lunedì 29 ottobre 2012

Breve commento alle regionali della Sicilia.


Il dato più eclatante che esce dalle urne non è tanto la storica vittoria della coalizione di Centrosinistra (Pd-Udc…) – tra l’altro ottenuta con solo la metà dei voti avuti nella precedente consultazione con la Borsellino e con i 2/3 della penultima con la Finocchiaro –, bensì in primo luogo il successo avuto da Grillo, con il suo M5S, e in secondo luogo l’alto astensionismo che ha ridotto la percentuale dei votanti al 47%, con oltre 20 pt in meno della precedente consultazione.
Considerata la massa enorme di chi ha rifiutato le proposte dei partiti, è ovvio che Grillo non abbia attinto tanto all’antipolitica, perciò agli scontenti che non si sono recati a votare, bensì eroso grande quantità di voti ai partiti stessi, ottenendo il lusinghiero successo di primo partito della Sicilia.

La coalizione vincente di Crocetta, considerando pure le schede bianche e nulle, riduce il suo consenso dal 30% circa dello spoglio al 12% circa degli aventi diritto, innestando di conseguenza una problematica etica di liceità a governare, fermo restando che dovrà comunque ricercare tra gli sconfitti uno o più partner per poter formare, se non altro, un Governo che possa provvedere all’ordinaria amministrazione, in attesa di una nuova consultazione che si renderà ben presto necessaria.

Grillo in Sicilia non è tanto l’“uomo anfibio”, uscito dal canale dello stretto per insediarsi come pretendente al trono, bensì la slavina che ha investito i partiti nazionali, nonostante il boicottaggio mediatico che davano la sua campagna di sbarco totalmente fallimentare.
Facile prevedere che a livello nazionale – alle prossime politiche; ma pure alle regionali di Lazio e Lombardia – questa preoccupante slavina possa diventare per i partiti maggiori un’imponente valanga che li spazzi via per buona parte, in quanto la gente comune non solo è ridotta allo stremo per tasse, povertà e disoccupazione, ma è ben distante anni luce da quella mediatica e ottimistica visione della situazione italiana che tanto il governo Monti quanto il presidente Napolitano tendono a conclamare ogni giorno ai media.
Perciò chi affosserà la politica di Monti non sarà l’eventuale sfiducia messa in atto da Berlusconi o dal Pdl, bensì il risultato elettorale, che rifiuterà in toto tutta la politica fin qui perseguita nell’ultimo anno.

Parlare di successo dell’antipolitica, quando la politica ha fallito in toto il proprio compito di governare creando benessere e sviluppo, è solo fare della demagogia e della dietrologia populistica.
Il Popolo vuole riappropriarsi del diritto di scegliersi il proprio futuro; e non farsi imporre da oligarchiche o plutocratiche congreghe internazionali dei “salvataggi” che sono in realtà la distruzione sistematica del proprio diritto di vivere e di governarsi. Infatti, tale politica viene chiamata nel cuore dell’UeDistruzione creatrice”.

Il Pd è forse il partito che ha perso meno di altri in voti, perciò che ha resistito in parte allo smottamento popolare.
Ciò è avvenuto per 2 fattori concomitanti: la divisione plateale del centrodestra, che si è presentato al voto diviso con 2 liste antagoniste, favorendolo, e il “fattore organico” che sempre contraddistingue l’inquadramento del suo elettorato.
Tale consistente erosione, anche se minoritaria rispetto al Pdl, gli consente una provvisoria vittoria di Pirro, inadatta comunque a concedergli un governo autosufficiente e stabile.

