attuale. Tuttavia se fossi stato al suo posto avrei votato contro il riacquisto dei Titoli sovrani, di qualsiasi paese questi fossero.


L’acquistare dei singoli titoli sovrani non è la risoluzione del problema, sia che ciò venga fatto in modo virtuale, perciò provvisorio, sia come regola di tutela del mercato, perciò dell’economia stessa Ue.


L’immettere liquidità coniando nuova moneta, svaluterebbe, di fatto, l’€, ma non salvaguarderebbe con benefici l’economia in difficoltà, perciò quelle attaccate dal mercato: rimarrebbero sempre deboli e non acquisirebbero vantaggi competiti su quelle forti in seno Ue. Perciò senza un sostanzioso incremento del Pil i problemi persisterebbero, come rimarrebbe immutato il singolo debito sovrano stesso.


Serve pertanto puntare su un titolo comunitario – Eurobonds – in grado di parificare i differenziali ovunque, perciò capace di concedere ai paesi in difficoltà, o attaccati dal mercato, di condurre una programmazione sicura atta sia a rientrare dal debito accumulato, sia a potenziare il Pil.


E ciò non può essere fatto se il costo del denaro, perciò del debito, può variare facilmente sul mercato, costringendo gli stati coinvolti a continue manovre correttive.



L’Inghilterra ha un bilancio statale e privato sicuramente peggiore di quello italiano e spagnolo; tuttavia ha mantenuto la sterlina come propria moneta e perciò la Banca d’Inghilterra può proteggere come meglio crede i propri titoli obbligazionari. Tant’è che il surplus commerciale è cresciuto.


Quasi ovunque il rendimento dei titoli sta scendendo, proprio perché il mercato comprende che diversamente il sistema salta, creando quella condanna autoreferenziale che si basa sulla carenza di fiducia: tassi alti corrispondono a maggiore possibilità di default, innestando di conseguenza un pernicioso circolo vizioso


La stagnazione giapponese, iniziata 2 decenni fa, fa testo in proposito con tassi continuamente prossimi allo zero.


L’Inghilterra attualmente sul titolo decennale paga il 2,5%, il Bund tedesco 1,85%, gli US Treasuries l’1,98%. Mai, dopo la seconda guerra mondiale, i tassi furono così bassi; ma Spagna e Italia superano attualmente il 6% e sono fuori dal mercato.


Se la Bce non avesse aumentato il costo del danaro il Bund oggi sarebbe presumibilmente all’1.40% circa.


Le differenze dei rendimenti attuali europei sottolineano che le varie economie hanno costi d’interessi diversi, specie là dove i paesi attaccati dalla speculazione triplicano il tasso rispetto al Bund.


È perciò ipotizzabile che oggi un Eurobonds, con la simultanea riduzione del TUS Bce, si assesterebbe ben sotto il 2%, concedendo anche alla Grecia di riprendere vigore pur con la necessaria solidarietà internazionale.



Il rigorismo morale di molti paesi è deleterio, perché porta ad un’ampia recessione: è uno stoicismo masochistico. Cosa che i governanti europei ottusamente non vedono né intendono. Il Pil della Grecia, infatti, sta viaggiando verso il -4%.


Se un deficit fiscale deve essere necessariamente ridotto, pure l’economia si contrae, perché le eccedenze tendono forzatamente a crollare.


Il privato (cittadino e azienda), infatti, davanti alla prospettiva di nuove tasse tende a risparmiare, contraendo non solo i consumi, ma cosa ben peggiore gli stessi investimenti. Perché maggiore è il surplus del settore privato, più rapidamente il privato riesce a pagare i propri debiti, perciò a ricapitalizzare anche banche e società, dando così linfa anche alle casse statali, proprio perché vi sarà un maggiore deficit fiscale di compensazione.


Diversamente sul mercato si innesta quella turbolenza finanziaria che si alimenta da sé; una fuga privilegiata di capitali verso approdi sicuri in ogni area: il dollaro negli U.S.A., la sterlina nel Regno Unito e il Bund nell’Ue.


Ne consegue che la regolazione finanziaria tra le varie aree valutarie interessate avvenga con i tassi di cambio, piuttosto che con i tassi di interesse, correggendo quindi la disparità pratica delle varie monete.


L’€, tuttavia, è l’unica moneta di una grande regione geografica che non ha un governo unico, un comune bilancio, né una collegiale strategia economica e finanziaria. Perciò è ovvio che la regolazione finanziaria non possa avvenire col tasso di cambio, ma solo con i differenziali tra le varie comunità Ue, privilegiando, di fatto, l’area forte e condannando l’area debole. Proprio il contrario di ciò che dovrebbe succedere.


Il mercato ci indica che privilegia un tasso di interesse basso, perché ciò favorisce il bilancio e l’investimento, per cui l’unico rimedio possibile è quello di tagliare i differenziali là dove sono troppo alti. Proprio perché la debolezza di uno porta al default sistematico autoreferenziale che si ripercuoterà su tutta la struttura economica e finanziaria dell’altro.


