domenica 21 febbraio 2010

P.I.I.G.S.

Da tempo gli esperti economici/finanziari stanno dettando le linee guida per risolvere il grave problema P.I.I.G.S.[1], che, da quando l’Ue si è formata con l’, i politici hanno sottovalutato e intenzionalmente disconosciuto.

L’unione è stata più politica che reale, essendo i vari Governi nazionali liberi di gestire l’economia del proprio territorio, anche se nel rispetto di certi vincoli; ma, come si sa, spesso i vincoli vengono superati o erano già stati superati in precedenza.

Per cui tutti, oggi, ne pagano il fio.

Le economie erano troppo disuguali e alcune hanno approfittato dell’unione per espandersi in modo abnorme per cercare di portarsi alla pari con le altre, spesso e volentieri ricorrendo a denaro comunitario.

Però, come spesso avviene con alti coefficienti positivi di PIL, le economie vanno in crisi se tale trend viene perseguito per più anni.

Non a caso l’astro nascente Cina, nel tentativo di diventare la seconda potenza economica mondiale, si è sbilanciata troppo nella crescita del Pil a due cifre; ed ora con la propria Banca[2] centrale corre ai ripari, elevando l’obbligo di riserva delle banche di 50 punti base.

Si afferma che con ciò non si intendano restringere i crediti all’economia, anche se, in realtà, ciò porterà ad un inevitabile drenaggio della liquidità in circolazione.

La crisi globalizzata ha creato danni pure in Cina e alcune grandi aziende sono saltate, specie quelle che dipendevano troppo dai mercati occidentali.

Un’azienda non salta mai per carenza di commesse, ma sempre per i troppi debiti. Diversamente chiude in pareggio.

In UE le economie sono connesse grazie[3] alla moneta unica, che, se da una parte rafforza il sistema protettivo, dall’altro crea disfunzioni, non potendo, come moneta di sistema, essere localmente svalutata.

La crisi greca ha coinvolto, com’era inevitabile, l’intera Ue, rendendo isterici i mercati finanziari.

La FED, da parte sua, con una mossa lungimirante e sagace, a mercati finanziari chiusi, ha alzato il TUS allo 0,75%, visto anche il rafforzamento nel Forex del $, portandolo, perciò, quasi al livello europeo.

La borsa giapponese ha reagito male; quelle europee assai male all’inizio, poi hanno recuperato gradualmente chiudendo intorno alla parità; ma da noi, si sa, l’isteria è veloce a correre tanto nel deprimere che nell’esaltare le quotazioni. La borsa americana ha assorbito l’impatto come atto già preventivato.

Questi, tuttavia, non sono tuoni di un lontano uragano, ma precisi segnali di un violento temporale economico/finanziario già in atto.

Il ragionamento è semplice: se la Grecia va a picco trascina seco tutta l’Europa in rapida successione.

In via teorica si potrebbe liberare la Dracma dall’€, ma ciò non risolverebbe il problema e, alla lunga, lo amplificherebbe ulteriormente.

Una svalutazione nel rapporto a suo tempo fissato Dracma/€ è impossibile per l’identità della moneta ovunque. Un ritorno provvisorio alla Dracma, d’altro canto, oltre a creare un precedente molto pericoloso, sarebbe anacronistico e bisognoso di tempi lunghi.

Ciò significherebbe abbandonare la Grecia al proprio destino e con essa, pure anche gli altri paesi che si trovassero, in un prossimo futuro, nella stessa condizione: sarebbe la fine dell’Ue e il dividere l’Europa in paesi potenzialmente (perché il concetto oggi è aleatorio) ricchi e sostanzialmente poveri.

Perciò, nonostante le dichiarazioni di Trichet, la BCE dovrà intervenire e salvare con un grande prestito, anche se con precise clausole restrittive di garanzia, il sistema ellenico.

Ciò facendo, forse, preserverà il sistema continentale da altri violenti attacchi speculativi immediati, che, bruciando le capitalizzazioni, ridurrebbe inevitabilmente il sistema economico e creerebbe probabile nuova recessione.

Questo, ovviamente, non sarà sufficiente se i vari Paesi maggiormente esposti non intraprenderanno una politica di rigore che limiti lo spreco di risorse pubbliche.