Casini, tronfio di un risultato vincente all’apparenza ma in realtà fallimentare, invita prontamente Bersani a ripetere l’alleanza siciliana a livello nazionale.
Tale alleanza, tuttavia, altrove sarebbe perdente se non con un’ammucchiata ampia tipo Ulivo, sia perché nel Lazio e in Lombardia l’Udc non ha l’adesione che ha ereditato dall’ex Dc in Sicilia, sia perché l’effetto Sicilia darà ulteriore forza e vigore a Beppe Grillo e al suo Movimento, già per altro assai ora ben più agguerrito al centro e nel nord del paese, come il caso Parma – e in parte Genova – hanno già ben evidenziato.
Gli sconquassi politici sono solo iniziati, in pratica ricalcando l’iter avvenuto dopo Tangentopoli a danno della Dc e del Pc; che, guarda caso, hanno cambiato spesso nome e aggregazione, ma hanno mantenuto la stessa dinastia di uomini e di sistema.

sabato 20 ottobre 2012

La strana, ma non troppo, guerra nel Pd.


Il Nobel per la Pace è stato assegnato all’Ue. Considerato che fu dato pure a Obama, sulle sue … buone intenzioni, ci può anche stare.
Tuttavia l’Ue – secondo motivazione ufficiale – ha favorito la pace per 60 anni dopo il secondo conflitto mondiale. Ovviamente dimenticando: la guerra fredda, le guerre fratricide nei Balcani (ex Iugoslavia, Albania, Kosovo) in cui siamo pure andati a combattere, la guerra in Iraq, quella in Afganistan, e le molte altre che alcuni stati europei hanno fomentato e in parte guerreggiato in Africa. Basti ricordare attualmente la Libia e quelle precedenti nell’Africa nera o magrebina, dove la Francia, con altre, si è distinta in modo particolare.
L’industria bellica pesante europea ha sempre tratto grossi profitti; ma non solo: dove non guadagnava assai si è provveduto negli ultimi 2 decenni a combattere con la finanza globalizzata guerre interne e esterne in modo proficuo.

Nelle manifestazioni di piazza di ieri in Grecia vi è stato un morto; sempre là, ma anche in Italia, centinaia di suicidi – anche ieri uno si è dato fuoco davanti al Quirinale -. Senza contare le persone senza lavoro, le ditte fallite, le banche salvate, i bilanci degli Stati aderenti in ginocchio, il Pil crollato, i risparmi bruciati ovunque e la caterva di tasse e di tagli che hanno investito specie i Paesi deboli mediterranei.
Tant’è che il posato Tremonti[1] ha promosso una lista tutta sua – per ora proprio … tutta -, accompagnandola con un documento dal sinistro e sinistrorso nome sessantottino: IL MANIFESTO ( Sintesi ).
Emblematica la prima fase del suo bellicoso proclama, che vale essere citata:

Siamo in guerra.
Dentro una strana guerra: economica, non violenta, “civile” e per questo diversa da quelle del passato. Soprattutto una guerra economica. Ma pur sempre una guerra!

Possiamo perderla, questa guerra, se per paura accettiamo di farci colonizzare, se nel 2013 votiamo per dare il nostro richiesto consenso al nostro assistito suicidio.
Da quando hanno deciso di “salvarci”, sottomettendoci ad una cura che loro chiamano “distruzione creatrice”, abbiamo infatti in Italia troppe tasse e troppa paura.
Un conto è tassare il reddito prodotto, un conto è impedire con le tasse che il reddito sia prodotto!

Parole genericamente condivisibili e forse più consone ad un Grillo che a un Giulio.
Così va oggi il mondo!