La Grecia, finché liberamente non se ne andrà, sarà una palla al piede anche delle nazioni forti, le cui banche hanno fatto l’esatto contrario di quanto il mercato indica da decenni, rischiando assai e portando il mercato a elevare in modo anomalo i tassi. I quali più crescono più fanno fuggire altrove i capitali.



Il Giappone all’inizio della sua lunga crisi ridusse drasticamente il proprio disavanzo, pensando che un decremento virtuoso e doloroso in un primo breve periodo fosse utile a ottenere una maggiore e stabile crescita nel lungo. Cosa che, in effetti, non avvenne portando il paese ad una lunga stagnazione che tuttora persiste.


La stessa cosa propone ora la Germania con alcuni autorevoli membri di governo (ministro delle Finanze), auspicando un necessario rigore dei bilanci e una salutare austerità, come se questa fosse la pena da pagare per l’espansione dei debiti contratti a suo tempo.


Una nazione, tuttavia, non potrà mai ridurre il proprio deficit, né evitare il fallimento, con una continua recessione o stagnazione. Specie se gravata da differenziali alle stelle.


Serve ai paesi in crisi avere un surplus nei conti con l’estero.


L’Ue è, di fatto, un’unione monetaria. Perciò i paesi che hanno un consistente surplus strutturale nei conti con l’estero è inevitabile che debbano finanziarie la controparte, o privatamente o pubblicamente. Diversamente i partners commerciali andranno in default, facendo crollare le loro economie e danneggiando in questo modo anche la nazione esportatrice.


Serve ben altro che il rigorismo morale tedesco e della Bce, atti solo a creare l’ottusità economica.



Si parla molto di riforme strutturali necessarie: alcune ipotetiche, altre abbozzate, altre indefinite, altre … inconcepibili.


L’unica riforma strutturale necessaria oggi è quella del mercato e di un comune titolo sovrano, perciò quella di concedere alle nazioni in difficoltà di resistere e di potersi riprendere, specie in ambito Ue. Per farlo vi è bisogno di coraggio, di altruismo, di coesione, di non addossarsi colpe pregresse e di avere un’unica strategia.


L’austerità draconiana estrema può solo innestare fallimenti inimmaginabili in tutto il sistema, portando seco gravissimi moti sociali.


Diversamente il bilateralismo Sarkosy/Merkel creerà più danni di quanto il mercato possa avere finora fatto con la compiacenza della stessa Bce, sia che si decida di assistere ancora la Grecia, sia di pilotarla verso un fallimento. E non credo che il previsto cambio tra Trichet e Draghi possa cambiare la sostanza del problema.


L’incognita non è la piccola Grecia, bensì l’Italia e la Spagna che da sole producono più del 35% del Pil comunitario, e che, guarda caso, hanno conti (bilanci) migliori di quelli inglesi.


Perché l’unica alternativa possibile oggi alla Bce è quella di rastrellare in continuità i titoli spagnoli e italiani, sperando così di vincere la speculazione e di calmare il mercato con la riduzione del differenziale. Ed è ciò che prima o poi sarà costretta a fare se non si vorrà affondare l’€. Quando e per quanto lo farà?


Ciò costerà troppo a tutti e non sarà un rimedio duraturo. L’unico rimedio sono gli Eurobonds che non possono però essere fatti senza una condivisa strategia comunitaria.


Il mercato ci dice che privilegia i tassi bassi e su quelli punta sicura la transumanza finanziaria, dando fiducia e perciò creando anche sviluppo.


Il non ascoltare il mercato sarà deleterio per tutti.









domenica 11 settembre 2011

L'Occidente verso un collasso economico e strutturale.


Benché il G7/G8 di Marsiglia avesse in programma la regolamentazione dei mercati e lo stato dell’economia mondiale, non pare che la strada maestra per la necessaria ristrutturazione, sia dei prodotti finanziari sia delle regole di mercato, sia stata imboccata.


Forse la crisi (ribasso) attuale dei mercati ha fatto passare in secondo piano la regolamentazione degli stessi, come se il risultato dell’uno non fosse dovuto alla causa dell’altro.


Le dimissioni di Jurgen Stark hanno poi preso il sopravvento su tutto, proprio perché da circa un mese – da quando la Bce decise di riprendere l’acquisto di Titoli sovrani dopo alcuni mesi di stasi – i contrasti nell’Istituto centrale di Francoforte erano diventati ormai insanabili.


Non conosco le motivazioni di Stark, né, ben inteso, il suo intendere l’economia/finanza nel grave momento attuale. Tuttavia se fossi stato al suo posto avrei votato contro il riacquisto dei Titoli sovrani, di qualsiasi paese questi fossero.


Sta di fatto che banchieri e politici non sanno quale strada maestra prendere per far uscire l’Ue, soprattutto, e l’economia occidentale, in generale, dallo stallo recessivo in cui l’hanno più o meno volontariamente infognata.