Bisogna considerare che pure il Portogallo e la Spagna sono sull’orlo del default e, nelle retrovie, pure altre nazioni.

Già nei mesi estivi gruppi di esperti avevano sollevato il problema; ma, come quasi sempre avviene, la politica tende a soprassedere finché il problema, incancrenito, esplode e contagia tutto il sistema.

Lo è stato per i mutui sub prime, lo è stato e lo è per gli imponenti debiti pubblici, lo è per l’immigrazione clandestina, lo è stato e lo è per i derivati, lo è per tutti bonds che con facilità vengono oggi immessi sul mercato e che spostano il problema solo più avanti: tutte grosse incognite che attendono d’essere risolte con una regolamentazione decisa e lungimirante, atta a impedire che possano arrecare danni, tanto oggi quanto in futuro.

Le linee guida su cui operare ci sono; manca la volontà politica di metterle in atto, timorosi di potersi inimicare le multinazionali finanziarie nel necessario intento di farle sottostare a regole ferree e ai vari interessi internazionali e continentali.

Capofila del necessario e inderogabile salvataggio della Grecia è la Germania che, con l’avvento dell’€, è forse quella che ha perso in potenzialità più di tutte le altre nazioni.

L’apertura dei mercati, infatti, ha indebolito il suo sistema strutturale e tecnologico produttivo perché attaccato da prodotti più economici, preferiti dal consumatore per l’incalzare della crisi.

Una nuova violenta crisi recessiva porterebbe alla depressione e la stessa economia teutonica ne uscirebbe con le ossa rotte, come tutta la vecchia Europa.

Per far fronte ai bisogni immediati greci si calcola che servano subito oltre 25 mld di €. Una cifra imponente che sarebbe solo l’inizio, atta a tamponare la necistà attuale. Diversamente vi è solo il default e l’instabilità sociale che aggraverebbe la situazione.

Il default greco trascinerebbe con sé i mercati finanziari e gli altri paesi P.I.I.G.S., ad iniziare dal Portogallo, non lasciando sicura neppure l’Italia, solida nel resistere finora alla crisi per il suo manifatturiero delle PMI, ma gravata dall’annoso e imponente Debito pubblico.

In Europa si impone il rigore e una direzione economica unitaria, oggi quasi totalmente lasciata nelle mani del braccio finanziario che vede nella Bce non un organismo specifico pubblico, ma un settore quasi privato.

Politica e finanza vanno spesso per interessi loro: la prima intenta per lo più a coltivare il consenso popolare della maggioranza di ogni singolo stato, la seconda concentrata sul business delle varie potenti banche multinazionali che sul mercato fanno il bello e il cattivo tempo, anche se, considerati i risultati, più il brutto che il bello.

Le banche e le maggiori imprese sono interconnesse da partecipazioni vicendevoli e si sostengono non sulla base di una logica commerciale, ma solo dell’interesse vicendevole.

Ne consegue che non vi sia più distinzione tra finanza e impresa e i rispettivi ruoli abbiano degenerato. Se si aggiunge, poi, che molte nazioni hanno variato gli enti nazionali in S.p.A., allora il connubio diventa assai pericoloso; e, quindi, ben si capisce come le casse statali abbiano soccorso prontamente, anche se necessariamente, proprio quelle stesse aziende che, seppur private, stavano creando il dissesto generale.

Innalzare il TUS anche in Europa significherebbe, ora, bloccare tutta l’economia già vacillante e vanificare la tenue, anche se incerta, ripresa.

Personalmente credo che il TUS avrebbe dovuto fermarsi al 2% e non essere dimezzato. Ciò avrebbe concesso alle aziende sane di attingere ai finanziamenti con maggior raziocinio e di potersi potenziare: vi sarebbe stata una selezione sul mercato con l’espulsione dei corpi morti.

L’interconnessione tra finanza e impresa ha in parte vanificato questa regola e Trichet, dopo aver fatto l’errore di innalzarli prima, nonostante le chiare avvisaglie, li ha abbassati poi troppo.

Ciò ha portato le banche a puntare non più sulla rendita dell’interesse, ma ad operare sulla leva dei costi accessori: il concedere denaro non era più remunerativo e il rischio superiore alla resa. Perciò la liquidità necessaria al sistema produttivo non è stata erogata alle PMI e ci si è limitati, al massimo, a mantenere lo status quo delle aziende sane.

