sabato 12 settembre 2009

Pensiero aggiuntivo.

(Il presente articolo non ha un link relativo a dove l’ho postato per motivi strettamente personali e di privacy.

Si collega comunque perfettamente all’articolo precedente – in più parti - Analisi transazionale e sottobosco culturale.

L’ho denominato, semplicemente, nel modo sottostante)

Pensiero aggiuntivo.

Sul Corriere avevo notato il suo articolo e m’ero ripromesso di rivederlo; perché un ottimo articolo val sempre la pena di leggerlo due volte.

L’ho cercato in rete per comodità e l’ho trovato qua. Sfrutto l’ospitalità per aggiungere un pensiero supplementare.

Inizio citando lo stralcio di una sua frase “… sono le espressioni che indi­cano un abbandono dell’uomo nelle mani di Dio” e mettendola in correlazione a un’altra frase evangelica del Figlio al Padre: Elì, Elì, lemà sabactani” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. (Mt 27,46 ; Mc 15,34).

Ho sempre voluto intendere questo abbandonato in senso positivo: un grido di dolore, e non di disperazione, per la sofferenza umana e per la scelta personale del Figlio d’assoggettarsi volontariamente e liberamente alla volontà del Padre.

Quello che K. Häbsburg[1] definì il voldere (volere il dovere).

Perciò un abbandonato che va inteso come libertà assoluta di accettare o di rifiutare la volontà del Padre nella drammaticità degli eventi.

Anni fa dialogai amabilmente con un religioso, il quale mi confidò la sua grande difficoltà a concepire esattamente (accettare anche nella fede) il Sacrificio a cui il Padre aveva sottomesso il Figlio. Si chiedeva se non fosse stato possibile per Dio agire diversamente.

Obbiettai che il doloroso “problema” del Padre forse nasceva dall’evolversi della creazione. In pratica che noi vedevamo la morte storica, anziché la morte speculativa. E parlai di venerdì storico e di venerdì speculativo, correlandoli strettamente.

Nella nostra società c’è una cultura fenomenologica un po’ ovunque, che è prettamente personalista e di norma individualista.

Nella Chiesa vi è nella maggioranza (laici e clero) la tendenza a soppiantare il concetto di “popolo” con quello di “comunione”, perciò quello di “cammino” con quello di “sinergia”.

Quindi la sacralizzazione del totem (mi si perdoni la citazione) con quella del ministero.

Dicevo di fenomenologia; e, in relazione al suo articolo, di fenomenologia della morte, che l’autore citato elucubra elegantemente.

Una morte storica: un tabù da focalizzare individualmente e da scongiurare. Là dove la morte diventa fattore unicamente individuale, anziché umano: spettacolarizzazione fine a sé stessa.

La Chiesa, nei secoli, non nei Padri bensì nel clero, ci ha messo spesso del suo, dipingendo la morte quale ultimo tragico baluardo che ci divide dal Giudizio. Il che è vero, però se rapportato alla Misericordia e alla paternità/chiamata di Dio.

La morte, nella fenomenologia e nel personalismo, assume il connotato inconscio del processo presimbolico, perciò di un’immagina non vista complessivamente nella sua totalità, ma solo nella chiarezza di alcune sue particolarità appariscenti: il travaglio, il dolore, la fine materiale e la nullità esistenziale (nell’agnostico; e spesso, inconsciamente, condivisa anche dal credente).

In pratica il giudizio è formulato su impressioni sensoriali personali (esperienza su morti vissute in prima persona) o su tensioni istintuali (esperienza culturale ricevuta oralmente), che sottolineano la spettacolarità dolorosa e il traumatismo dell’evento invece della finalità.

Si ha, in definitiva, una visione ristretta e sommaria del problema.

Nella morte speculativa si effettua, invece, una comunicazione analogica nell’ottica sistemica, perché il discorso elabora la relazione completa tra emittente e ricevente, perciò tra morte e finalità o, se si preferisce, tra uomo e Dio.

Il messaggio materiale della morte diventa comunicazione reale, unendo i due terminali (fine e aldilà) in comunicazione fattiva nel suo passaggio naturale: il tornare al Creatore nel divenire.