Perché una cosa deve essere perfettamente chiara: gli strateghi al vertice hanno fallito il loro compito sia nella comprensione, sia nella prevenzione, sia nella cura.



Pure negli States alcuni economisti cominciano a dire chiaramente che l’economia occidentale è sull’orlo del collasso totale e che la crisi finora vissuta sarà, procedendo di questo passo, ben peggiore della grande recessione del ’29.


Quella, infatti, fu dovuta in modo principale ad un’eccedenza alimentare produttiva con conseguente crollo dei prezzi, che rese controproducente economicamente la produzione agricola ed estrattiva.


Questa, invece, è dovuta sia ad una saturazione impropria del mercato consumistico – che ha diverse ragioni -, sia, soprattutto, ad una degenerazione di prodotti e di regole finanziarie che hanno innestato dei danni strutturali irreversibili, non correggendo i quali sarà sempre più difficoltoso procedere.


Obama pare non sapere che pesci pigliare e la sua “manovrina” (contentino) per stimolare l’economia è in pratica una goccia nell’oceano dei bisogni, ammesso che superi lo scoglio del Congresso.



Come già più volte ho affermato il salvare la Grecia sarebbe per l’Ue poca cosa e un minimo sforzo. Diventa un monte insuperabile se si considerano le difficoltà e gli ingenti debiti che attanagliano tutti gli altri paesi Ue mediterranei.


Di conseguenza salterà la stessa Ue e l’€, perché ormai è chiaro che senza una direzione centrale vi sarà solo l’assistenzialismo economico al sud (paesi mediterranei) pagato e finanziato dai paesi sani del nord. Situazione che non può reggere a lungo.


Farò un solo esempio per comprendere il problema sociale che si sta innestando pericolosamente: in Grecia si va in pensione a 53 anni, in Germania il metalmeccanico ci va a 67. Perciò se in Grecia ci si ostina a mantenere tale “privilegio”, bussando all’economia teutonica per reggersi in piedi, sarà molto difficile far capire al metalmeccanico tedesco l’utilità (?), lavorando molto più a lungo, del doversi sobbarcare continuamente il mantenimento (salvataggio) della Grecia colabrodo, già pagata con l’Esfs (fondo salva stati) molto più di quanto possa valere.



Far uscire la Grecia dall’€, restituendola alla Dracma è tecnicamente possibile, perciò concedendole con la svalutazione reale (secca di cambio) o strisciante (stampando progressivamente moneta) di salvarsi.


La svalutazione crea inflazione; la quale è la tassa più odiosa di questo mondo in quanto incide poco sul ricco e moltissimo sul povero. Ciò, tuttavia, e relativamente al discorso greco, ridurrebbe progressivamente i costi statali con il progressivo innalzamento dei prezzi che, essendo a carico del consumatore, ne ridurrebbero il tenore di vita. E pure l’investitore in titoli di stato è un consumatore finanziario.


In pratica si otterrebbe ciò che è avvenuto in Italia con l’avvento dell’€, che in molti casi ha svalutato le vecchie 1.000 £ al valore delle 2.000 (1 €), lasciando però inalterate le retribuzioni, perciò svalutandole, di fatto, con l’inflazione secca di cambio.


C’è però da considerare che la moneta è comune e che la sostituzione tecnicamente possa essere solo graduale e progressiva, ponendo di conseguenza delicati e fragili confini difficilmente controllabili e definibili.



Riacquistare titoli sovrani sul mercato è un semplice spreco di risorse finanziarie, perché serve solo a tamponare e non a risolvere, e diventa un controsenso economico e finanziario, specie se le regole di mercato rimangono inalterate: possibilità di vendita allo scoperto, trattazione simultanea su piazze diverse, possibilità ad ogni singolo stato di procedere con una propria politica monetaria.


Infatti, l’emettere liberamente titoli di stato per finanziarsi è un puro fatto di politica monetaria.


Ciò che tuttavia non è possibile ottenere con i singoli titoli sovrani, così come sono ora strutturati e commercializzati, sarebbe invece possibile o convertendoli tutti subito in Eurobonds, oppure con il procedere alla loro scadenza naturale con nuovi titoli comunitari sostitutivi, salvo un ferreo e centralizzato controllo vincolato a imprescindibili clausole di rigore economico/finanziario.


Pare che ai primi di agosto in seno alla Bce sia avvenuto uno strappo di impostazione, giacché i 2 rappresentanti tedeschi (più altri 2 del nord Europa) hanno votato contro il riacquisto, mentre a favore hanno votato tutti gli altri paesi. Ciò, tuttavia, esprime solo un’insufficiente democrazia fondata sul pro-nazione e non sul procapite, perciò imponendo a pochi (produttivi) i costi e ascrivendo i vantaggi (sperperi) a tutti gli altri. Fatto che è la negazione stessa del concetto di democrazia, di diritto e di dovere.