Difatti si è cancellato, in ossequio alle disposizioni, il CMS e si è introdotto il CFA e la penale di sconfino.

È perciò probabile che il TUS debba rimanere invariato per molti mesi ancora.

Il sistema economico e finanziario attuale ha evidenziato i propri limiti e le proprie incongruenze, svincolandosi dal territorio.

La globalizzazione ha portato con sé la ricerca esasperata del guadagno, sottraendo il reddito necessario allo sviluppo e all’impiego al suo implicito ruolo sociale: creare occupazione e ricchezza sul territorio, perciò il fare sistema e distretto nel radicarsi in questo.

Si è creduto che il terziario fosse il nobile eldorado futuro, lasciando ad altri le (vili) mansioni manuali produttive.

La storia, tuttavia, insegna da secoli che col solo terziario non si può vivere a lungo, specie se la produttività dell’economia reale sottrae, nel tempo, importante reddito ai suoi addetti.

L’UE, dal canto suo, in un baratto continuo tra nazioni ha eliminato localmente certe produzioni industriali e agricole, in una compensazione parziale che poi deve però essere supportata da trasporti che, comunque, sono poco ecosostenibili anche per l’inquinamento.

Si è prodotto un danno che sarà difficilmente sopperito.

Se la crisi si è prodotta è perché aziende e stati erano carenti di liquidità e di riserva. E se questa scarseggiava nelle aziende, compresi i vari istituti finanziari che sono dovuti essere prontamente soccorsi (anche se non tutti), è ovvio che neppure la BCE, organismo sovranazionale delle banche locali, avesse in cassa una tale imponente liquidità.

Perciò, per sopperire alle impellenze urgenti, si è ricorso alla moneta telematica, concedendo una liquidità che è solo virtuale.

E lo stesso si farà per la Grecia e per altre nazioni che ne avessero in futuro bisogno.

Per allentare la morsa dei debiti, allegramente generati e gestiti, si producono e si produrranno altri debiti, in base al detto che nel mare si nuota assai meglio che in un bicchiere d’acqua. O, per dirla come quel tale il cui problema non era quello di onorare il debito, ma solo di ottenere ulteriore credito (che non avrebbe mai restituito) perché tanti debiti ti fanno galleggiare, ma pochi ti fanno affondare.

Forse è il caso di dire che la finanza globalizzata galleggia su un immenso oceano di debiti: di privati, di aziende, di nazioni.

Tutti felici di esserlo e fiduciosi che tutto si risolverà … in futuro. Come non si … sa.

Tanti falsi ricchi in un mondo opulento all’apparenza, dove il furbo specula e si ingrassa e dove tutti gli altri fanno la … miseria.

Ovviamente vi sono anche quelli che spargono molto ottimismo e i politici nostrani che si dedicano al calcolo del “pallottoliere” economico/finanziario, senza un progetto globale in testa e senza alcuna idea di come crearlo e gestirlo.

Si procede perciò a vista, incuranti di ciò che non si vuole neppure ipotizzare come eventualmente possibile.

Molti parlano di microcredito, indicandolo come la base necessaria dello sviluppo futuro. È stato anche dato un nobel per questo al suo ideatore.

In realtà il microcredito è un’utopia propria del personalismo e, oltre a non dare alcuna garanzia di sviluppo, è anche una iattura finanziaria per i costi che arreca al sistema e al beneficiario.

Di positivo il microcredito ha solo la facilità di erogazione; ma l’erogazione a pioggia non crea un progetto strutturale, ma solo, quasi sempre, uno spreco di risorse preziose: dà una boccata di ossigeno e nulla più.

Non si chiedono garanzie, non si controllano i costi, non si separano i progetti seri da quelli inutili. In pratica si lascia spazio all’anarchia operativa dei singoli e ogni microcredito è slegato da un altro: si affida l’economia all’anarchismo.

E spiace osservare che anche una buona parte della dirigenza ecclesiastica guarda con favore a questa nuova new age economica, forse fidando solo nel volere della … Divina Provvidenza e al fatto che sono maggiormente competenti in “pater, ave e gloria” che in tutto il … resto.