Pulvis es et pulveris reverteris!

Mai, come in questo caso, l’inizio e la fine (polvere – nullità senza Dio[2]) combaciano, proprio perché l’essere figlio rende il tabù (morte) finalità di cammino verso il totem (Dio).

Proprio come l’abbandonarsi del Figlio al Padre presuppone la comprensione in un’unione manifesta e volontaria che prevede un divenire, geometricamente esemplificabile nella retta infinita nello spazio; la quale è una successione interminabile di punti, che alla fine si ricollegano al punto di partenza chiudendo la grande ellisse della vita: la continuità permanente.

La comunione diventa effettiva a livello antropologico e non solo individualistico; perciò comunicazione analogica tra evento e percezione che rende il “colloquio” mutuo consenso.

Il problema legale (procedura statale - legge) è, in effetti, un falso e labile quesito; come lo diventa quello dell’affidarsi alla scienza o allo scienziato. Come lo sono altri quesiti similari che coinvolgono la coscienza, perché destinati non a regolamentare una contingenza, ma solo quale protocollo operativo per chi è incapace di concepirlo e di padroneggiarlo.

La regolamentazione civica del furto, ad esempio, è superflua per il credente, giacché nella fede il comandamento divino universale è già presente e la legge da imperativo categorico già condivisa. Perciò la legge umana è solo sempre un doppione riduttivo e imperfetto.

Tuttavia è necessaria per stabilire una convergenza tra il credente e l’agnostico o l’interreligioso: un modus vivendi.

Quid est veritas? (Gv. 18,38) sorge spesso spontanea nell’uomo attuale, impregnato di quel razionalismo che non è in grado di rimanere fedele alla vita in cui si manifesta, perciò in noi stessi.

Sant’Agostino suggerì “Vir qui adest!”, traendolo e facendolo suo da una vulgata apocrifa. E non solo perché Gesù è “Emet” (la Verità – in ebraico), ma perché etimologicamente questa parola è composta dalle tre lettere (alef, mem e taf), di cui mem è la centrale, alef la prima e taf l’ultima dell’alfabeto, con ciò indicando non solo la duplice identità Verità/Dio, ma anche la totalità del sapere che permane nello scorrere del tempo.

Emet corrisponde al lemma greco Aletheia.

E Heidegger, disquisendo[3] su quell’etimologia, giunse alla conclusione che significa ciò che non si nasconde” e che sfugge al tempo quantificandosi sempre nella storia, pur rimarcando che questa è l’omologo e l’antitesi della verità religiosa.[4]

Vi è, infatti, una duplice problematica parallela che, da un lato, quantifica l’efficacia della parola sugli altri e, dall’altro, pone la consistenza del rapporto della verità con il reale. Proprio come la morte storica e la morte speculativa.

L’affidarsi al Padre, o al samaritano di turno, diventa un convenzionale diritto, e non una condivisione reciproca nella necessità o nella finalità, se visto solo in modo fenomenologico.

Ma, come Lei scrive, l’abbandonarsi al Padre è andare incontro al Signore risorto: a chi è Emet (Verità/Dio) e nello stesso tempo Salvezza nell’abbandono della fede.

Bisogna cercare l’annuncio di speranza, lasciandoci simultaneamente ricercare nel mutuo consenso col Signore asceso.

Il concetto di vita non può essere ristretto al solo valore fenomenologico, perciò ad una semplice entità temporale, perché in questo modo la vita diventa essenziale nella materialità esistenziale. E, allora, anche la vita vegetativa pone al parente un valore di continuità pur nell’assoluta incapacità. Siamo però nel materialismo o in quella religiosità personalista individualista che si basa su un processo presimbolico a cui necessita il totem e il tabù.

La scienza e la tecnica hanno prolungato la vita; e la prolungheranno sempre di più specie se tra alcuni decenni la ricerca sulle staminali consentirà di ricostruire organi vitali usurati dall’uso e dal tempo.

Anche la scuola subirà profonde evoluzioni se i dati sapienziali potranno essere elargiti non con anni di studio, ma con cips, impiantati sulla corteccia cerebrale, in grado di contenere molto dello scibile umano.