Le guerre, tuttavia, in barba ai Nobel non si fermano qua.
In Italia vi è quella tra Monti, con un indice di gradimento infimo, – che continua a dirci che con lui ci siamo salvati e abbiamo ripreso credibilità internazionale; che però io non vedo affatto girando e noto pure peggiorata con sberleffi vari proprio sul suo ruolo – e il Popolo italiano, che di lui ne deve aver piene le tasche, specie di quelle vuote, per tasse e fame, poste quasi … al collo. Ma, si sa, da tempo la democrazia è stata sostituita dall’oligarchia referenziale, come dice Tremonti.
Il Governo di Napolitano ha avuto il pregio (eufemismo) di frantumare il bipolarismo, facendo saltare subito l’alleanza nel centrodestra tra PdL e Lega, sfociata ultimamente nella guerra di Lombardia. E con la stessa modalità ha fatto brillare il detonatore interno nel grande contenitore PD, già di per sé stesso bellicoso al proprio interno dopo la batosta elettorale delle ultime politiche.
Come il crollo del Muro di Berlino ha scombussolato il blocco occidentale nel ‘89, così il Governo tecnico Monti – inviso a tutti e sostenuto quasi da tutti a colpi di voti di fiducia – ha sparigliato gli animi all’interno delle coalizioni, compresa la “virtuosa” Udc di Casini & C., che non può ritenersi fuori da alcun malaffare, come la storia anche di questi giorni insegna.

Nel PD, come se i problemi di credibilità non bastassero, il garibaldino Renzi ha provveduto ad assoldare “i suoi 1000”, onde muovere guerra alla stagionata dirigenza del partito, per rottamare a parole anche ciò che non andrebbe rottamato.
I giovani boy … scout sono così: braghette corte, fazzoletto al collo, cappello in testa, randello (bastone) tra le mani, zaino in spalla, trekking ai piedi e via all’avventura, magari per essere poi salvati  o dai Vigili del Fuoco o dal Soccorso Alpino per manifesta … incapacità.

Il PD - purtroppo per lui ma anche per il PdL che è il suo opposto - è un contenitore politico, con un conoide a monte che fece deiezione proprio al suo interno delle varie forze che in quel punto erano franate. Che le si chiami Pc, Dc, Ds, Popolari, Margherita, Socialisti, Verdi, Radicali, Ulivo … non cambia nulla. E, strano a dirsi, questo movimento di smottamento sociale è avvenuto proprio dopo l’89, anno del crollo del Muro di Berlino e delle Repubbliche socialiste.
La morte del comunismo, passato armi e bagagli a fondersi col liberismo, ha costretto il vecchio Pc a trovarsi un nuovo ideale e un nuovo assetto sociale, onde non restare nei nostalgici destinati a scomparire.

Il nuovo muro di Berlino del PD è stato Berlusconi. Crollato costui per diverse ragioni, al suo interno è ricominciata la lotta fratricida per un nuovo assetto a parole ideologico, in verità di potere: una guerra quasi generazionale.
Chi l’ha promossa? Sicuramente qualcuno che ha fatto le prove generali, a spese del generale Bersani, in quel di Firenze e anche altrove.

Matteo Renzi[2] non è Garibaldi e neppure Cavour. È uno il cui grado di luogotenente gli è stato affidato da un generale astratto, che essendo solo giuridico non può esporsi in primo piano: l’alta finanza.
Perciò avanti con chi non ha nulla da perdere, semmai da … guadagnare.
Per scoprirlo basta controllare ciò che spende e chi lo finanzia. Perché è chiaro che chi non ha non può mettere in campo da sé truppe corazzate per combattere una battaglia minoritaria nel numero e nei mezzi, lunga, e lanciata in sordina già con l’avvento forzoso di Monti, che però non può essere smaccatamente perpetuato pur se auspicato.
La sua uscita a Milano di ieri va proprio in questo senso: avvicinarlo ai suoi finanziatori.