L’economia moderna non può essere lasciata al caso, anche perché la globalizzazione ha creato il “caso” senza una direzione univoca.

Gli aiuti Ue/Bce saranno “obbligatori” se non si vorrà affondare tutti insieme.

Tuttavia porteranno con sé le inevitabili restrizioni e vincoli, che imporranno sacrifici alle nazioni coinvolte e anche a quelle che potranno farne a meno, visto che i costi generali dovranno essere ripartiti e i mercati di competenza si restringeranno.

Ne consegue che il futuro a medio e lungo termine imporrà una riformulazione generale dei sistemi economici, finanziari, produttivi e sociali, perché la realtà attuale insegna che così non si può procedere ancora a lungo.

Saremo costretti a bilanci ecosostenibili e non populistici e nazionalpopolari.

Diversamente diventeremo tanti “pigs”, che in inglese significa “porci”.

E non intendo, con questo, i paesi oggi in difficoltà e che corrispondono alle lettere del lemma anglofono.

Intendo solo dire che saremo costretti a cibarci delle ghiande, proprio come il figliol prodigo[4] che, dopo aver sperperato tutto si trovò costretto a mangiarne per sopravvivere.

Però, a differenza di questo biblico e simbolico personaggio della parabola evangelica, non abbiamo dietro un padre che ci attende per sacrificare in nostro onore il vitello grasso, perché i vitelli grassi li abbiamo, già da molto tempo, divorati tutti.




[2] - POBC 中国人民

[3] - Alcuni dicono: sfortunatamente.

[4] - Lc 15,11-32

martedì 16 febbraio 2010

La democrazia e il crocefisso.

Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto.

Lo pubblico assai volentieri.

Anche perché, quest’anno, dopi i fiori alpini dello scorso 2009, ho scelto volontariamente immagini di croci e di crocefissi ad accompagnare l’incedere dei mesi di questo nostro 2010.

Con ciò voglio ribadire la libertà di un popolo di credere e di esporre un simbolo della propria radice culturale ovunque, anche in un blog.

Buona lettura!

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

La democrazia e il crocefisso

Io, Sesac, tornai su in Federìa per il fine settimana.

Leone ci aveva dato appuntamento per un menù speciale tutto … suo: polenta bergamasca (alla leone) e salamella, lessa in acqua e latte, accoppiata con patate al forno.

Ne avevo già mangiato tempo prima; e il languore, salendo lungo gli innevati tornanti del Fuscagno, si manifestava nel mio cavo orale, quasi che il profumo degli ingredienti scivolasse sulle rupi innevate e, con poderosi atletici salti, giungesse fine a me per calamitarmi lassù.

Sapevo che avrei trovato una numerosa compagnia su in baita e la … motoslitta, paziente, ad attendermi per l’ultimo balzo d’innevata erta salita, tra i cembri e i larici imbacuccati.

Vi era molta neve, ancor più che la volta scorsa.

Il traffico era scarso. E nonostante che la strada fosse una fettuccia completamente bianca, che ondeggiava ebbra d’aria limpida, secca e pura tra due muri di neve compressa e ghiacciata, mi distrassi a godermi il fantastico paesaggio.

A mezza salita notai che, nell’area picnic, gli spazzaneve avevano creato un ampio spazio, forse per concedere agli sprovveduti automobilisti, che lassù si avventuravano con poco giudizio, di montare in sicurezza le necessarie catene.

Mi fermai al sole e scesi per sgranchirmi le gambe e osservare meglio.

Nonostante il termometro segnasse -18° il sole scaldava; e l’aria secca produceva, sul corpo, quella sensazione piacevole di continuo calore che la rarefazione dell’atmosfera produce sempre in quota e arrossa, inevitabilmente, le pelli chiare per la scarsità di melanina nel metabolismo.

Il paesaggio era fantastico e fiabesco. Meritava proprio un’apposita sosta.

In basso si notavano gli ultimi abeti rossi che, nonostante la slanciata mole, sembravano buffi pulcini inguaiati nella stoppa bianca. Sentivano, pure loro, il freddo intenso e calzavano ancora la bianca berretta del … riposo notturno.

