domenica 28 marzo 2010

Il domino internazionale del deficit spending.

Fitch ha tagliato il rating sovrano del Portogallo riducendolo a ‘AA’.

Perciò la ripresa in questo paese sarà molto più lenta che nelle altre nazioni, mettendo sotto pressione le finanze pubbliche nel medio termine.

Trichet, da parte sua, dichiara che l’Irlanda dovrebbe essere come il cavallo di Troia per la Grecia.

Nel suo intervento al Parlamento europeo, davanti a quattro gatti (15 eurodeputati), egli afferma che la Bce accetterà collaterali con la Grecia anche dopo il 2010, pur se in presenza di rating riduttivi del tipo ‘BBB-’.

In pratica, davanti alle reiterate impostazioni economiche comunitarie tedesche, si dichiara contrario ad un intervento, giudicato negativo, diretto dal Fmi che, in pratica, ridurrebbe l’importanza e la sovranità finanziaria che la Bce stessa intende egemonizzare nell’Ue.

Tutto ciò, parafrasando, indica che in zona € la ripresa sarà incerta, debole e molto lunga.

Siamo in deflazione.

Perché la Germania vuole che sia il Fmi ad interessarsi dei problemi greci? Perché teme che l’effetto domino, che sta contagiando i vari paesi P.I.I.G.S., faccia saltare tutto il banco, comprese le nazioni virtuose, addossando a queste gli sprechi e l’inefficienza delle cicale.

Unione sì, si dice, ma non sfacelo!

I vari governi europei professano un tenue ottimismo sul Pil 2010, in leggera ripresa positiva intorno all’1%.

La maggior parte degli esperti, invece, pare orientata su un Pil ancora negativo, anche se in modo frazionale.

Non per nulla il $ si sta rafforzando sull’, precipitato di circa 20 punti dai fasti di 1,52.

L’accordo Francia/Germania sull’intervento di sostegno alla Grecia non è indolore, specie per quei paesi che dovranno addossarsi garanzie e costi dell’operazione.

L’accordo (aiuti bilaterali volontari – sic!) prevede 2/3 a carico Ue/Bce e 1/3 a carico del Fmi, a fronte di un intervento previsto di 22 mld di €. Sempre che bastino e non se ne aggiungano altri, come probabile; perché pare inverosimile, come prevede l’accordo, che in circa 45 g la Grecia riesca a recuperare dai propri conti, o sul mercato, tale cifra.

Tradotto in numeri, in base alla partecipazione comunitaria, in carico alla Germania vi saranno circa 4,2 mld di €, per la Francia 3,15, per l’Italia 2,75 e il resto a carico di tutte le altre nazioni che, comunque, hanno una partecipazione minoritaria, solo ad una cifra o frazionale.

E l’Inghilterra? Semplice: zero; perché ha mantenuto la sterlina come propria moneta.

Ora, se si fosse escluso il Fmi dall’operazione, ogni Stato socio avrebbe dovuto accollarsi ben il 50% in più, sempre che gli americani, maggioritari nel Fmi, non boicottino l’accordo, visto anche le riserve sull’operazione da parte del presidente della Fed.

Se i tassi statunitensi e in zona € sono molto bassi, perciò pure quelli sui titoli che garantiscono il Debito pubblico, ciò non corrisponde esattamente in tutti i paesi Ue.

La Grecia, ad esempio, per attrarre capitali è sul 6,30%. Un tasso, per intenderci, spropositato rispetto a quello tedesco, francese e italiano, attestati quasi allo zero come rendita netta.

Vi è un’importante equazione in economica che afferma: a tassi alti corrisponde sempre un rischio elevato. Quale rischio? Quello di poter recuperare il capitale prestato.

Se i tassi salissero per frenare una probabile inflazione, le spese per finanziare il debito pubblico schizzerebbero all’insù, bruciando il Pil nazionale in modo considerevole.

Attualmente si calcola che gli States e l’Inghilterra potrebbero bruciare il 7/10% del Pil a tassi medi, e se alti anche giungere al 15%. Dati preoccupanti che indicano come la ripresa possa essere vanificata dai costi.

Rapportando il tutto al Debito pubblico nostro, e ipotizzando, a mo’ di esempio, un tasso d’interesse come quello attuale greco, si ottengono oltre 100 mld annui di interessi: una cifra che nessuna finanziaria draconiana sarebbe in grado di sopportare.

I tassi, perciò, resteranno bassi a lungo; diversamente molti stati saranno costretti al default.

Tassi bassi non vuol dire allegria operativa: significa ridurre drasticamente i consumi e limitazione necessaria e selezionata del credito.

I dati occupazionali italiani dipende da come li si guarda. Si afferma che i disoccupati siano cresciuti di circa 400 mila unità, però guardando i meri dati statistici.

La cifra, in verità, dovrebbe essere raddoppiata per i seguenti motivi:

a) I dati ufficiali di chi cerca lavoro sono calati per il semplice fatto che molti non lo ricercano più ufficialmente, tentando di arrangiarsi nel precariato quotidiano in attesa che la situazione evolva. Con la disoccupazione accertata i disoccupati in cerca di un nuovo lavoro nelle liste ufficiali avrebbero dovuto crescere, mentre invece sono diminuiti nella somma algebrica. Vi è sfiducia nella potenzialità dell’offerta che spesso si traduce, nella ricerca estenuante, in ulteriori spese.

b) Il Sud è maggiormente bersagliato dalla disoccupazione, specie le donne che vengono quasi estraniate, e si estraniano forzatamente, dalla forza lavoro. Le cause possono essere molteplici, a cominciare dalla grande diversità d’organizzazione strutturale dell’industria PMI tra il Nord e il Sud.

c) Non si sono calcolati tutti quei lavoratori autonomi e i precari che per la grave recessione sono rimasti senza lavoro. Basti pensare a quante decine di migliaia di attività commerciali hanno chiuso i battenti nello scorso anno.

Ecco perché si sono persi almeno 800 mila posti di lavoro, che porterebbe il dato di disoccupazione ben oltre l’8% circa ufficiale.