Le sfide che attendono l’umanità non sono quelle relative a definire come regolamentare la fine/morte materiale di una vita, bensì quelle culturali che debbono essere totalmente comprese nell’abbandono convinto all’evolversi della creazione stessa, perciò al progetto divino di uniformare sempre più la creatura a Sé (Gen. 1,27) nel mutuo consenso.

Perché, in ultima istanza, la vita non cessa con la morte, ma prosegue oltre: oltre lo scorrere del tempo nella morte speculativa.

Vorrei chiudere citando uno stralcio del suo ultimo paragrafo:

Ciò però non esclude il rischio e la respon­sabilità che ciascuno deve saper assumere quando venisse il mo­mento di farlo. È così che chi sen­te il mistero di Dio incombere sulla propria vita potrà anche esprimere quella fiducia nelle mani del Padre, da cui siamo par­titi in questa breve riflessione.”.

E, se mi è consentito, instaurando con il Padre quella comunicazione analogica nel totale mutuo consenso, anche e sopratutto nella Chiesa.

Perché nella fede non vi può essere una finalità diversa tra «nelle tue ma­ni» con «nelle proprie mani», anche quando il nostro corpo ci riserva delle sorprese dovute o a noi o alla nostra genetica personale.




[1] - Filosofia, sociologia ed etica nel nostro tempo – Kärl Häbsburg - 1984

[2] - Basti ricordare la parola ebraica Golem (גולם) per riandare alla mitologia ebraica e al folklore medioevale; in pratica alla zolla di terra amorfa e senza vita – Salmo 139.

[3] - Essere e Tempo – Martin Heidegger - 1927

[4] - Basti pensare a: L'évolution des idées en Chine et en Grèce du VI e au II e siècles - P. Vernant e J. Gernet

domenica 6 settembre 2009

Analisi transazionale e sottobosco culturale.

Parte III°

Eric Berne[1] affermò che tra “terapeuta” e "paziente" vi deve essere una totale collaborazione su un piano paritario in base a un pieno e trasparente mutuo consenso.

Non sempre ciò avviene, specie se il terapeuta (politico o religioso) sia assai distante nel suo ruolo verticistico dal paziente (cittadino).

Lo stesso avviene quando la cultura e la padronanza del linguaggio sono diverse tra persone che, in teoria, dovrebbero collaborare in un progetto sociale, quindi nel rapporto interpersonale nella società: famiglia, partito, chiesa, azienda, … stato.

Ciò (mutuo consenso) non avviene per svariati motivi; e oltre alla padronanza del linguaggio gioca un ruolo fondamentale l’interesse privato di gestione del potere e dell’economia. Vi sono forze (interessi) antitetiche nel fine e contrapposte nell’ideologia.

Perciò ciò che è “nero” per uno può essere interpretato “rosso” da un altro. Lo si potrebbe definire daltonismo linguistico.

Intendersi, quindi, sul vero concetto di “nero” è fondamentale per realizzare il mutuo consenso.

I corsi di analisi transazionale a cui accennavo nell’articolo precedente[2], di cui le aziende fanno uso per aggiornare i propri manager, hanno lo scopo primario di creare un rapporto e una conoscenza approfondita tra le varie parti che operativamente, economicamente e commercialmente interagiscono tra di loro.

Si cerca di instaurare, di fatto, una sinergia consensuale di interessi economici atti ad evitare attriti; perciò a realizzare sempre una transazione in grado di soddisfare tutte le parti e a evitare spreco di risorse finanziarie in eventuali contenziosi. Ciò sempre preventivamente.

Portando il tutto a livello produttivo strutturale si può affermare che il distretto industriale[3] risponde a questi requisiti di mutuo consenso e interesse, perché ogni soggetto (azienda), che fa parte del distretto, collabora fattivamente per il proprio singolo ruolo nella realizzazione del progetto industriale/commerciale generale.

L’avere contatti sensoriali con un soggetto porta ad intuirne il suo essere persona, quindi il suo modo di pensare e di agire.