Renzi non è Franceschini. È nel PD solo per caso, perché di sx non ha quasi proprio nulla.
Per molti in Toscana l’essere nel PD – e nei suoi avi – fu un fatto normale di scelta politica, anche se nel Granducato il comunismo era solo nominale e non viscerale e ideologico come in Emilia.
Lui è lì perché la sua ambizione politica l’ha piazzato dove vi era maggiore possibilità di sfondare in quella regione. Fosse stato al Nord sarebbe stato in un altro partito.
Mentre Franceschini ha uno slang da oratorio, Bersani da Casa del Popolo e Bindi da vergine zitella inacidita, Renzi ha quello proprio del guascone populista che parla sempre senza dire nulla di più della prima frase che pronuncia. Perciò un tipo che ha ambizione, ma non sufficiente cervello per poter diventare un leader: un mezzo d’opera da … usare.
La moda politica (dei manovratori) oggi impone il nuovo, quindi ciò che è diverso pur se condizionabile: un anomalo del PD, visto che con la crisi la Dx pare aver perso per implosione d’alleanza la sua capacità di vincere, oltre che per scandali politici che per la verità sono ovunque anche negli altri schieramenti, parlamentari o extraparlamentari.
Vincere nel PD con Renzi non è sicuro. Però una sua sconfitta interna significherebbe spaccare il partito in due, nonostante i proclami di facciata dicano: chi perde appoggia il vincitore.
Perciò – in questo caso - dare una possibilità alla Dx di ricompattarsi, vista la lunga campagna elettorale che ci aspetta.

Rottamare è ciò che Renzi ha saputo proporre fin’ora.
Da sindaco non mi pare che faccia faville oltre ad essere il più amato. Basta recarsi in centro a Firenze per vedere il degrado urbanistico e sanitario in cui è tenuta, pessimo biglietto da visita per il turista maturo che non resta solo ammaliato dall’arte di Piazza Signoria, Santa Croce, Duomo …
Rottamare è un verbo del consumismo, perciò proprio della globalizzazione selvaggia che vuol farci diventare “oggetti consumatori”.
Rottamare, infatti, tende a buttare tutta l’esperienza avuta per sostituirla con del nuovo che non si sa se sarà utile e quanto durerà.
Rottamare vuol dire ritenere le persone semplici oggetti, non tenendo conto della storia e dei valori che li ha ispirati.
Rottamare vuol dire in sostanza distruggere una società.
Rottamare vuol dire anche impantanarsi in un’idea che può essere appariscente e attraente all’inizio, ma che alla lunga poi può anche aprire gli occhi a chi si vuole attrarre, quando il gridare al lupo diventa troppo ossessivo.
Renzi rischia d’essere il primo rottamato del suo proclama politico “Rottamare!”.

Forse per questo Renzi vuol passare alla fase 2 della sua campagna delle primarie, dopo la rinuncia di Veltroni e l’accenno di D’Alema a non ricandidarsi, se però vince Bersani.
Infatti, gli devono “aver consigliato” che su ciò sarebbe perdente, visto anche l’impegno organizzativo messo in campo per sbarrargli la strada dai Totem storici del partito.
Fase 2, ovviamente, tutta da inventare e da costruire.

Nella galassia PD la guerra di Renzi contro tutta la vecchia dirigenza può creare disaffezione alla politica, aprendo le porte anche dove l’individuo organico è preponderante ad una certa militanza. Perciò il PD rischia non tanto di cadere comunque in ginocchio, ma d’essere svuotato anche di quei pochi ideali che lo tiene ancora unito.
La guerra non è solo a sfaldare (rottamare) il PD, ma con esso anche l’Italia.
Ed è appunto ciò che la vecchia dirigenza – giovane e anziana – del PD intende contrastare con tutte le sue forze, agendo sull’apparato di partito e lasciando a Renzi esporsi con l’alta finanza per la costosa campagna intrapresa.



[1] - Vedere per approfondimento anche: Manifesto 3L – Lista Lavoro Libertà.

[2] - Vedere per approfondimento anche: Quel Renzi che non è Tramaglino.Quel Renzi che non è Tramaglino.Quel Renzi che non è Tramaglino.

giovedì 18 ottobre 2012

Manifesto 3L – Lista Lavoro Libertà.

ovvero:

Giulio Tremonti e il suo programma.


Da molto tempo seguo Giulio Tremonti con estremo interesse, sia come politico che come persona.
È un buon soggetto analitico sia per capire la classe dirigente, sia per comprendere cosa un uomo, dall’impeccabile stile cattedratico, possa fare e dove possa arrivare.
Tratteggiarne un quadro esplicativo mi sarebbe assai facile, ma dovrei entrare troppo nel personale. Perciò mi limiterò a guardare a ciò che propone e dice.