Il Piazzi era davanti a me severo e imponente, incanutito tra i ghiacciai perenni. Alla sua sx orografica il severo Dosdé, seppur candido, incuteva all’osservatore il suo inquietante e ardito aspetto, tenace guardiano della Val Viola: lo guardai con ammirazione e, nello stesso tempo, con leggero tremore, come se fossi incrodato e avvinghiato alla sua ripida e strapiombante parete.

Sembravano l’attempato vegliardo padre e lo scalpitante imprudente figlio.

Girai alla mia sx lo sguardo e rividi, in lontananza, le severe torri di Fraele, un tempo porta di controllo per il viandante che voleva passare tra le due valli cristiane, ma che si differenziano profondamente per l’evangelismo della teologia della croce.

Ciò mi riportò allo scandalo delle indulgenze. E, nel nostro tempo, alla teoria sostenuta da Leone e da Aperitivo, pur con ragioni diverse, che indicavano nella fenomenologia relativista della curia papale e nel personalismo l’inevitabile decadenza, tra i fedeli, del cattolicesimo dei nostri giorni.

Ovviamente intuivo il discorso; ma, non potendo comprendere esattamente il loro profondo pensiero, mi perdevo nei meandri del ragionamento, pur vedendo i risultati storici evolversi negativamente e … chiaramente.

Intuivo il senso del totem e l’individualismo verticistico che ne derivava; ma, nello stesso tempo, mi smarrivo nel concetto di egocentrismo teocratico, contrapposto, dialetticamente, alla perfetta teosofia democratica.

Unicuique suum!

Il mio sguardo si fissò, indi, sulla possente cresta che in parte cela dietro a sé le 13 cime, degna del sinuoso verticale flusso di un diagramma fluttuante degli isterici mercati finanziari dei nostri giorni.

Mi richiamò alla mente il manzoniano Resegone, in paragone nanerottolo casereccio e tontolone rispetto a queste dirupanti e svettanti cime.

La osservai a lungo al generoso soffio caldo del sole, riconoscendo ad una ad una le varie punte, mentre loro parevano ammiccarmi e invitarmi ad un nuovo amorevole rendez-vous.

Uno stridulo intermittente suono mi distolse dall’estasi emotiva, richiamandomi alla realtà ed agli amici che mi attendevano: il rompiscatole cellulare frignava, pretendendo la mia attenzione.

E, un simile piccolo aggeggio, mal si amalgama con il concetto che in gioventù avevamo del cellulare: tozzo mezzo atto a trasportare reclusi.

Noi, ufficialmente mai entrati in quel glabro vano, siamo ora prigionieri di un sì piccolo oggetto.

… Giunsi allo spiazzo dove il poderoso Terra sonnecchiava al sole e dove la paziente motoslitta mi stava da tempo attendendo.

Vi salii. Il motore cominciò il suo poderoso canto e allietò con potenti modulazioni, or ridondanti, or soffuse e quasi timorose, la gelida foresta d’aghifoglie che precedeva la baita, appollaiata lassù, in alto, in un ridente spiazzo ricavato su un ardito ballatoio.

Billy ci corse, solitario, incontro, quasi incuriosito dal rumore proveniente dalla fitta abetaia; e approfittò di un sinuoso tornante che ridusse, quasi fermandoci, il nostro incedere, per accoccolarsi festante, con un balzo, tra le mie braccia.

Leone era già al lavoro davanti ad un grande paiolo in cui la pregiata mistura giallastra ribolliva a polle intermittenti, come tanti soffioni boraciferi.

La rimestava in continuazione mentre la discussione, tra gli astanti, verteva sul crocefisso che alcuni, nella società, avrebbero voluto eliminare da ogni locale pubblico.

Stranamente Leone pareva essersi estraniato dal dibattito, quasi asceticamente assorto dal suo compito culinario.

Teneva in mano quello che lui chiamava il mestolo e che altri chiamavano il bastone della polenta. Era una lunga posata di legno, appiattita nella parte inferiore a mo’ di stretta paletta, con la quale rimestava continuamente la gialla e dorata torta di mais.

Quando il bollente miscuglio cominciò a raggrumarsi lo lasciò un attimo e, dalla tavola, prese dell’Asiago che, sminuzzando in tenui fettine, fece cadere nel paiolo.