A questi è molto probabile che nel 2010 se ne aggiungano altri 250/300 mila (stima prudenziale), elevando il dato ufficiale verso il 10%. Gli stessi dati, grosso modo, che ha, e avrà, la stessa Germania; perciò di quei paesi che hanno retto più di altri, per ora, la crisi recessiva.

La deflazione è preoccupante perché, di norma, oltre a stagnare l’economia sul fondo non permette un pronto recupero, specie se il Debito pubblico, e con questo anche quelli aziendali, è vincolato da un gravame di costi elevati.

Il Giappone negli anni ’90 ebbe una crisi analoga e per oltre un decennio lasciò i tassi quasi a 0%; diversamente avrebbe pregiudicato, con un innalzamento, l’esistenza di molte aziende. Solo ora, a due decenni di distanza si intravede una certa ripresa.

La strategia dei soli tassi inesistenti non paga né nel breve, né nel medio termine.

In economia non vi sono strategie miracoliste, specie se il tutto viene basato sul debito. E la finanza attuale del credito ne ha abusato oltre ogni ragione, coprendola con la nomea di “investimento” e elevando la leva in modo spropositato.

Il “debito” è sempre un costo. Ora, per molti, è ritenuto un investimento. Perciò va calcolato per la potenzialità che può creare come investimento e non come tampone provvisorio.

Ciò vale per la Grecia, come per qualsiasi azienda, grande o piccola che sia. Basti pensare all’Argentina.

L’accordo tra i paesi Ue sugli aiuti alla Grecia ha posto in primo piano l’esigenza di un ferreo controllo centrale dell’economia, specie sull’asse del governatorato franco/tedesco.

Si è ravvisata la necessità di un “governo economico” apposito, capace di limitare le intemperanze contabili di certi paesi soci. Le libertà nazionali di intervento saranno perciò condizionate, visto che poi coinvolgerebbero inesorabilmente nei costi tutti gli altri.

La crisi ha imposto la necessità di sforare i parametri, elevandoli per evitare il peggio: si è fatto ricorso al deficit spending, in modo particolare per reggere la necessaria spesa di sostegno sociale, o per salvare aziende fondamentali nell’apparato strutturale economico/finanziario.

Va, comunque, sottolineato che da alcuni decenni il Debito pubblico continua a crescere nei paesi membri e che il deficit spending è diventato, di fatto, un mero fatto contabile atto a giustificare l’eccesso di spesa contabilmente risultante.

Keynes, alle cui teorie ci si ricollega, in verità non lo intendeva in questo modo. Difatti lui parlava dell’investment deficit spending, una cosa assai diversa da come viene intesa oggi.

Egli, a ragione, sosteneva che in presenza di una forte crisi economica (come lo fu quella del ’29) vi era la necessità di “investire facendo ricorso al credito disponibile, pur creando disavanzo contabile – deficit -” per muovere l’economia, ristrutturare, ammodernare e potenziare l’apparato strutturale.

Poi, una volta che il processo era iniziato, bisognava però rientrare dal debito accumulato con gli utili prodotti. Proprio come si dovrebbe sempre fare nel giusto rapporto investimento/utile/resa.

Dagli anni ’80, invece, nei paesi occidentali, e non solo, questa basilare e semplice formula economica è stata bypassata per finanziare le richieste sociali, creando, di fatto, il deficit spending … eterno e facendo esplodere oltre ogni decenza e ragionevole limite i deficit statali.

Ciò avvenne in quasi tutte le nazioni ed ora se ne pagano le conseguenze.

Basti pensare al Debito italiano, al suo imponente ammontare e a quanti decenni (secoli) di austerità e di oculato risparmio ci vorrebbero per ridurlo a zero.

L’impresa parrebbe quasi … irrealizzabile. Tuttavia è stato prodotto in circa 3 decenni.

Obama, salvo sorprese nella nuova necessaria votazione, essendo la precedente viziata e nulla per errori procedurali, ha portato in porto il sogno di molti presidenti americani: la riforma sanitaria aperta a tutti.

Per la verità proprio per tutti non lo è, anche se ci si può accontentare.

Tale riforma è ovvio che inciderà sul Debito americano; ma essendo una priorità/diritto all’uguaglianza sociale della persona umana, può essere benissimo intesa come un investment deficit spending, che, comunque, avrà bisogno di una copertura finanziaria proveniente da altri settori per non diventare un semplice deficit spending.

Tutto ciò per dire che vi sono delle spese necessarie che, anche se producono deficit, possono dare quella stabilità sociale ed economica di copertura ai cittadini in caso di gravi impatti recessivi.

Perciò, anche se come semplice spesa, va catalogata come un reale e necessario investimento produttivo.

I deficit nazionali continueranno a crescere anche nei prossimi anni, nonostante le buone intenzioni del costituente “governo economico” Ue.

Bisognerà, però, scegliere come prioritari certi capitoli di spesa, eliminarne altri e far capire a tutti cittadini la reale situazione in cui versiamo.

È finito il tempo in cui, per tenere buone le masse, si scialacquava abbondantemente per ottenerne consenso (voti), ipotecando non solo il nostro futuro, ma pure quello delle future generazioni.

Il debito non può essere dilatato all’infinito, tanto nelle aziende che negli stati.

E la ragione è una sola: un giorno gli interessi per finanziarne la copertura saranno talmente elevati da non essere più finanziariamente sostenibili.

Si avrà forzatamente il default.

Proprio come è avvenuto a suo tempo in Argentina; e che ora sta accadendo in Grecia e che accadrà, inevitabilmente, anche in altre nazioni se si procederà su questa falsariga.

L’economia Ue, grazie all’€, oggi è talmente interconnessa che gli sbagli (e gli sprechi) di alcuni poi ricadono su tutti, come l’accordo sulla Grecia sta a dimostrare nelle nude cifre.

Non siamo più né soli, né indipendenti. Di ciò devono prenderne atto tanto i cittadini quanto i governi.

E, se mi è concesso, un grande ruolo di responsabilità sociale se lo deve assumere anche l’opposizione, la quale deve cessare di cavalcare il malcontento generale col contestare sempre e comunque tutto, cercando di demolire l’operato altrui nel montare il becero qualunquismo e populismo.