L’opporsi, stando così le regole di mercato, comunitarie e di voto, al riacquisto di titoli sovrani può essere considerato sotto due aspetti: il primo politico, il secondo di salvaguardia e di sopravvivenza.


Politico perché impone ai vari stati di essere autosufficienti e di provvedere da sé ai propri bisogni senza caricare su altri i propri costi improduttivi e di sperpero.


Di salvaguardia perché esime dal salasso finanziario senza fine gli stati virtuosi, trattenendo per sé risorse che in vista di un probabile collasso finale possano essere utili per reggere l’apocalisse finanziaria.


L’Ue, per essere valida, deve avere un unico governo, un’unica direzione e una comune strategia economico/finanziaria basata sull’effettiva rappresentanza demografica. Non può continuare ad avere una molteplicità di vedute e di strategie atte solo a produrre continui compromessi, sperando che le cose si risolvano da sé.


Augurarsi oggi che una forte ripresa produttiva negli stati in crisi possa rilanciare il Pil e con questo reggere i costi è solo utopistico, anche perché, stante l’ingente ammontare dei debiti, si dovrebbe dire dove le risorse atte al rilancio industriale/produttivo possano essere reperite.



Fino a poco tempo fa alcuni politici italiani andavano fieri e ringalluzziti del fatto che, avendoci portato in Europa, ci avevano posto al riparo di pericoli futuri, forse fidando nel fatto che i tedeschi ci avrebbero mantenuti tutti. E più volte ce lo hanno ricordato … superbi.


Chi avversò allora, fondandola su ragioni democratiche e economiche, questa indecente (politicamente) unione di comodo venne tacciato e denigrato come euroscettico; proprio come ai tempi dello sperpero dei governi di centrosinistra italiani a chi metteva in guardia per l’abnorme esplosione del debito pubblico gli si diceva se non vedeva che si stava tutti bene e perché si lamentasse.


I fatti attuali, però, indicano che ad un tempo di benessere relativo da cicala si dovrà porre rimedio con un lungo periodo di austerità, che metterà in serio pericolo anche l’esistenza dei nostri figli.


Se vi sarà il collasso strutturale di stati ed aziende, sarà una catastrofe sociale inimmaginabile che porterà con sé dei violenti moti popolari.


I popoli arabi si stanno ribellando a 50 anni di monocrazia; gli occidentali si ribelleranno all’allegra gestione delle finanze pubbliche e alle speculazioni finanziarie.


Sono tra gli ottimisti e penso che la situazione sia ancora recuperabile, pur con molti sacrifici. E più si procrastinerà l’intervento deciso, più vi saranno pericoli, difficoltà e costi aggiuntivi.


La violenta oscillazione dei differenziali pone in rilievo da una parte che più questi si impennano, più i costi diventano insostenibili; mentre dall’altra i mercati mobiliari crollano, vanificando risparmio, valore aziendale e bruciando gli investimenti di tutti. Il differenziale greco ha superato i 1700 pb; nessuna economia può sostenere interessi prossimi al 20%.


Siamo in un circolo vizioso dovuto all’incapacità politica di fare scelte opportune e precise, anche se impopolari: scelte non più procrastinabili.



In Cina l’inflazione cresce e oscilla sul 6/7%, mentre il Pil scende sotto le 2 cifre. Laggiù si è proceduto col cavalcare il liberismo occidentale e dopo l’esplosione produttiva ci si incammina verso la stessa crisi occidentale. Se si storna il Pil dal dato dell’inflazione, si vede che la produzione cinese è quasi normale.


L’incremento del Pil attuale non è tanto espresso dall’esportazione, che benché ancora sostenuta sta scemando per le difficoltà del mondo occidentale, naturale destinatario della produzione industriale cinese, bensì dall’esplosione del consumismo interno, che, in quanto tale, è destinato a bruciare ricchezza, risparmio e investimenti.


L’esposizione cinese sui titoli sovrani occidentali, specie U.S.A., è, in effetti, un’arma a doppio taglio; perché se da un lato, quando le cose vanno bene, incamera profitti (reinvestibili) da interessi, dall’altra, se va male, rende un capitale o nullo o svalutato.


In pratica è la stessa cosa di quanto avviene in società finanziarie tedesche e francesi, specie in quelle che hanno in portafoglio un ingente quantitativo di titoli ellenici.


Le principali banche italiane, invece, sono colme di titoli nazionali e perciò vincolate all’andamento del differenziale nostrano: sale il differenziale e crolla la quotazione. O viceversa. Si basano e hanno scommesso solo sulla tenuta del mercato interno.



Giorgio Napolitano invita tutti all’unità nazionale in questo momento di grave crisi; ma le forze politiche avverse hanno ben altro a cui pensare, intente al gioco dello scaricabarile populista e dell’addossarsi reciproche responsabilità, invece dell’assumersele.


Tutte invocano le riforme strutturali come un toccasana, anche se quasi nessuno ha il coraggio (la volontà) di indicarle e di formalizzarle.