Il Manifesto 3L di per sé non dice molto. Anzi più che altro pare un bellicoso proclama populista del tipo: qua si fa l’Italia (e Europa) o si muore.
Ciò che invece è molto interessante per capire bene il tutto non è tanto guardare il sintetico programma diviso in blocchi, bensì leggersi attentamente gli Approfondimenti ( Schede ). Da questi si può comprendere dove il Manifesto potrà far presa o no.

Giulio è un uomo preparato e capace, tenace e scontroso, sempre attento a migliorare la propria capacità professionale traendo spunto anche dai propri errori passati. Non è più, tanto per intenderci, il Tremonti di governo degli anni ’90.
Tuttavia ha sempre conservato quell’alta concezione (ben giustificata) di sé stesso che ha però il suo tallone d’Achille in una certa permalosità. Non è un uomo così socievole da trovarsi a suo agio con tutti: ama essere sempre non tanto il primo della classe (ober aller), ma oberhalb aller.
Non ammette che gli si contesti o che gli si opponga qualcosa. E chi scrive lo sa per esperienza: lo ritiene un atto di lesa maestà.
Gli Approfondimenti – talora carenti in sintassi e punteggiatura - rispecchiano questa situazione, tanto da poter essere considerati, nella parte rievocativa del suo ultimo mandato ministeriale, una romanzata auto celebrativa esaltazione di sé stesso, talora quasi patetica.
D'altronde la sua rottura con Berlusconi e lo stesso PdL non è cosa d’oggi, come non lo erano i contrasti caratteriali nella compagine governativa, specie con alcune ministro donne.
Tra prime donne difficilmente vi è grande … feeling.

Tremonti, a modo suo, interpreta benissimo una certa etica cristiana che sfocia però nella filantropia. Non è mai un dare tutto sé stesso agli altri, sia nell’essere nella società o in una compagine ministeriale. Tuttavia è encomiabile perché è un politico anomalo: dà molto economicamente pure del suo, anche se è solo l’eccedente.
Quando si sta nel Governo non si può poi rimaneggiare la realtà per darsi titoli e meriti, addossando le magagne ad altri. Il solo fatto di continuare (volontariamente) a starci, significa che pur con molti distinguo si è responsabili delle decisioni prese collegialmente, pur se con voto nominale contrario.
Tremonti, ovviamente, non è il compianto Gianfranco Miglio, capace di prendere borsa e cappello e lasciare la compagnia quando questa non condivideva – giustamente o erratamente – la sua linea ministeriale, sbattendo violentemente la porta in modo che si capisse bene senza errori da che parte stesse.
Miglio amava stare tra la gente, discutendo anche con il popolano e porgendo il suo sapere. Tremonti è più aristocratico culturalmente e persegue solo una certa referenzialità: ama stare nell’alto della “sua” torre d’avorio.

Criticare gli attuali atti della Riforma Fornero sul lavoro è legittimo. Lo è un po’ meno se chi lo fa ha approvato precedenti atti che andavano in quella direzione (finestre lunghe che hanno prodotto, di fatto, i primi esodati).
Sono tra quelli che hanno sempre apprezzato il suo lavoro svolto in ambito Ue come ministro delle Finanze; lavoro condizionato dal fatto che non si è soli e che in quella comunità particolare (Ue) si decide non tanto democraticamente, bensì in modo oligarchico, seguendo gli interessi dell’alta finanza.
Scagliarsi perciò ora sulle banche, dopo averle quasi salvate con i Tremonti bonds, pare soprattutto un semplice specchietto elettorale. Le banche al punto in cui s’era, e si è, andavano e vanno salvate. Tuttavia credo che in quasi 2 decenni – anche se non in modo continuativo – un ministro come lui potesse provvedere in modo che ciò non succedesse. Diversamente si faceva come Miglio: borsa, cappello e … via!
Lo stesso discorso può essere fatto sul Debito sovrano nostro, classato per circa il 35%/40% all’estero, oppure sul favorire – quando non finanziare – una certa globalizzazione delle imprese, che in pratica significava sguarnire l’Italia per investire all’estero.
È legittimo esporre le proprie idee in merito, tenendo però ben presente anche ciò che si è avallato stando in un governo.