L’opposizione, se vuole assumersi il vero ruolo sociale che gli spetta, deve perciò produrre un dettagliato programma alternativo all’attuale deficit spending (e dimostrare di crederci), oppure collaborare con la maggioranza nel far comprendere a tutti lo stato in cui realmente versiamo.

Questo impone il ruolo democratico d’essere forza di governo o di opposizione.

La crisi, pur con tenui barlumi di speranza, non è ancora superata. La CIG, però, sta per finire.

Molte aziende è facile che debbano chiudere, oberate dal deficit contabile.

Non si può, perciò, lasciare l’operaio senza alcuna copertura finanziaria di reddito, dopo averlo incentivato a spendere (indebitarsi) per sostenere l’economia.

Il minimo che si possa fare è il prolungare di alcuni mesi, attivando la straordinaria, la stessa CIG.

È un obbligo sociale!

Questo sarebbe un vero e profittevole investment deficit spendig sociale; solo, però, che il tutto venga concepito nel giusto verso da governo, cittadino, maggioranza ed opposizione.

Diversamente sarà, pure questo, un semplice deficit spending, atto a prorogare, ma non a risolvere, il vero problema nostro attuale.

L’infinito, è bene ricordarlo, è un’unità di misura astrofisica e non finanziaria.

Se lo si dimentica il default sarà inevitabile.

lunedì 15 marzo 2010

I problemi strutturali irrisolti.

La Grecia ha posto un grave problema di stabilità e unità monetaria in seno all’Ue, ma questo problema coinvolge anche altri paesi. Sono problemi che debbono essere risolti il più velocemente possibile.

Prima della Grecia gli stessi problemi erano stati evidenziati anche da molte società finanziarie e industriali, al di qua e al di là dell’oceano. Per cui i vari governi le hanno prontamente soccorse.

Ciò significa che il problema non è di un singolo stato o di una sola società, bensì strutturale.

Questo problema si chiama con un solo nome: Debito!

L’eziologia può essere utile a comprendere come il problema si sia prima formato e poi incancrenito; lo è un po’ meno nella risoluzione dello stesso per un semplice motivo: eliminare (ridurre drasticamente) il debito significa austerità, tasse, probabile stagnazione e insoddisfazione sociale. Insomma, far fare a tutta la società un notevole passo indietro nel benessere individuale e nel reddito percepito.

La Sx, italiana e non, ora non ha alcuna idea alternativa al capitalismo, specie a questo capitalismo. È in profonda crisi ideologica e preda della demagogia dialettica.

Perciò non trova nulla di meglio che cavalcare con slogan il malcontento della piazza, specie di quella che si è sempre basata sulle promesse politiche dell’assistenzialismo dovuto e del diritto impropriamente acquisito.

E per non affrontare il problema, non avendone né la capacità, né le idee, si “creano” artificiosamente altre problematiche minori, spacciandole per basilari e ammantandole quali difese della libertà.

Se ipotizziamo un Pil a 100 e una perdita avuta di circa il 6%, scendiamo a 94. Se, ipoteticamente, nei prossimi anni procedessimo con un incremento dell’1% (molto improbabile), per tornare a 100 impiegheremmo oltre 6 anni. Se poi si calcolasse la possibile inflazione dovuta al surriscaldamento delle materie prime, o di rifugio, ulteriori anni in più.

Le grandi recessioni hanno sempre portato con sé disoccupazione e inflazione. Ne consegue che il tenore di vita di tutti noi non potrà far altro che scendere.

Si è proceduto a sostenere i consumi per rilanciare l’economia con degli incentivi, specie per la pressione delle multinazionali manifatturiere. Il problema non è stato risolto: si è bruciato risparmio, si è creato indebitamento e si è spostato il problema solo più avanti.

Ora la CIG, nel settore, imperversa ed è impensabile procedere all’infinito con gli incentivi e con la stessa, anche perché servirebbero a poco. Difatti i vari governi stanno ricercando altre vie percorribili non avendo questi labili correttivi risolto il problema.

Molte società stanno immettendo, o hanno già immesso, sul mercato ingenti quantitativi di bonds, ampliando ancora il proprio debito; ma se questa immensa massa di risparmio non servirà alla ristrutturazione e al rafforzamento patrimoniale, dilaterà ulteriormente il problema tra non molto.

La stessa cosa han fatto i governi e le banche centrali, Bce e Fed in testa, nel tentativo di fermare la caduta.

La stessa Cina, pur con il suo Pil a due cifre, si sta scontrando con gli stessi problemi per due motivi.

Il primo è che molti capitali, che hanno favorito il suo rally industriale espansivo, provengono dal mondo occidentale, attratti a suo tempo dai costi produttivi bassi e dal ferreo controllo, sulle maestranze (prive dei basilari diritti umani), imposto da una società a radice massimalista, anche se ormai impostata verso un liberismo commerciale. Tali capitali non è certo che rimangano a lungo sul territorio, volatili come sono alla ricerca del profitto migliore al minor costo.

Il secondo è che la ricchezza prodotta e accantonata, come risparmio, è stata attratta dalla possibilità di redditi superiori, perciò ha emigrato verso paesi, States in testa, dove la speculazione poteva produrli e i tassi reddituali sul capitale impegnato erano migliori.

Tutto ciò rende chiaro che ciò che oggi è reale domani sia ipotetico. E non è detto che il risparmio investito altrove debba necessariamente rientrare.

La POBC[1], infatti, ha già alzato l’obbligo di riserva di 50 punti ed ora si appresta ad alzare anche i tassi per frenare l’investimento facile, impaurita anche dal surriscaldamento del costo delle materie prime e dalla crisi commerciale che ha drasticamente ridotto lo sbocco ai mercati occidentali.

Le varie aziende, sfruttando l’onda espansiva e il conseguente profitto di bilancio, si sono indebitate ed espanse oltre il dovuto e la crisi dei mercati occidentali ora riduce drasticamente gli utili e gli ordinativi, dilatando di conseguenza i costi.

Il problema Grecia si basa essenzialmente su due fattori di debito: il Debito pubblico e il Disavanzo commerciale.

È inevitabile che il secondo dilati anche il primo.

La Grecia, in media, ha mensilmente uno sbilancio commerciale pari a circa 3 mld di €; perciò oltre 30 mld abbondanti annui. Tutto ciò a fronte di un Pil che si assesta sui 250 mld di €.