La vera riforma strutturale, da cui non si può oggi prescindere, è quella della ristrutturazione del mercato, quindi delle regole operative che lo regolano. Non iniziare da ciò, sia a livello nazionale che occidentale, significa correre volontariamente verso il baratro, quel baratro che con voce ormai sempre più frequente viene indicato come collasso strutturale economico/finanziario.


Un pensiero va pure rivolto a Confindustria, la cui presidente attuale non si capisce bene se voglia fare l’industriale o l’assistita. Perché, seguendo i suoi sermoni da sibilla cumana, non afferro esattamente (eufemismo) dove stia l’imprenditoria privata, dove stia il rischio e dove stia la capacità di saper creare valore aggiunto alla nazione.



Un ultimo pensiero finanziario va alla ricorrenza dell’11 settembre, perciò a Bin Laden, il cui obbiettivo era quello di ridurre l’egemonia economica e finanziaria americana. Obbiettivo che è stato ampiamente raggiunto.


Gli U.S.A., infatti, dopo la prima reazione istintiva di procedere con nuove guerre per estirpare il terrorismo internazionale, hanno commesso molti errori di valutazione e di pianificazione, pur possedendo un’egemonia tecnologica e bellica unica.


Come è loro spesso abituale hanno proceduto troppo alla carlona.


Si sono ritrovati così a sprecare ingenti risorse finanziarie, se si pensa che le guerre intraprese abbiano dilatato il loro Debito sovrano in modo abnorme, in pratica quasi raddoppiandolo con le sole spese militari necessarie all’impegno d’intervento. Ciononostante vivono oggi sulla difensiva e sono ben lungi dall’aver risolto il problema.


Pure la Nato ha mosso guerra a Gheddafi e non si sa per quanto, dopo Afganistan, Iraq e Somalia, possa rimanere laggiù invischiata. Perché è chiaro che se la Nato oggi cessasse il suo intervento militare i ribelli sarebbero facilmente annientati.


Il mondo occidentale si sta suicidando con le proprie mani, cercando un’onorevole via d’uscita (fuga) che si chiama solo ritirata e sconfitta. Gli U.S.A. l’hanno già vissuta in Vietnam, ma da quell’avventura non hanno imparato molto.


E su questo ripetitivo interventismo neocolonialista ammantato da principi libertari e democratici (ipotetici) stanno costruendo la loro tomba: quella del diritto d’intervento in faccende altrui e quella della rovina delle proprie economie.


domenica 4 settembre 2011

Salvate il soldato Contribuente!


Chi pensava che la crisi del mercato avesse toccato il fondo, perciò che fosse in una fase di laterizzazione, probabilmente con gli eventi borsistici di venerdì scorso si sarà dovuto ricredere.


E la crisi del mercato coinvolge, inesorabilmente, i bilanci nazionali; tanto che or in una nazione Ue, or in un’altra, quasi settimanalmente spunta una manovra correttiva di bilancio.


Caso italiano a parte - dove ormai la pazienza di Tremonti, di aziende e di onesti cittadini è già allo stremo verso tutti (maggioranza e opposizione) - il caso più eclatante è sempre quello greco, dove da un paio d’anni i conti sono fuori controllo e in modo molto virulento influisce sui mercati.


Le finanziarie, in realtà, sono più virtuali che reali, fondate spesso su supposizioni di entrate o di tagli i cui obbiettivi non vengono poi raggiunti.


Il caso greco, relativamente alle privatizzazioni, è emblematico in tal senso, sia perché per la lentezza del parlamento non riesce a quantificare ciò che deve essere privatizzato, né quanto. Sicché la cifra posta a suo tempo in finanziaria rimane un obbiettivo puramente teorico, perciò un buco d’entrate difficilmente colmabile.



Lo stesso discorso vale per l’attuale finanziaria italiana che seppur ballerina, volubile, incerta e non ancora definita, viaggia nella realtà solo nella cifra ipotetica finale, senza che si giunga al dunque.


Le precedenti grandi manovre correttive di bilancio (Amato e Prodi) sono sempre state raggiunte basando il pareggio (eufemismo) sul gettito di nuove entrate, perciò con un ulteriore aumento della pressione fiscale; e mai su dei tagli effettivi, riduttivi dei costi, che appaiono talora nelle intenzioni, ma che scompaiono poi nella realtà. E la stessa cosa avverrà anche con questa.


Tutto ciò si verifica perché vi sono troppe persone al vertice che non si rendono conto della gravissima situazione che sta coinvolgendo l’Ue tutta e che, procedendo di questo passo, porterà al disastro sia dell’€ che dell’Ue stessa. Più che non rendersene conto guardano al loro interesse di bottega, tanto i nostrani in campo nazionale che i governanti esteri nel loro.


Perciò, in si fatto modo, avverrà che il contribuente dopo aver prima pagato assai per entrare nell’Ue, poi per sostenere i paesi in difficoltà, compreso il proprio, si ritrovi sul lastrico totale: senza reddito, senza patrimonio, magari anche senza lavoro e con una tenebrosa prospettiva futura.