Questa intuizione si basa, ovviamente, sul bagaglio personale che chi osserva ha accumulato in sé, perciò in quelle funzioni inconsce o preconsce verbali che, secondo Berne, si attivano quasi in maniera automatica nel nostro cervello.

Per la verità ciò non è sufficiente, anche perché la ragione deve sempre sovrintendere la corretta analisi, supportando l’esperienza acquisita (inconscia) alla percezione momentanea (conscia). Diversamente il sistema neurologico umano sarebbe unicamente un susseguirsi di input/reazioni, perciò a livello puramente animale o elettromeccanico.

In tutto questo processo l’Io percettivo gioca un ruolo fondamentale nell’analisi, perciò nel rapporto intuitivo che intercorre tra l’analista e il paziente. E l’Io percettivo può talora essere fuorviante se il significato dei lemmi fondamentali non sono totalmente reciproci, perciò condivisi.

Il giudizio che uno esprime è di norma la sintesi tra i vari giudizi consci e inconsci che è in grado di elaborare e che si possono dividere principalmente in 4 gruppi: a) percezione verbalizzata (conscia), b) processi e percezioni non verbalizzate dovuti all’esperienza (coscienza) personale (preconsci), c) indizi formulati su intuizioni sensoriali a formulazione inconscia (subconscio primario), d) intuizioni istintuali basate su percezioni sensoriali che sfuggono ad una spiegazione logica (sistema inconscio).

Val la pena sottolineare che b) e c) sono facilmente sottoponibili ad un’analisi conscia.

Ciò che sfugge ad un’analisi conscia è pertanto solo d). Ciò nonostante molte persone si affidano al loro solo istinto per formulare giudizi in grado di elaborare le loro scelte comportamentali nel rapporto interpersonale.

Perciò l’intuizione logica trae le sue basi dalla vigilanza e dalla recettività (disposizione mentale intuitiva – verbalizzazione conscia), ma viene ostacolata dall’intuizione istintuale dell’Io percettivo (percezione subconscia).

Ne consegue che la modalità di giudizio, più la pratica è scarsa e l’esperienza carente, tragga la sua fonte principale dall’inconscio istintuale, perciò dal sottobosco culturale che formula il giudizio.

Ed è ciò che avviene in tutti quei soggetti la cui cultura è limitata o vincolata all’integralismo ideologico o al qualunquismo esistenziale.

Appunto come i nostri 3 soggetti di partenza.[4]

L’intuizione può essere considerata un processo creativo che però è diverso da persona a persona, per il semplice motivo che non è necessariamente connesso alla realtà contingente, ma anche basato su manifestazioni istintuali.

All’inizio ho usato la terminologia di Berne in un abbinamento particolare: terapeuta (politico, religioso), paziente (cittadino).

In pratica ho fatto una scissione netta tra chi dirige e chi è diretto; oppure, se si preferisce, tra chi è demandato socialmente o teocraticamente a dirigere e tra chi democraticamente elegge o forma nella fede la Chiesa.

Il mutuo consenso dovrebbe unire l’esperto (vertice dirigenziale) al cittadino (paziente), ma raramente ciò avviene tanto nella Società che nella Chiesa.

Il mutuo consenso è perciò fattibile nel rapporto interpersonale diretto (dottore/paziente), ma estremamente problematico e impossibile (direi) in politica e in religione.

Ciò nonostante si può instaurare un correlato surrogato particolare, tra il vertice e la base, identificabile nel mentalismo, che è una degenerazione istintuale basata su un tabù[5] particolare: quello di vedere la realtà e il pensiero sulla base del totem di riferimento.

E ciò sempre avviene dove vi è fondamentalismo e integralismo ideologico e religioso, oppure in presenza di qualunquismo e populismo politico.

Perché ciò avviene? Perché il soggetto a valle (paziente/cittadino/fedele) non è in grado di sviluppare un progetto proprio e di confrontarlo con quello del vertice di riferimento per incapacità culturale. Sviluppa solo il proprio sistema inconscio, perciò il giudizio a tipologia d). Guarda al monte da valle abbagliato non dalla luce del sapere, ma da quella della sua insipienza.