Ciò significa un debito aggiuntivo del 14% circa annuo che, inevitabilmente, si ripercuote sul Debito pubblico.

Ecco perché per tamponare l’emergenza deve essere soccorsa prontamente con almeno 25 mld di € cash per non fare default.

Che ciò avvenga direttamente tramite la Bce o l’Ue, in modalità da definire, non ha molta importanza.

Questi nudi e preoccupanti dati hanno un significato sociale rilevante: si spende molto di più di quanto si è in grado di produrre, sia nel privato che nel pubblico.

Oppure, diversamente: si è investito male e si sono dilapidate risorse.

Il problema reale non è quello di finanziare il debito greco, ma quello di ridurlo drasticamente riducendone i consumi.

Il governo ci ha provato per ora blandamente e i moti di piazza sono subito comparsi nella loro virulenza, favoriti dall’opposizione che prontamente li cavalca come sempre avviene. Ci si può immaginare cosa potrebbe accadere se il problema si tentasse di risolverlo drasticamente.

Eppure prima o poi ci si dovrà arrivare se non si vorrà affogare: tanto in Grecia come altrove.

La Grecia, purtroppo, non è l’unica indiziata; e non a caso è uno dei paesi P.I.I.G.S.[2]

Portogallo e Spagna non stanno molto meglio e neppure l’Italia, con il suo imponente Debito pubblico che si avvia verso i 2.000 mld di € (quasi il doppio del Pil annuale), può cullarsi in sonni tranquilli.

Ridurre le importazioni non soggette alla trasformazione, perciò all’esportazione, significa ridurre il tenore di vita. E ridurre il tenore di vita significa tornare indietro nel tempo, magari pure di decenni.

Ciò, ovviamente, non è gradito alle masse e specialmente alle nuove generazioni che non sanno com’eravamo.

La società basata sull’edonismo consumistico ci ha portato a questo inevitabile traguardo negativo.

Tornare sui nostri passi, abbandonando la via errata dello spreco e dell’opulenza apparente, porta non solo con sé la necistà di ridurre il proprio tenore di vita raggiunto, ma pure il rinunciare in parte a quelle sicurezze sociali che da quasi tutti vengono concepite come principi irrinunciabili: sicurezza del posto di lavoro, assistenza sanitaria e sociale totale, pensioni, comodità della vita, libertà di movimento, svago, tempo libero ...

Siamo nel tempo del personalismo, perciò del personalismo relativistico che vede ogni singolo individuo come prioritario agli altri: l’egocentrismo individualistico.

Ne consegue che ognuno di noi vuole addossare agli altri la responsabilità e i costi dell’inevitabile ridimensionamento sociale.

Ci si riunisce in lobby comunitarie in politica, nelle piazze e pure … nella Chiesa: si è perso il concetto democratico di Popolo e Nazione. E, prima ancora, quello di Famiglia.

Si è persa, sulla scia del comodo edonismo, pure religioso, la cultura dell’essere cittadino e samaritano nello stesso tempo, base imprescindibile per essere Popolo e Chiesa simultaneamente.

Gli esperti di Europa e America stanno cercando di trovare una via comune per ridurre, se non annullare, tutti i titoli tossici che hanno creato la bolla speculativa e la recessione stessa.

Si parte da concetti culturali e economici diversi e l’accordo non è facile da trovare su ciò che bisognerà eliminare e ciò che si potrà ulteriormente incrementare e valorizzare. Forse ci vorrà del tempo, anche se, non avendone molto, ciò può essere deleterio.

Hedge funds, specie gli off shore, e buona parte dei Derivati sono incriminati, soprattutto i CDS; ma si cerca anche di regolamentare in modo diverso e vincolante l’MTA, con i CFD, i Futures, il Forex e altri strumenti rischiosi finanziari.

Ciò, ovviamente, non è molto gradito specie a tutte quelle società internazionali e finanziarie che di questi hanno fatto un vero cult, basandoli spesso su delle leve esorbitanti in grado di raggiungere anche il 5000:1 e talora, specie per gli off shore dove non ci sono regole precise, anche con rapporti di molto superiori.

La Leva è uno dei problemi principali di questo nostro secolo, usufruendone privati, società e stati.

La moneta virtuale ha sostituito quella materiale; e in questo modo il credito è diventato un semplice fatto contabile da registrare nelle attività e nelle passività. Si è perso il concetto del debito materiale stesso, proiettandolo non nel presente, ma nel futuro in base, spesso, a previsioni assai relativistiche.

E bene fa la Chiesa a richiamare il concetto etico del debito alla realtà, non fidandolo troppo su delle proiezioni e previsioni semplicistiche.

Alcune grandi aziende finanziarie quotate hanno una capitalizzazione borsistica nettamente inferiore al debito stesso; e questo, spesso, raggiunge un rapporto di centinaia di volte superiore.

Spulciando alcuni bilanci, mi sono imbattuto in una grande società italiana, leader nel campo assicurativo e finanziario, che ha raggiunto l’invidiabile rapporto di 250:1.

Se si considera poi che il capitale effettivo reale sia spesso di almeno un decimo della capitalizzazione azionaria, allora il conto è subito fatto.

La crisi in essere ridurrà inevitabilmente gli utili e perciò le stesse aziende dovranno ridimensionare i loro assets, o immettere capitale fresco per compensare lo sbilancio monetario, tenendo ben presente che le sofferenze sono destinate a crescere ulteriormente per la crisi recessiva.

Finora si è optato al congelamento delle stesse, ma ciò non risolve il problema strutturale di fondo: o recuperare o perdere.

Nel MTA gli enti di controllo e supervisione hanno proibito lo Short Selling e imposto la liquidazione immediata cash.

Tuttavia questa consuetudine, tra i grandi investitori, continua ad essere praticata e la regola raggirata con il marchingegno contabile del prestito titoli o con compiacenti fidi aggiuntivi Intraday e Overnight, che spesso funzionano reciprocamente.

Questi escamotage creano turbolenza ai mercati stessi, li destabilizzano con imponenti masse monetarie virtuali e sviliscono il vero investimento.