Alcune osservazioni, giuntemi da qualificati lettori d’oltralpe, mi portano ad esplicare meglio le attuali correnti di pensiero economico/finanziario che, specie in Germania, dividono gli economisti.


Nessuno, oggi, vuole abbandonare l’€, perché si comprende che sarebbe il disastro totale. Neppure coloro che avversarono aspramente e a ragione tale progetto, non in quanto tale ma per la realtà coagulativa che andava acquisendo.


Perciò il dibattito si impernia sul tema del momento, che sembra l’unico rimedio atto a reggere l’urto dei mercati nei paesi con grosse difficoltà: gli Eurobonds.


C’è chi propende per nuove emissioni di tali titoli in sostituzione di quelli sovrani in scadenza, chi invece punta alla conversione degli esistenti, chi ad una loro ristrutturazione e chi invece ritiene gli Eurobonds addirittura dannosi.


Di certo c’è, e tutti ne sono concordi, che così non si può più procedere.


Il problema che tutti hanno chiaro è che non si può continuare senza che vi sia un organismo centrale in grado di sovrintendere a tutto ciò, sia che venga chiamato Ministero delle Finanze europeo, sia istituendo un vero Governo sovranazionale per le importanti questioni economiche e finanziarie comuni.


In pratica in ogni caso si farebbe fare un notevole salto in avanti all’integrazione dei vari popoli. Fatto inevitabile se non si vorrà il disastro generalizzato.


Urge stabilire che non si può gestire l’Ue solo con il convegno delle nazioni aderenti (Capi di stato), ma in base alla propria effettiva rappresentanza, equivalente come in ogni democrazia ad una testa corrispondente ad un voto.


Il tempo stringe, il pericolo è già sulla porta e la politica … nicchia.



La Germania si è già fatta carico di ben 400 mld di € per sostenere le economie dei paesi in difficoltà; e teme di doversene addossare altri 3.100 mld, onde sostenere l’economia disastrata e i debiti dei così detti paesi P.I.I.G.S., perciò Italia compresa. Il che sarebbe un costo doppio a quello sopportato dalla Germania per la riunificazione e che a suo tempo impose impopolari scelte restrittive.


L’istituzione di Eurobonds, per la stessa Germania e a seconda di come sarebbero strutturati, imporrebbe un costo suppletivo (onere aggiuntivo) interno di interessi da pagare oscillante tra 30 e i 47 mld, cifra notevole che in pratica corrisponderebbe ad un’analoga e annuale manovra finanziaria. Cifra che, però, sarebbe compensata dagli attuali esborsi per sostenere le nazioni in difficoltà, finora però contabilizzati non a fondo perduto, come in realtà sono, ma come importi a rientrare.


Perciò si teme che con tali ipotetici costi la potenza finanziaria e economica tedesca si esaurisca, mettendo in serio pericolo la sopravvivenza dello stesso sistema politico e piombandola in una lunga stagnazione.



Alcuni pensano che vi debba essere una ristrutturazione necessaria dei titoli sovrani di Grecia, Irlanda e Portogallo, quantificabili in un deprezzamento del 50%: un Eurobond nuovo ogni 2 titoli sovrani attuali. In questo modo il creditore avrebbe sì una reale e ingente perdita secca (potenzialmente no perché i titoli sono già deprezzati dalle quotazioni di mercato), ma in compenso avrebbe in mano un titolo sicuro e valido come garanzia per future transazioni.


Ciò, pero, imporrebbe una grande sofferenza (perdita) alle società finanziarie francesi e tedesche che hanno in portafoglio una notevole quantità di questi titoli. Per cui è probabile che i 2 stati debbano poi intervenire per salvare le loro banche dal default. Brucerebbero le banche, pur rimanendo in piedi i muri.


Gli U.S.A., con la Lehman Brothers, pensarono che il fallimento di questa potesse essere una provvisoria tempesta purificatrice che sarebbe stata salutare al sistema; ma la storia recente ha smentito le loro aspettative, tanto che si provvide in seguito (2008) a ideare subito un accordo per salvare tutte quelle banche che erano troppo grandi per fallire.



La Grecia, per salvarsi, dovrebbe ridurre i propri costi di almeno il 30%, essendo troppo alti; ma ciò con l’€ attuale appare quasi impossibile, perché una svalutazione della moneta, essendo comune, vanificherebbe l’operazione.


Così come stanno le cose, infatti, un salvataggio è possibile solo con un lungo e pluridecennale aiuto esterno, troppo dispendioso e incerto nel risultato per tutta l’Ue.


Ciò che non è possibile con l’€, sarebbe stato possibile con la Dracma, che però ora non c’è più e la cui reintroduzione (in sola ipotesi) comporterebbe una fuga in massa di capitali, non solo in Grecia, ma pure in tutta l’Ue.


La Turchia, infatti, ha sempre mantenuto la sua competitività sul mercato svalutando all’occorrenza la propria Lira.