Ne consegue che la qualità intuitiva dell’osservatore (terapeuta e paziente) viaggia su piani complanari, che si raccordano solo sommariamente nella visione finale di un mondo particolare di intendere e vedere la realtà sociale o il mistero religioso.

E se questa (finalità) può essere cosciente e percepita appieno a monte, viene invece solo nebulosamente intuita a valle.

Perciò il terapeuta impone l’imperativo categorico, mentre il paziente soggiace ideologicamente e supinamente al pensiero altrui.

Non vi è più mutuo consenso, ma solo completa sudditanza culturale e sociale.

Ciò spesso avviene sempre anche quando il paziente possiede una cultura elevata, ma nel suo integralismo religioso istintuale non si avvale delle percezioni consce o elaborate - a), b) e c) – per confrontare la fede con la ragione: il credere ciecamente nell’arcano ritenendo il pensiero incapace di percepire l’essenza dell’ipotetico se non per Verità rivelata[6].

E, strano a dirsi, è ciò che certa chiesa predilige: la sudditanza teologica.

Non per nulla Kant definì la teologia la più inutile delle scienze. E, aggiungo io, talora anche la più dannosa.

La storia dei Padri della Chiesa, a partire dagli esicasti, mostra invece il corretto uso della teologia quale strumento da abbinare, nel credere, all’evolversi del pensiero umano, nel rapporto binario credere/agire.

Un procedimento continuo, correttivo e migliorativo tra pensiero e scienza del pensiero. In questo caso la teologia diventa una scienza valida e moderna, nonché utile per comprendere l’evolversi della società civile e religiosa.

Il Vaticano II° cercò i correttivi religiosi al decadimento morale, in parte causato anche dagli obbrobri di due guerre mondiali che abbrutirono gli animi di molti, ripercuotendosi a cascata su famiglia, società e Chiesa.

Ciò non bastò a raddrizzare la barca di Pietro che cominciò lentamente ad affondare, specie con l’avvento della fenomenologia personalista e relativista[7], favorita da un papato molto lungo e da un successore che la condivide.

Nell’articolo precedente[8] ho brevemente dissertato su un’enciclica papale, definendola puro idealismo.

La teologia, oggi, ha bisogno di fare un’evoluzione diversa dal passato e di staccarsi dal mero esercizio ideologico ipotetico (la scienza inutile di Kant) per tuffarsi nel reale, rendendosi utile alla società.

Pertanto non più “fenomeni” da focalizzare, bensì realtà concrete da formulare nel dettaglio, collegandole all’esigenza e alla ragione.

La teologia oggi deve corrispondere a tutti e 4 i gradi di giudizio e non solo all’istintuale (escatologico e esoterico) d).

Religione e politica devono quindi entrare in un’ottica sistemica, separando la comunicazione manifesta da quella latente; in pratica puntando a comprendere appieno il livello sociale e psicologico, perciò i 4 gradi di giudizio, e facendolo percepire e condividere nel mutuo consenso.

La comunicazione analogica può essere usata in religione e in politica? Ovviamente sì, se non si vuole fare della pura fenomenologia o del qualunquismo e populismo.

Nella comunicazione analogica, infatti, il ricevente è maggiormente interessato a capire come l’emittente definisce la relazione, perciò la pariteticità del mutuo consenso. Il contenuto del messaggio diventa inizialmente relativo, perché prioritaria è la medesima percezione dell’identità di comprensione di uno stesso concetto.

Se non ci si intende perfettamente su cosa sia rumore (comunicazione inviata) e cosa sia percezione (comunicazione ricevuta), è ovvio che non vi possa essere radicazione tra i diversi soggetti.

E sulla base di una medesima percezione tra i due riceventi (terapeuta e paziente) si è in grado di instaurare quella comunicazione necessaria a livello paritetico che trasforma il messaggio in comunicazione reale e non in semplice trasmissione di dati verbali o numerici.

La patologia dei 3 soggetti di partenza cosa indica nella loro carenza ortografica di punteggiatura e di linguaggio ristretto?