Sono destabilizzanti e nella loro precarietà sostanziale arrecano fluttuazioni spesso accentuate, in rialzo o in ribasso, al di là di ogni parametro fondato sui fondamentali.

Il bene mobiliare non ha più un valore reale stabilito, ma questo viene fissato unicamente dalla quantità della domanda o dell’offerta, di norma speculativa.

In questi ultimi decenni molte società hanno instaurato il vezzo di effettuare la compravendita di azioni proprie, procedimento che è un vero e proprio insider trading, specie se i titoli usati sono a massa elevata.

Alcune società detengono in portafoglio svariati milioni di azioni proprie (le minori; miglia di mln le maggiori) e con queste, operando nel MTA, fanno il bello e il cattivo tempo a spese del vero risparmiatore: gonfiano e sgonfiano il titolo a loro piacimento, lucrando sulla pelle degli stessi veri azionisti.

Una tale ingente massa di azioni serve anche al controllo societario, restringendo la cerchia dirigenziale ai soliti noti, guarda caso beneficiari, spesso, dei vituperati superbonus.

Nei giorni scorsi si sono resi noti gli emolumenti di due supermanager di una stessa azienda e, facendo i debiti conti, il loro corrispettivo era di gran lunga superiore a quello di tutte le maestranze dello stabilimento che vorrebbero chiudere.

Affrontare tutti questi problemi non è facile, anche se gli esperti da tempo hanno già indicato chiaramente i correttivi.

L’ostacolo maggiore sta nella connessione tra affari e politica, perciò in quei fronti lobbistici in grado di subordinare le scelte e, con il possesso dei media, condizionare il voto delle masse.

E ciò su entrambi i fronti: sia nella maggioranza, sia nell’opposizione.

All’inizio della grave crisi finanziaria attuale, parlai privatamente a lungo della problematica con un noto onorevole.

Costui, al mio invito a rendere pubblica la grave situazione che coinvolgeva la società tutta, non solo nel presente, ma pure nel futuro, così mi rispose testualmente: “Chi si prende questa grave responsabilità? Io no di certo; anche perché tutti i miei colleghi glissano elegantemente il problema.”.

E se il politico non vuol spiegare al popolo i gravi problemi che lo vedono protagonista e vittima, allora chi ha la voce per farlo?

Ammiro, perciò, Giulio Tremonti come Uomo, che ha lasciato i suoi affari (e guadagni) per dedicarsi a tempo pieno alla nazione.

E, cosa non sottovalutabile, è uno dei pochi che, oltre a resistere alla dietrologia dello scialacquio pubblico, continua a mettere tutti in guardia, seppure quasi inascoltato, sulla grave crisi che ci attanaglia, tanto in Italia quanto nei consessi internazionali.



[1] - Banca centrale cinese.

domenica 7 marzo 2010

Il relativismo etico.

Sono ad una conferenza a matrice cattolica sulla “difesa della vita”.

Il relatore, scientificamente preparato, inizia con un lungo ragionamento filosofico che occupa metà relazione; ma la filosofia non è il suo forte. Infatti, inanella alcuni pregevoli sillogismi logici che fanno a pugni con la logica del sillogismo.

Il numeroso pubblico nell’auditorium, comunque, non è troppo pretenzioso culturalmente, perciò può pure … andar bene.

Da buon cattolico cita alcune encicliche a partire dalla Rerum novarum; e passando per la Populorum progressio giunge alla Fides et ratio, per approdare, infine, alla Caritas in veritate. Encicliche che, per altro, conosco benissimo.

Peccato che non si sia avveduto che l’ultima enciclica sia solo uno scialbo compitino rispetto a quella paolina, non aggiungendovi nulla di nuovo. È la conseguenza servile del culto personalistico, che identifica nel totem di riferimento temporale la verità.

Di quest’ultima legge pure alcune frasi.

Lo ascolto attentamente, anche perché, al di là della tematica, voglio comprendere bene i meccanismi ideologici, sociali e democratici che muovono simili iniziative: la questione la conosco perfettamente, il ragionamento religioso di massa, che ci sta dietro, un po’ meno.

Il noto relatore non è di primo pelo: attempato, bravo, suadente e affabulante usa una terminologia atta alla comprensione generale.

Inizia dalla Genesi e dalla creazione del primo uomo. Si addentra pure, nel discorso, in un accenno di economia, scambiandola per la sua degenerazione e manipolazione.

Mentre il pubblico affluisce in sala la mia accompagnatrice mi indica diverse persone, che tra l’altro non conosco, appartenenti al mondo politico locale e al corpo docente. Al massimo, alcune le ho intraviste in altre occasioni.

Sono intramezzate a gente comune, il cui compito è solo quello di ascoltare ed uniformarsi, non possedendo né la padronanza scientifica della materia, né quella elaborativa del ragionamento. Vi sono pure diversi giovani.

Nel mio intervento, senza entrare nel merito di qualsivoglia polemica, aggiungo un’alternativa supplementare al procedimento dialettico impostato dal relatore, specie per quanto riguarda l’etica sociale in un mondo non solo multiculturale, ma pure multietnico e multireligioso.

Sottolineo che il cattolico (ma anche più in generale il cristiano) oggi è ampiamente minoritario nella società e nel globo. Il suo compito non è quello di arroccarsi in difesa di alcuni principi e valori, bensì quello di testimoniare ed essere luce nel mondo nella coerenza del proprio credere.

Le varie leggi nazionali, infatti, regolano un comportamento sociale generale, ma non impongono al credente di sottoporsi a queste, se non nel limite del rispettare la scelta diversa di chi non crede.

Per chi crede vi è l’imperativo categorico dei Comandamenti, che una legge civile non cancella affatto, ma supplisce solo socialmente, regolamentando una problematica.

Il voler legalizzare forzatamente dei postulati valoriali religiosi non si addice alla società moderna, specie se nella collettività il cattolico è minoritario.

Non siamo più nell’era della teocrazia monocratica.

Pur nel rispetto dialettico faccio rilevare che le frasi citate della Caritas in veritate (come tutto quel testo) sono proprie della fenomenologia relativistica, in linea col personalismo di Maritain e Mounier: filosofia del secolo scorso che la storia ho già ampiamente rimarcato come superata e inadatta alla società attuale.