Dal che si deduce che gli allora strateghi (padri) politici della forzosa e frettolosa Ue, abbiano fallito il loro compito portandoci verso il disastro; proprio come i vari governi nazionali con l’esplosione abnorme dei propri debiti sovrani hanno creato le premesse, dagli anni ’70 in avanti, per le ingenti difficoltà attuali.



Il trattato di Maastricht del ’92 imponeva alle varie nazioni di non superare il rapporto Pil/Debito del 60%, ma, ciò nonostante, ora molte nazioni lo superano di gran lunga, quando non lo hanno raddoppiato; e già allora molte erano, di fatto, in deroga. E i Padri (degeneri) lo consentirono, aprendo i confini a tutti, compresi i porci (pigs).


Emettere o convertire Eurobonds nel rispetto del trattato sarebbe possibile, ma poi si porrebbe il problema della rimanente necessità di cassa, per cui le nazioni interessate dovrebbero emettere altri propri titoli per sopperire a ciò. Il che riporterebbe il problema alla situazione attuale.


Sarkosy/Merkel ipotizzano una Costituzione Ue che obblighi ogni stato a rispettare il 60% stabilito nel trattato, ma ciò è solo teorico e impossibile da realizzare stante gli ingenti debiti attuali già consolidati.


Perciò per non far saltare l’Ue e l’€ bisogna trovare un altro modo.



Credo che se si imponesse a chi non è nel parametro Debito/Pil - i paesi P.I.I.G.S. contemporaneamente - un adeguamento immediato al parametro sottoscritto, l’austerità disumana che ne comporterebbe farebbe crollare tutta l’economia della zona €, trascinando nella recessione anche la stessa Germania. E i moti sociali sarebbero difficilmente circoscrivibili ovunque.


Sicché l’unica possibilità che rimane è quella del simultaneo innalzamento della leva fiscale con una contemporanea e sostanziale riduzione delle spese statali, fermo restando una necessaria crescita molto difficile anche solo da prospettare nella realtà.


In Italia si fanno molte ipotesi: patrimoniale, aumento dell’Iva, condoni … Alcuni di questi provvedimenti non sarebbero però strutturali, ma solo un’entrata una tantum.


Di fatto le accise sui carburanti, l’aumento generalizzato dei costi e delle imposte locali, l’innalzamento della cedolare sulle rendite finanziarie, i tagli al welfare, i ticket sanitari … sono da considerarsi solo come un sostanziale aumento della leva fiscale, diretta o indiretta e che ha raggiunto un tasso spropositato, portando l’imprenditore a non ritenere più redditizia un’attività. La crisi ha fatto il resto e moltissime aziende hanno chiuso o chiuderanno a breve.


Tuttavia nella situazione in cui ci si trova non si può abbassare la leva fiscale, onde favorire nuove attività e il rilancio produttivo atto ad innalzare il Pil.


Non esistono ricette miracolistiche.



Nel ’95, poco prima che venisse fissata la parità di cambio con l’€, il differenziale spagnolo e italiano sul Bund tedesco era in media di 5 punti; mentre ora, pur con le sfuriate del mercato, oscilla sui 3,5 punti base. Ciò tuttavia non è sufficiente, sia perché una volta le nazioni interessate potevano stampare moneta in proprio, perciò svalutare gradualmente la propria riacquisendo competitività internazionale, sia perché tali tassi, considerati gli importi di interesse, sono soggetti al capriccio del mercato e non quantificabili. Siamo in una realtà finanziaria totalmente diversa da allora!


Il deprezzamento dei titoli porta a perdite, a chi detiene titoli, che sono in verità solo potenziali; ma che comunque nei bilanci devono poi essere conteggiate con opportune svalutazioni, innestando di conseguenza una riduzione automatica dello stesso gettito fiscale.



Il governo italiano pare puntare, onde recuperare gettito, soprattutto sulla lotta all’evasione fiscale. E su ciò convergono in parte, pur con alcuni distinguo, sia maggioranza che opposizione.


L’evasione reale è tuttavia difficilmente stimabile, sia perché la sua incidenza sul Pil, essendo celata, è difficilmente quantificabile ma solo ipotizzabile, sia perché da statistiche ufficiali questa è soprattutto localizzata al centro/sud, dove in alcune regioni raggiunge cifre tra il 50% e il 90%. Perciò là l’evasione è un fatto culturale e strutturale.


Recuperare gettito al centro/sud sarà problematico, considerato che laggiù oltre all’evasione esistono ben altre realtà, tra cui si può citare un enorme abusivismo edilizio. E se non si riescono a riscuotere delle semplici multe, a far funzionare la macchina amministrativa, ad estirpare l’assistenzialismo e l’assenteismo (soprattutto pratico) generalizzato, ad eliminare il lavoro nero e l’omertà … senza contare tutte le altre pecche sistematiche, mi pare che il puntare sulla lotta all’evasione sia una chimera solo teorica, ma non pratica: un solo buco di bilancio.