La non comprensione del messaggio altrui, perciò delle sfumature (messaggio pedagogico correttivo) che vuole comunicare nel mutuo consenso tramite l’analisi.

Ne sortisce che il rumore (messaggio ricevuto) si sovrappone alla percezione (interpretazione del messaggio), perciò come minaccia denigratoria al proprio pensare ed agire. Non si scinde il significato totale del ricevuto dall’interpretazione personale che si fa di questo; anzi, il rumore passa in subordine alla percezione istintuale.

Da qui l’istintuale reazione ad assalire l’altro, inteso non come pari grado socialmente, ma come vero nemico.

Siamo alla legge della giungla dove la civiltà viene oscurata e la reazione istintuale ingigantita.

Il soggetto diventa vittima di sé stesso, perciò della sua stessa insipienza nell’uniformarsi al branco.

In via teorica si può affermare che quando le cariche energetiche psichiche di uno dei soggetti coinvolti nella comunicazione non si uniformano (transfert e controtransfert) non vi può essere comunicazione paritetica e condivisa, ma solo focalizzazione istintuale del messaggio stesso.

Chi sta a valle diventa succube di chi sta a monte e spesso si sente vittima sacrificale del sistema.

In pratica l’aspetto dello stato intrapsichico non combacia nella modalità operativa con quello dello stato interpersonale.

Il sottobosco culturale è ciò che coniuga perfettamente lo stato intrapsichico da quello interpersonale.

Analizzando l’incedere verbale ed operativo dei soggetti il terapeuta dovrebbe sempre essere in grado di percepire la modalità esecutiva, quindi di comprendere appieno le istanze, le esigenze e le aspirazioni del paziente.

Ciò non avviene quasi mai né nel vertice piramidale ecclesiale, né in quello politico qualunquista e populista, per il semplice fatto che il terapeuta non solo è troppo distante dalla base, ma vive diversamente dalla base: non è in grado di radicarsi sul territorio, perciò nella stessa realtà di base che lo ha proiettato in alto. Il ricordo della realtà arcaica viene offuscato dalla realtà contingente, creando una pseudo radicalizzazione.

Sono due mondi sferici che non si contengono e che si basano su istanze e necessità secondarie molto diverse: sono due galassie che hanno un sottobosco culturale disomogeneo.

Il terapeuta esprime un giudizio primario (vero o falso che sia), quindi basandosi sulla potenzialità della relazione oggettuale rappresentata dall’immagine. Usa un processo preverbale che funziona quasi automaticamente (without insight) nel suo sottobosco culturale: insiste sui comportamenti e sui sentimenti verso la realtà.

Il paziente, a sua volta, opera un processo presimbolico che distingue l’immagine vera complessiva (realtà) da particolari appariscenti dettati dalla sua necessità.

Si basa su una memoria pseudo percettiva che accoglie in sé alcune parti dell’immagine/realtà, le quali sono le più appariscenti.

In pratica forma il suo giudizio integrando impressioni sensoriali e di altro tipo con le tensioni istintuali interiori, basate sui bisogni momentanei e sulle esperienze vissute. Ciò distoglie il giudizio dalla sua essenza percettiva, variandola in particolare e molto sommaria.

È ovvio che il sottobosco culturale non corrisponda alla cultura, ma solo ad una parte minoritaria di questa: quella inconscia.

Nel giudizio di pertinenza l’ottica sistemica tende a separare il livello sociale da quello psicologico, perciò la comunicazione manifesta da quella latente.

Ed è interessante notare che quando ciò avviene la priorità psicologica inconscia prenda sempre il sopravvento sull’analisi intuitiva, perciò il rumore venga sostituito dall’informazione contenuta nella percezione.

Ne consegue che l’intuizione è una forma di diagnosi basata su processi inconsci, quali i giudizi primari imperniati esclusivamente su immagini primarie.

Portando tutto nella praticità giornaliera il solo totem è in grado di creare il tabù, perciò di farsi percepire su un’immagine primaria come lo slogan elettorale, lo spot pubblicitario, l’atto simbolico, la declamazione di una certa verità o la carica sociale posseduta.