Rimestò nuovamente per alcuni minuti finché il tutto si amalgamò. Poi si sedette su una poltrona vicina dopo aver regolato il fuoco, quasi a riposarsi.

Osvi stava dicendo che ognuno dovrebbe essere padrone in casa propria, in ossequio ad uno slogan elettorale di una certa forza politica, riferendosi a quell’islamista che aveva tolto e lanciato dalla finestra di un pubblico locale un crocefisso.

Leone lo osservava, ascoltandolo e vedendolo accalorato, sorridendo quasi compiaciuto e divertito dal suo infervorarsi.

Poi, dopo un po’, si rialzò e tornò al paiolo, prendendo simultaneamente la parola nell’impugnare il mestolo.

Nella grande stanza, alla sua prima frase, il silenzio sorse profondo, solo in parte rotto dal gorgoglio dei cibi in cottura sul fuoco.

Credo che il discorso non vada tanto impostato in modo idealistico, bensì secondo una logica democratica.

E, questa, impone una semplice realtà: quella della volontà della maggioranza di esprimere la propria cultura e il proprio credere, non solo sociale, ma pure religioso. Perciò di dotarsi, come i nostri avi, dei simboli propiziatori che meglio crede.

Non condivido la pretesa di una certa tesi, propria del fondamentalismo islamico, per la verità da noi avvalorata solo da pochissime persone o da alcuni esagitati massimalisti, che intende il crocefisso solo come simbolo religioso individuale, che non appartiene a tutti e che offende, nella crudezza rappresentativa, la sensibilità di alcuni.

Il crocefisso non esprime nulla di tutto ciò; ma sottolinea a tutti gli osservatori, credenti o agnostici, la solidarietà sociale dell’accettare anche ciò che non sempre ci è individualmente utile: è l’essere popolo e società nell’offrire a tutti il nostro valido e laborioso, nonché a volte doloroso e faticoso, aiuto.

Se non si rinuncia a qualcosa di noi stessi per offrirlo alla società, questa diventa solamente un contenitore, in cui l’egocentrismo individualista sostituisce l’essere popolo con l’essere solo comunità.

E una comunità, come si sa, specie se difende il proprio interesse corporativo, si estrania dal concepire popolo noi stessi.

Perciò, il dividerci su un simbolo come il crocefisso, come pure il sottostare alle pretese altrui di imporci il loro solo intendere, ammantandolo del principio irrinunciabile di libertà, tende solo a sopra valicare la libertà altrui, perciò, in questo caso, pure quella del nostro intendere ideologico e religioso.

La nostra libertà, come dissero i nostri avi, si ferma dove comincia quella altrui nel rispetto dei diritti di ognuno.

Noi, non imponiamo all’islamista di abiurare al proprio credere, né di rinunciare ai suoi simboli religiosi. E non lo facciamo neppure con l’agnostico.

Chiediamo solo, che il volere dell’intendere democratico della maggioranza di popolo venga rispettato, proprio perché quel simbolo garantisce anche il diritto di chi la pensa diversamente.

Si fermò un attimo e, lasciato il mestolo, prese una forchetta per controllare la cottura della salamella. La schiumò, aggiunse altro latte e ridusse il fuoco.

Nessuno fiatò.

Indi, riprese:

Ovunque noi troviamo la croce e non solo nelle chiese. La vediamo sulle vette alpine, ai lati delle antiche vie, or nei campi di pianura, or nei pascoli d’altura. La vediamo sulle tombe dei nostri avi o dove loro sono morti.

La poniamo su ogni tomba, anche su quella di chi, pur battezzato, credeva poco o non credeva affatto.

La vediamo pure dentro di noi, come, io, la sto tracciando col mestolo, nel rimescolare questa torta di mais; gesto necessario, propiziatorio e di ringraziamento che i nostri vecchi sempre facevano.

La croce è l’intersecarsi di due rette ruotate in posizione diversa. In vie teorica è la stessa retta che assume posizioni opposte: verticale e orizzontale.

La croce indica la vita: una vita che finisce e che ricomincia, proseguendo, in altra dimensione. Se non vi è la morte materiale non vi può essere neppure la nascita, perciò la vita. È la metempsicosi personale di ognuno, anche se non materiale; ma lo diventa, nella realtà della fede, con la resurrezione finale.