Non ci può arroccare sul passato che fu, ma aprirsi nella testimonianza della coerenza del proprio vivere e credere, tenendo ben presente che i più non la pensano allo stesso modo.

Perciò bisogna, da una parte, credere e vivere i propri principi e valori e, dall’altra, negoziare nella società in modo che le leggi sociali di regolamentazione di alcune importanti tematiche salvino il diritto di libertà individuale e generale.

La fenomenologia relativistica del vertice ecclesiale tende, infatti, ad avvalorare il proprio intendere al concetto dottrinale della teocrazia monocratica verticistica, creando un insanabile contrasto dialettico tra religione e società.

Si intende, in questo modo, sottoporre la democrazia alla religione, partendo dal principio (indimostrabile) che questa (religione) sia prioritaria all’essere Popolo.

Perciò la Comunità cattolica “vuol” essere popolo, pur essendo solo una parte minoritaria di questo. Trasla il proprio intendimento generalizzandolo su tutti.

Si sono invertiti i concetti ecumenici del Vaticano II, ghettizzandosi culturalmente nella certezza d’essere gli unici depositari del sapere vero.

Un’arrapata cattolica, borghese e salottiera, ex professoressa, prende la palla al balzo, nel dibattito susseguente, sullo spunto del mio intervento.

Il suo è un discorso di relativismo culturale ed etico sconcertante sul piano dialettico e logico. Mi è utile per aggiornare dove va certa chiesa.

La sua lamentazione, assai restrittiva, punta sul suo essere stanca della società attuale e delle leggi sociali, che sono in vigore e che possono essere nel tempo ulteriormente emanate. Dice di subirle!

Si potrebbe definire un intervento di oscurantismo intellettuale, perché basato ad intendere il proprio pensiero come “sapiente” rispetto a quello del non credente.

Rivolgendosi a me, infine, mi chiede come si possa superare l’attuale relativismo etico.

Non vi è tempo; e perciò mi limito ad una concisa e semplice ma precisa risposta lapidaria: con il rispetto della Democrazia.

Quando si vuole imporre alla maggioranza l’intendere di una ristretta minoranza, come è oggi quella del mondo cattolico, si opera nell’assoluto relativismo etico.

La democrazia passa in subordine alla teocrazia.

Voi sarete la luce del mondo” – disse; non: “Voi dovete imporre la luce al mondo”.

E l’essere luce lo si ottiene nella testimonianza e nella coerenza dell’essere samaritano: in quel dare gratuitamente (in opera e in pensiero) senza pretendere alcunché, né dal singolo, né dalla comunità.

Quando una/o dichiara di essere stanca/o di sopportare la democrazia, perciò l’intenzione della maggioranza di procedere secondo il volere dei più, ci si arrocca non nell’integralismo religioso, ma nell’ignoranza sociale che fa del proprio fondamentalismo la base intellettiva del personalismo fenomenologico: il “fenomeno” sé stessi si sostituisce agli altri sulla base inconscia dell’irripetibilità e unicità del proprio essere persona, qual sole cosmogonico della società.

Essere cattolico diventa, allora, solo un pleonastico fatto apparente, proprio dove l’apparire si sostituisce all’essere.

Si crede d’essere cattolici, mentre invece si è solo egocentrici individualisti.

Problemi come l’aborto, il divorzio e l’eutanasia si prestano a dubbie interpretazioni, tanto scientifiche quanto ideologiche, sulla base del punto di partenza.

Ed è strano che da una parte si voglia negare o limitarne l’uso (o abuso) al popolo, mentre dall’altra sia propria la stessa società, a matrice ideologica cristiana, che ne faccia ampio uso.

Ci si affronta aspramente a difendere un principio generale che, nella pratica, si sovverte individualmente nella quotidianità.

Proprio come quei tanti politici odierni che dopo avere “distrutto” la propria famiglia si ergono, pubblicamente a paladini, a difesa del concetto della stessa.

La Vita è sempre vita; ma, come sottolineavo nel mio intervento, ogni religione la imposta su confini e valori diversi.

E non è un caso che la diversità dell’intendere religioso parta da principi diversi per approdare a valori spesso discordi.

Un esempio pratico è la diversità cristiana esistente tra il mondo anglosassone, protestante, e quello cattolico, latino, proprio su molte di queste problematiche; per cui, poi, ci si divide idealmente tra progressisti (liberismo) e conservatori (radicalismo).

Il relativismo etico non è un fatto ideologico e sociale di parte, bensì il risultato dell’ignoranza del concetto di democrazia.

La democrazia esiste pure nella Chiesa, anche se con tempi maggiori per la sua struttura umana, piramidale e teocratica. E ciò avviene proprio perché il personalismo fenomenologico si è fatto largo nella mente dei vertici ecclesiastici, ponendo il “capo” oltre il Concilio.

E non a caso, nell’intervento, citai Martini, che proprio un nuovo concilio chiese ripetutamente a gran voce.

Democrazia non significa abdicare ai propri principi e valori; significa adeguarsi, dopo aver lottato nelle sedi e nei modi corretti, al voler della maggioranza. La quale non è identificabile a quella prettamente parlamentare, anche se questa ha l’investitura del voto.

Dopo la legge vi è il referendum, se lo si ritiene utile, anche se la storia, pure nostra attuale, ci insegna che quest’espressione a suffragio universale popolare talora viene disattesa.

La legge civile regolamenta una problematica sociale, ma mai la impone.

Il cattolico praticante non è costretto, ad esempio, ad abortire forzatamente, come avviene in alcuni paesi del sudest asiatico dopo il primo figlio. E nello stesso modo non è costretto neppure a praticare forzatamente l’eutanasia in presenza di malattie degeneranti o terminali.

Nei paesi occidentali la legge, su simili problematiche, è spesso un puro protocollo operativo per chi la pensa diversamente, sostituendo la regolamentazione all’anarchia pratica.

Considera e salvaguarda la libertà “religiosa” di ognuno, proprio perché pure il non credere nel Dio cristiano è un diritto ideologico, anche se eventualmente ateo.

Migliorare una legge non vuol dire uniformarsi ad essa o condividerne culturalmente il principio. Significa solo il rispettare le esigenze del diverso da noi.