Gli Eurobonds non sono il toccasana se visti solo fine a sé stessi. Lo sono, però, se inglobati in un contesto strutturale che veda tutti impegnati in uno slancio costruttivo teso ad un unico progetto finale: la costituzione di una nuova e vera grande nazione Ue.


Diversamente non vi sarà futuro per nessuno, sia per i paesi periferici, sia per le nazioni forti che saranno trascinate nel baratro dalla caduta dell’€ e dal default dei paesi pigs.


E la stessa cosa avverrà anche in Italia, se il Sud non capirà che il tempo dell’assistenzialismo, dell’opportunismo e della furbizia è scaduto, pena la disgregazione stessa della nazione.



La Chiesa, come suo solito, ogni tanto ci mette il becco in questioni politiche o sociali importanti. È ciò è un suo diritto!


Tuttavia preferirei che al puro idealismo aggiungesse in ogni sua estemporanea riflessione anche un sano pragmatismo.


Perché, come ha sottolineato ora Bertone, è ovvio che il diritto e la tutela al lavoro siano inconfutabili, però se l’idealismo etico viene affiancato da idee e azioni concrete atte a renderlo pratico. Diversamente il discorso assurge a pura chiacchiera salottiera senza costrutto.


Pure il preservare il valore delle cooperative è importante; anche se non si capisce perché dopo aver tassato le banche, inasprita la leva fiscale sul cittadino, istituito la Robin tax (che colpisce per lo più le aziende ad alto contenuto innovativo, perciò di ricerca), lo stato oggi non possa elevare l’imposizione fiscale anche sul mondo cooperativo in un contesto nazionale e internazionale molto grave. Ed elevare non significa parificare, perché è naturale che i benefici ci siano comunque.


Lo Stato non è il Regno di Dio dove ci si salva anche all’ultimo secondo. Però se la Chiesa ha in tasca questa ricetta miracolistica la … renda pubblica per il bene di tutti, data la gravità della situazione.


Infatti, non mi pare che se in 2 o più ci si riunisse per chiedere ad Padre la risoluzione immediata della gravissima crisi attuale, ciò automaticamente, seduta stante, avverrebbe (Mt 18, 19.20).


Diversamente il discorso assume sempre quei connotati propri del voler comunque essere dei privilegiati e degli illuminati, al di là delle norme concordatarie che danno alla Chiesa tutta degli innegabili privilegi e benefici anche a carattere fiscale.



Il contribuente onesto deve essere tutelato, sia in ambito nazionale italiano sia in ambito Ue, proprio perché se la baracca ha finora retto lo si deve a lui: alla sua iniziativa e alla sua capacità contributiva.


Tutelarlo significa garantirgli un’adeguata leva fiscale in grado di permettergli di investire, di lavorare, di vivere e di accumulare risparmio. Diversamente non avrà stimolo alcuno a proseguire il proprio impegno.


La lotta all’evasione non solo è necessaria, ma soprattutto è eticamente obbligatoria.


L’analisi di dove e come questa avvenga mette però in rilievo che assume i connotati di un modo di essere affiancato spesso da altre degenerazioni sociali, quali l’omertà generalizzata, la pretesa del diritto e l’assistenzialismo. Perciò per battere l’evasione bisogna soprattutto inculcare nel cittadino una cultura nuova e con questa un’educazione civica adeguata.


Serve soprattutto che sia il cittadino a fare sistema!



Il differenziale con il Bund si sta nuovamente dilatando; e ciò manifesta che la Bce e l’Efsf hanno le munizioni contate (scarse).


La Bce, in verità, potrebbe seguire l’esempio della Fed, perciò operare immettendo sul mercato nuova moneta, praticamente svalutando con progressione l’€ anziché agire con l’attuale sistema di finanza virtuale.


La grande diversità politica e economica tra i 2 mondi è però tanto sostanziale che tale teorico intervento (rimedio) sarebbe improduttivo, incapace in pratica di risolvere i problemi degli stati in difficoltà.


Di certo vi è che se si vorrà avere un futuro bisognerà tutelare in assoluto il contribuente onesto e laborioso, perché morto costui scomparirà anche lo stato. Se strozzi la gallina è ovvio che poi si rimanga senza uova.


Il fucilarlo (con tasse elevate) o il lasciarlo inerme davanti alla speculazione del mercato sarà la fine di tutto il sistema.


I politici mestieranti da strapazzo – quelli che da decenni su opposti schieramenti ci dilettano con le loro demagogiche buriane discorsive – sarebbe bene non rottamarli, ma buttarli nella Geenna. Perché è chiaro che oltre all’inutile chiacchierare sono stati capaci solo di creare ingenti danni e, ovviamente, di trarre per sé degli innegabili benefici anche di carattere economico.


E chissà che forse, in questo modo e con nuove leve, la politica sapesse fare molto meglio e recepire quelle istanze che molti hanno già indicato.