Sono due mondi che si incrociano proprio nella morte, come i due bracci della croce: il mondo di qua e quello di là.

Dio, secondo il cristiano, morì pure lui in croce. Ma non tanto sulla croce materiale, bensì su quella del suo divenire, come tanto bene Hegel esplica nella Logica con l’assoluta devastazione di Dio nella storia. Concetto che pure, con poca diversità, espresse, secoli prima, anche Anselmo d’Aosta o, nei nostri giorni, la corrente teologica evangelica del Dio è morto.

Un tempo avevamo le invasioni dei barbari, degli arabi e dei turchi, quindi degli islamici.

Vi era chi intendeva conquistare e chi voleva preservare. Eppure i simboli convissero pacificamente dopo le cruente battaglie di mare e terra.

Ora abbiamo l’immigrazione incontrollata: nuova invasione barbarica di gente che vive con presupposti diversi dai nostri. Non combatte come un tempo, ma accampa diritti senza sobbarcarsi dei doveri.

Si vogliono scuole a proprio uso e consumo; si vogliono case, assistenza, moschee a spese delle casse statali. Non lavorano per avere un diritto, ma lo pretendono per il solo fatto d’essere qua da noi.

Sono gente disperata con poca cultura, perché chi questa ce l’ha viaggia sicuro in altro modo e con documenti regolari, comportandosi e vivendo diversamente.

Spesso alimentano la delinquenza, vengono sfruttati dalla malavita nostra in combutta con la loro, si arrangiano e si riuniscono in ghetti.

Questa non è emigrazione, bensì desolazione umana che aizza la repulsione del diverso; non si amalgamano nella società, ma vivono secondo le loro tradizioni tribali.

Strano modo, da un lato, d’essere ospiti e di integrarsi con gli ospitanti.

Strano modo, dall’altro, di fare politica e di condurre una nazione.

Si sta soffiando, in questo modo, sul fuoco dello scontro etnico. E i presupposti sono già vistosi, non solo là dove i disordini sono già avvenuti, ma pure in quei palazzi ghetto dove gli extracomunitari vivono senza preoccuparsi di pagare luce, gas, acqua, … e i servizi ricevuti, perché tutto è loro dovuto.

Nessuna forza politica e religiosa è esente da questo disastro incalzante, spesso anche perché la dietrologia sulla questione viene usata come arma dialettica nell’addossarsi le colpe.

La croce e il crocefisso, di riflesso, sono il segno della civiltà: della nostra civiltà basata su certi principi e valori. E dovrebbero essere, pure, il segno della democrazia e della volontà popolare.

Questa, tuttavia, è ormai sconosciuta a molti politici, anche di grido, che oggi applaudono e domani contestano.

Pure tra noi vi sono gli idioti idealisti, a tutti i livelli della società, di grado e di responsabilità. Questi vedono nell’ottusità del loro intendere la sola verità esistente; e ce la vorrebbero imporre.

Si arriva a pretendere di non svolgere un ruolo istituzionale, come ad esempio la giustizia o la docenza, perché in quell’aula vi è un crocefisso: un ostacolo … insormontabile a svolgere un compito retribuito.

Nel paese vi è sempre una maggioranza parlamentare, or ampia, or risicata; però c’è. E questa decide in base ad un suffragio elettorale che la legittima. E se a questa maggioranza sta bene la croce e il crocefisso, è dovere del cittadino dissidente uniformarsi alla volontà della maggioranza, non per imposizione, ma per la regola democratica dell’essere popolo e nazione.

Vi è, inoltre, la possibilità di indire un possibile referendum, se vi è una certa base propositiva.

Insomma: se si vuol mettere in discussione la croce e il crocefisso si proceda, ma poi si rispetti la volontà del popolo uniformandosi ad essa.

Per impegni ho viaggiato talora in paesi islamici e, in questi, mi veniva, di norma, esplicitata al mio arrivo la raccomandazione a non esporre, o manifestare, i simboli della nostra fede, perciò non solo la croce.

Sicché se siamo ospiti dobbiamo nascondere, e se ospitiamo dobbiamo celare.

Strano modo d’essere cittadini globalizzati, popolo e nazione che ha una sua identità e cultura.