La democrazia salvaguarda il diritto di tutti nell’essere alla fine popolo e nazione e non comunità o ghetto.

E se lo si dimentica allora si è proprio nel relativismo etico; in quello stesso relativismo di cui ci si sente vittima sacrificale e che si desidererebbe tanto superare.

mercoledì 3 marzo 2010

La compagnia del fil dè fèr.

Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto sulla sua ultima passeggiata in altura, certo che lo avrei pubblicato.

Tratta della vita degli animali della foresta e dei loro discorsi sugli avvenimenti attuali.

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

La compagnia del fil dè fèr.

Ovvero:

La lista del pà, salàm e … cudeghì.

Nella foresta vi era un po’ di movimento e alcuni animali rappresentativi erano in subbuglio.

Si avvicinava l’ora della nuova Dieta e perciò ci si divideva idealmente in due gruppi: chi non era interessato e chi voleva rappresentare, brigando assai.

I primi, oberati dalle mansioni giornaliere non pensavano affatto a ciò; ma i secondi, per cui il farne parte era anche un significativo modo di sbarcare il lunario, erano assai in tensione.

Io, Sesac, e quelli come me guardavamo distrattamente a tutto ciò, anche perché la questione non ci coinvolgeva affatto: eravamo lungi da sì pedestri occupazioni.

Per la verità non avrebbero dovuto essere pedestri, ma i vari esponenti le avevano fatte diventare tali.

Era una splendida giornata di sole e molti di noi decisero di lasciare la foresta per effettuare una scampagnata in altura.

In alto vi era ancora molta neve, ma sapevamo che la cascina era accogliente.

Perciò in diversi ci ritrovammo alla fine lassù, quasi richiamati dall’istinto della foresta.

Vi era Gini, solerte e fedele custode dei pascoli, che là proprio abitava; poi vi era Piro, sapiente, delicato e profondo cultore del sapere, che ogni fine settimana di norma vi si recava.

Vi era Calo, rude artigiano rubicondo, con tutta la dinastia familiare, che ruspante cacciatore di … penna era; vi era anche Buro, altro artigiano sordo come una campana e perciò quasi sempre estraneo al discorso, quasi ascetico nell’osservare la natura, come se stesse cogliendo dai colori di questa l’artistico incipit dell’iride per il lavoro del giorno dopo.

Poi vi era quasi la sanità al completo, con tanto di personale specializzato; con il Dottore in testa, ora un po’ … tutto con il capo tra le nuvole, essendosi imbattuto in una pollastra indios che gli aveva fatto scambiare una possibile figlia per abile e perfetta … moglie.

Non mancava neppure il corpo docente e la foresta tutta era ben rappresentata.

In alto trovai la compagnia del fil dè fèr, intenta a battere i boschi per snidare i cinghiali che rovinavano tutti i pascoli in alto e in basso.

Erano una trentina e muniti di archibugi, avvolti nelle loro tute mimetiche forse per farsi notare maggiormente tra il fogliame rossastro in putrefazione nel bosco.

Un incidente poteva sempre capitare ed era necessario premunirsi, anche perché alcuni di loro potevano facilmente, senza tuta, essere scambiati per selvaggi animali.

Appartenevano a mondi diversi e li univa solo il sanguinario desiderio di abbattere il cinghiale; null’altro li univa, né ideologicamente, né economicamente, né culturalmente.

E, appunto per questo, si erano dati questo nome.

Giunsi dopo mezzodì, dopo un’appagante camminata rilassante tra pascoli innevati e boschi spogli, solo qua e là punteggiati da macchie verde intenso per le rade aghifoglie.

Vi trovai anche il Leone nella numerosa e festante compagnia, accompagnato da Era, abile e provetto direttore, un tempo, di grandiosi lavori industriali e civili. Non aveva con sé la fedele Mada, perciò si concedeva qualche sfizio, sapendo che non gli avrebbe potuto dire “Taci, Era!”, alzando a mo’ di paletta di stop la candida e fragile manina.

Il fuoco scoppiettava nel camino e un tiepido benevolo calore accoglieva il viandante, quasi avvolgendolo e purgandolo dalla ventosa aura che sui crinali correva veloce a giocar con le leggiadre nubi.

Il sapore del faggio sul fuoco profumava la stanza, quasi disseccando la laringe e, perciò, invogliando gli astanti a sorbire il rosso nettare.

Gini, come al solito, era il più lesto di tutti e accompagnava ogni sorso con gorgheggi degni di un tenore da sotto … scala, alternandoli ad un vociare assordante e senza costrutto, spesso incitato da Era a produrre il suo dolce e appassionato lamento di un ipotetico canto.

Era, abile a conoscere la produttività, lo chiamava “giannizzero”, per il suo custodire cascina e poderi con singolare attaccamento, da decenni consolidato.

La compagnia si era accomodata intorno alla lunga tavola, illuminata dal nerboruto sole invernale che filtrava dalle civettuole inferriate elicoidali poste a sud.

Sgranocchiavano delle caldarroste preparate da un arrossato Calo; ma altri gustavano focacce, torrone e mandorle, ricoperte da fondente, che Leone aveva preparato.

Il tutto ben innaffiato da alcune varietà di rosso nettare proveniente dai vari Land della foresta.

La discussione, identificabile ad un grazioso gioco salottiero, ferveva sulla nuova Dieta, favorita da sapienti sorsi atti a sciogliere la favella.

Nel bel mezzo del discorso Piro si alzò, fece alcuni passi e dalla sua cartella trasse il Bugiardino, locale foglio dedito per lo più a “baruffe ciosote”.

Lo pose sulla tavola aperto proprio davanti a Leone, mostrandogli un articolo su alcuni candidati alla Dieta.

Piro aveva sulle labbra un sorriso mefistofelico, convinto che qualcosa sarebbe successo per la gioia e l’interesse degli astanti.

Gli disse: “Eccoti il tuo amico. A presidenza ottenuta ti richiamerà dall’ozio e ti insedierà in alta carica insieme a consorte, in modo che possiate essere utili alla foresta!”.

Leone guardò distrattamente e rise, non raccogliendo affatto; poi, disse: “I miei veri amici son tutti qua e non ne manca alcuno!”.