Un particolare molto significativo e dai risvolti psicologici sono le Schede 1 e 2 degli approfondimenti, dove il linguaggio merita un accenno.
Vengono, infatti, divise in due colonne: nella prima viene espressa l’ideologia dei Loro e nella seconda quella di Noi.
Credo siano pillole d’esperienza culturale “tremontiana” acquisita sul campo, dove però non si capisce bene chi siano questi fantomatici Loro e Noi, ipoteticamente identificabili – se non erro – in: tutti gli altri (loro) e quelli che stanno con me (noi).
Singolare e curiosa la Scheda 11 sul voto ai giovani, già enunciata nei punti programmatici del Manifesto con la proposta di abbassare l’età del voto a 16 anni, perché i giovani d’oggi “sono già maturi”, e con l’ipotesi del doppio voto ai giovani tra i 20/39 anni.
Proposta, ovviamente, che è legittima avanzare se uno la vede così.
I ragazzi oggi sono più svelti a recepire la tecnologia, quindi la modernità, essendoci praticamente nati dentro. Tuttavia ciò non significa maturità, specie se si confronta la cultura che a loro viene oggi impartita in: socialità, sapere generale, educazione, morale, etica, distinzione tra diritto e dovere e … via di seguito.
Sarà pur vero che i giovani subiranno in futuro la crisi più dell’anziano, ma è pur vero che molte altre categorie hanno problemi superiori a quelli di molti giovani che, tutt’ora, possono attingere ancora alle sostanze e ai servizi familiari.
E a proposito si possono citare: gli anziani meno abbienti che si vedono tagliati servizi e diritti, i lavoratori 50/60enni che sono rimasti senza lavoro e senza speranza per la crisi, gli stessi autonomi che essendo fuori dal mercato del lavoro convenzionale si trovano senza reddito e attività, gli statali che da anni sopportano il blocco dello stipendio (indovinate da chi promosso?), e altri ancora.
Perciò la proposta del doppio voto, pur ammesso che sia costituzionalmente percorribile e fattibile, appare come una trovata curiosa e balzana uscita dal cappello a cilindro di un prestigiatore.
Analizzando i problemi di tutti si dovrebbe con lo stesso criterio far votare tutti 2 volte.

Il proclama del manifesto ha delle radici socialiste e da personalismo cattolico. Cattedratico e populista nello stile pare un aut aut tra cui dover scegliere.
Tuttavia non è un proclama diretto e recepibile da tutti, ma solo per una nicchia della società: quella di giovani laureati capaci di capire e seguire il “maestro”. Non per nulla Tremonti specifica che la sua lista sarà aperta soprattutto ai giovani con determinate capacità.
Le forbite citazioni nel testo, le problematiche tecnico finanziarie, il linguaggio cattedratico stesso, la stessa formula del valore dei Derivati fanno il proclama un appello elitario.
Perciò, visto così, non si può far altro che chiedersi come Giulio Tremonti porterà avanti il suo programma nel futuro Parlamento, essendo ovvio che al massimo potrà puntare su una rappresentanza minoritaria.