Basti pensare, ad esempio, all’abito papale bianco nella relatività dell’ambiente religioso, o alla divisa militare che tanto attrae l’inconscio femminile. Entrambe le divise sono totem semantici in grado di scatenare e veicolare tabù inconsci.

Spesso il giudizio che si basa sul sistema inconscio è vincolato a delle immagini che assumono, nel loro settorialismo, appariscenza e spettacolarità, la particolarità dell’inserto subliminale.

Si crea in pratica una comunicazione latente e non manifesta, proprio come nei bambini, nei quali i giudizi e le immagini vengono filtrate su particolari (di norma dovuti a necessità secondarie), raggiungendo la coscienza in forma “civilizzata”. Tali inserti vengono immagazzinati diventando bagaglio giudiziale, per cui il ricordo spesso diventa un’immagine primaria diversa dalla realtà che l’ha prodotto.

Appunto come il giudizio finale assume connotati di diversità nel rapporto interpersonale facendo diventare il “nero” “rosso”; quindi: creando un complesso di idee e sentimenti incorporati in speciali meccanismi psichici, atti a fronteggiare l’emergenza tramite immagini primarie che hanno, nella realtà, un significato settoriale fortemente energizzato.

Le masse padroneggiate dall’integralismo/fondamentalismo religioso e dal populismo/qualunquismo politico vedono il totem come salvezza ed il tabù come angoscia, proprio perché in esse si assommano immagini/necessità che, non essendo totalmente controllate dal giudizio conscio, arrecano angoscia e preoccupazione, prive di un borderline[9] intellettivo conscio.

Nell’Io percettivo si instaura una realtà fenomenica e comportamentale particolare che, là dove il sottobosco culturale è ancorato alle sole immagini primarie, raggiunge impressioni intuitive congruenti, specifiche dell’Io arcaico, di norma attivo nel paziente/cittadino che si pone in relazione al totem.

Perciò se l’Io arcaico lo identifichiamo al “bambino”, l’Io maturo diventa l’“adulto”.

Ne consegue che se il primo ha un serbatoio preconscio, nel quale le immagini e i giudizi primari sono strettamente interconnessi perché assoggettati al solo sistema inconscio, nel secondo queste (immagini e giudizi) diventano un bagaglio culturale che nella pratica, più che nell’esperienza, assoggettano il giudizio all’analisi conscia, in grado di interagire con la realtà e di saperla padroneggiare e valutare nella sua interezza.

Far crescere l’Io arcaico in Io maturo sarebbe il compito tanto del politico quanto del religioso.

Il problema è però un altro: quanti politici e religiosi sono Io maturo? Oppure: quanti hanno l’interesse e la capacità di farlo?

La prontezza intuitiva di percepire appieno le problematiche reali, e perciò di radicarsi sul territorio, è il metro che quantifica il valore del terapeuta, in grado di creare mutuo consenso e di risolvere, prontamente, le problematiche sociali insorgenti tramite l’analisi transazionale preventiva.

Spesso, però, è più facile che questa venga sostituita o dall’Io descrittivo o dall’Io simbolico, perciò dall’integralismo e dal fondamentalismo religioso, o dal qualunquismo e dal populismo politico, che hanno il loro humus intellettuale nel sottobosco culturale.

Quando, per interconnesse ragioni, il politico e il religioso non si sovrappongono.

Ed allora si è nell’ideologismo puro, distante, distaccato e fine solo a sé stesso.

Nella praticità esistenziale inutile alla società e al singolo.

Tradotto in termini filosofici: la scienza inutile di kantiana memoria.




[1] - Eric Leonard Bernstein – (Montréal, 10 maggio 191015 luglio 1970)

[5] - Sigmund Freud – Totem e Tabù. 1912/1913

[6] - Basti pensare a quanto i Testi sacri erano “superiori” teocraticamente alla realtà scientifica, come il caso Galileo dimostrò e dimostra tuttora.

[7] - Di cui Mounier e Maritain svilupparono il personalismo comunitario proprio nello stesso periodo in cui si diffusero e vari fascismi di destra e di sinistra.

[8] - Vedi nota 2.

[9] - Linea di demarcazione