L’articolo occupava un’intera pagina, arricchito dalle foto di diversi galoppini.

Troneggiava su tutte quella di Orso, ispido e corpulento bestione, selvaggio in apparenza e in cultura.

Non aveva un aspetto da intellettuale, ma di prodigo calloso lavorator di … senno, anche se il lavorar reale non gli si addiceva proprio. Nella vita aveva preferito, infatti, rappresentare gli altrui interessi facendo anche i … propri.

Leone scorse velocemente le immagini, riconoscendo diversi animali.

Additò col dito agli amici la foto del Fante peregrino. Era costui un corposo animale dedito da alcuni decenni alla transumanza, la cui destinazione variava continuamente perché … l’erba del vicino è sempre la più buona. Era sempre in combutta con i corvi, forse perché la faccia da tunicato mancato non gli scarseggiava.

Poi pose il dito su quella del Porco, grezzo e corposo animale da cortile con la testa sempre nel truogolo come la cinta senese. Era talmente brutto e gonfio che se qualcosa lo avesse magari punto si sarebbe creata, come sottolineò Gini, una tale esplosione da radere al suolo tutta la contea. Pure lui era un transfuga continuo, dedito ad occupar poltrone pur di non lavorare; il suo motto era “Pà e salàm”. Difatti bastava che ci fosse da aprir bocca e ne uscivano demenzialità, lasciando posto a cibo e bevande di qualsiasi tipo. Era un perfetto compagnone da bettola, ricco di … segatura e mancante di … costrutto.

Spostò indi il dito su quella del serioso Gufo, barbagianni attempato che s’era annidato nella stanza di comando d’una tribale comunità valliva.

Poi passò alla Giraffa, giovane femminuccia intenta ad alzar troppo il collo per farsi notare, onde non rimaner politicamente … zitella.

In parte a lei vi era quella del Gattino, vispo animaletto ancora imberbe che intendeva mostrare le unghie da adulta tigre.

Ovviamente ve ne erano altri e Leone dedicò ad ognuno una pennellata di colore, anche se ciò sarebbe stato maggiormente consono, per professione, a Buro.

Poi, mentre ognuno aggiungeva la sua, si sorbì lentamente un goccio di Grecale, odorandolo prima assai mentre lo agitava a vortice nel calice.

Calo prese la parola e disse che era una lista di affamati.

Era aggiunse, col suo linguaggio colorito, che a lui parevano tanti renitenti alla leva.

Mentre il Dottore, toltosi momentaneamente dall’estasi sul fiume Paranà, sentenziò che, con tutto il rispetto, gli parevano tanti imbucati.

Piro, con molto humor, invitò gli astanti a portare rispetto a cotanti splendidi candidati che avrebbero occupato, senza dubbio alcuno, tutti gli scranni della Dieta.

Venne l’ora del tè e la compagnia lasciò i calici per le tazze calde e i biscotti.

Il sole penetrava ora di sbieco dalle finestre a sud e non illuminava più la tavola, quasi ad annunciar il giorno che trapassava.

Piro prese il Bugiardino e si dedicò ad alta voce alla lettura, illustrando poi a braccio il programma politico … inesistente.

Gini era ormai al top dell’ilarità e, pur non capendo nulla, ci metteva spesso del suo, vociando assai nell’eterolalia compulsiva, mentre Billy lo guardava interessato, ad orecchie ritte e zampa … puntata.

Poi Piro passò ai problemi economici enunciati, commentandoli e confrontandoli con il programma espresso.

Ed infine chiese maliziosamente a Leone: “Non ti pare che siano meritevoli della vittoria?”.

Leone finì lentamente di sorbirsi il tè al latte e poi cominciò:

Certamente! Se la vittoria è cieca.

Voi ora ditemi se una tale demenzialità val la pena di essere non solo commentata, ma pure presa in considerazione.

Certo è che oltre che nei circoli ‘zuccabanchi’ si farà propaganda nelle bettole, dove il Porco è forte a svuotar fiaschi e a divorar salami; ma in questo modo non si andrà lontani.

Vi è, indubbiamente, la fanteria brancaleone, ma non vi è cavalleria, neppure leggera. E quando bisogna fare molta strada i fanti non sono il massimo, specie se appesantiti nel loro incedere dai carriaggi … corpulenti. Se, poi, i fanti son pure raccogliticci mercenari di ventura, allora il risultato è scontato.

Non vi è neppure lo stratega e perciò si vivrà alla giornata, finché la sconfitta, inevitabile, arriverà. Parlare di disfatta sarebbe troppo, anche perché qua si è come nello sport: l’importante è partecipare e non … vincere.

Orso non è un generale, non è uno stratega, non è neppure un … ufficiale; è, solo, un sottufficiale in pensione che viene mandato alla ventura, quasi bruciato sull’altare della demagogia per toglierselo dai … piedi.

Non è, neppure, un abile sergente in grado di addestrare e selezionare la truppa: è quello che … è!

Vedete forze fresche oltre alla Giraffa e al Gattino? E, queste, son forse forze, oppure animali da cortile intenti a seguir la carovana?

Forse qualcuno ha scambiato la guerra con il circo, il consenso con l’aspirazione, l’ideale con la ragione, l’opportunità con la strategia politica.

Questa è la lista proprio dei cacciatori di cinghiali, quella del fil dè fèr, tenuta insieme solo dal filo di ferro, quello di vergella cruda e tutta arrugginita, che da un momento all’altro si spezzerà.

Peccato per loro che non tutti siano … pane e salame.”.

Gini, forse assopito dai vapori, era stato stranamente silenzioso.

Calo, vedendo il bicchiere vuoto prese del Bonarda e gliene versò fino al colmo.

Gini ne bevve un po’, si scrollò il torpore di dosso, si alzò tra tutti e fece un brindisi accompagnandolo con queste parole a mo’ di dedica: “Alla salute della lista del pà e salàm, perché noi non siamo cudeghì de paghèra!

Tacque, bevve e si sedette soddisfatto tra una risata generale.

Per il profano le parole, tradotte liberamente dal patois, corrispondono a questo significato:

alla lista del pane e salame, perché noi non siamo tanto fessi d’essere scambiati per le pigne degli abeti.

Sesac