Giudico, tuttavia, il programma espresso da Tremonti – al di là delle forme usate e dal suo passato – un interessantissimo progetto politico da condividere, abbastanza completo nell’abbozzo, pur se carente, discutibile e perfezionabile in alcune sue parti.
Un progetto che – a mio modesto avviso – da decenni non veniva espresso dalla politica italiana, soprattutto dai partiti maggiori, intenti per lo più su accattivanti proposte economiche ma non su un progetto complessivo se non assai vago e indefinito.
Tremonti tace su famiglia e sociale, ma strada facendo potrebbe completare. Come potrebbe approfondire le tematiche esistenziali correnti che squassano la società e il mondo cattolico.
A mio parere la socialità di Miglio aveva creato il Gruppo di Milano, laboratorio di idee di molteplici teste capaci di entrare nei dettagli soprattutto nel confrontarsi.
L’aristocrazia cattedratica di Tremonti mi fa dedurre, invece, che il suo programma sia per lo più opera tutta sua, oppure di pochi suoi fedeli collaboratori.

Uomini come Tremonti possono essere utilissimi all’Italia per la loro capacità ed esperienza, specie se sapranno scendere dalle nuvole per mischiarsi al popolo. Allora diventeranno quel valore aggiunto capace di far rinascere una nazione.
Tremonti potrebbe essere un punto focale di coagulo anche elettorale di molte forze moderate. Dovrebbe però cambiare il suo essere uomo filantropico in uomo dedito alla comunità sia nel fare gruppo sia nello scegliersi le vere persone fidate. Gli servono veri compagni di viaggio e non ossequenti scolaretti.
Da rivedere sostanzialmente anche la sua posizione economica/finanziaria, sia italiana che Ue o globalizzata, soprattutto perché i danni creati dalla speculazione impongono da tempo una radicale riforma del mercato mobiliare.
Convengo con lui che ciò che si può fare con altri lo si fa, altrimenti si comincia dall’Italia.

Il riacquisto del Debito sovrano classato all’estero è un’opportunità, ma non avendo una banca centrale propria come il Giappone bisogna fare i conti o con l’Ue, oppure con le banche nostrane. Fare monetarismo individuale non ci è più concesso.
Calcolando il 35% del debito in mani estere servono almeno 700 mld di €. Dove reperire questa somma?
Tremonti potrebbe obbiettarmi che ne potrebbero bastare la metà per ridurre la speculazione sullo spread, ma poi andrebbe aggiunta la percentuale di Titoli sovrani nominalmente in mani italiane (soprattutto Unicredit), ma sostanzialmente di aziende globalizzate che curano più i loro interessi che quelli della nazione d’origine.
I problemi, anche con il programma di Tremonti applicato in toto, non sarebbero comunque risolti; semmai avrebbero un tampone provvisorio.

La verità è che questa nostra Italia deve essere rifondata culturalmente, strutturalmente, economicamente e finanziariamente. E essendo noi inglobati nell’Ue per l’€, dobbiamo sperare che pure tutta l’Ue cambi passo e idee economiche/finanziarie  da tempo fallimentari.
Pure la Troika impegnata in Grecia ora ammette che la ricetta rigorista imposta negli ultimi tempi è servita solo a fare ulteriori danni. Proprio come Monti ammette i suoi errori che hanno mandato l’Italia in forte recessione e la Fornero i disastri della sua riforma del lavoro su cui sta meditando.
Con Tremonti al timone economico abbiamo avuto uno spread nella forbice tra i 95/150 ptb, con una media di circa 115.
Con Monti la media supera i 400 ptb; e ciò vorrà ben dire qualcosa, senza andare sempre a dare la colpa ad Adamo ed Eva.

Essere pragmatici per il solo pragmatismo non ha risolto i problemi, anzi li ha peggiorati.
Perciò ben vengano persone come Tremonti che oltre a una certa cultura cattedratica hanno dalla loro anche dell’esperienza acquisita sul campo.
Tremonti può essere ancora molto utile all’Italia anche in campo internazionale, specie se dietro di sé avrà l’appoggio convinto di un Popolo e di partiti in grado di comprendere il suo programma.
Per farlo però deve scendere un po’ dalla cattedra, per mischiarsi specie con chi più soffre e geme le piaghe della crisi.