La polenta ora era densa e si avvinghiava al mestolo come una grande e soda pagnotta.

Leone la rimescolò ancora per alcune volte, poi accantonò il mestolo e la fece saltare nel paiolo che posò, poi, per alcuni istanti ancora sul fuoco. Infine lo tolse dal fuoco e scodellò la polenta fumante su un grande piatto di legno di faggio, unto in precedenza con del burro.

Controllò la salamella, la posò sul tavolo e la affettò in regolari pezzi, mentre Madame toglieva le patate dal forno.

Accomodatevi dove più vi aggrada e servitevi. A chi non piace offriremo altro e ciò che il convento può passare.

Speriamo che qualche fondamentalista, o idiota idealista casereccio, oltre al crocefisso non ci voglia togliere anche la salamella.

E, allora, sarebbe un grosso guaio, perché la polenta perderebbe il suo degno compare.

Nella sala, posto in alto sulla parte ad est, troneggiava un artistico, antico e grande crocefisso ligneo di cembro.

Scrutava da lassù l’assortita compagnia che s’accomodava alla lunga tavola, quasi divertito e attratto dal profumato menù. Sembrava voler annuire, guardandoci col suo capo reclino, al discorso di Leone.

Rimase un posto, in fondo alla tavola, proprio dirimpetto a Leone e sotto il crocefisso.

Nessuno degli astanti lo occupò, lasciandolo idealmente all’uomo … crocefisso.

Sesac

domenica 7 febbraio 2010

Fiat voluntas mea!

Questa frase starebbe benissimo in bocca ad uno spocchioso “monte…”, oppure ad un mercenario “marchio…”.

In realtà è il motto emblematico di come una certa classe dirigenziale, opulenta e asservita al potere finanziario multinazionale, si senta oggi popolo.

Il loro concetto di popolo non ha nulla a che vedere né con la democrazia, né con la vera concezione di nazione: è un’astrazione personale che li rende, da una parte, schiavi del capitale e, dall’altra, privilegiato popolo eletto che nulla ha da spartire con il plebeo operaio e cittadino.

Siamo in presenza non di due classi sociali distinte, ma di molto di più: di due specie animali diverse.

La dialettica che contraddistingue questa classe pseudo dirigenziale è l’astrazione della dietrologia, prodromo esistenziale della dicotomia dell’asservire il popolo al capitale ed dell’essere asserviti al capitale stesso.

Una dietrologia che è l’immagine odierna del qualunquismo del capitale, passato da soggetto giuridico a padrone assoluto dell’economia.

Perché ciò succeda è semplicemente detto; e lo si capisce maggiormente se si retrocede di un paio di decenni per ricercare l’origine dell’, nato per favorire essenzialmente il capitale.

L’Ue, e l’€ per emanazione naturale, è sorta, nelle intenzioni, per favorire la libera circolazione di persone e merci; ma in realtà questa era la scorciatoia lobbistica per spostare ovunque il capitale dove la redditività potesse creare maggiore business.

L’€ venne poi superato dalla globalizzazione. E da quel momento il capitale si trasformò in un perpetuo e errante negriero privo di ogni scrupolo e patria; e che, nella migrazione continua, ha perso le sue radici naturali.

Da oggetto dello sviluppo umano si è trasformato in soggetto padrone del destino dell’uomo!

La recessione non è finita e neppure la crisi finanziaria. Per rendersene conto basta guardare i dati occupazionali e l’isterico andamento delle borse, spesso debilitate da incaute dichiarazioni di personaggi di spicco, che non si preoccupano di scegliere né il momento favorevole, né l’espressione verbale ideale.

Obama, prima, e Trichet, poi, hanno creato dei tonfi borsistici di rilievo, in parte vanificando quella tenue speranza di incerta ripresa, che albeggiava in molti, e le ricapitalizzazioni, richieste al mercato, che molte società stanno attuando per potenziarsi.

Come a dire: con una mano sostengo e con l’altra abbatto.

La crisi sarà finita quando si sarà tornati alla situazione di molti anni fa, antecedenti alla crisi, quando i politici permisero la creazione e la legalizzazione di rischiosi prodotti finanziari, che nulla avevano da spartire con l’economia reale, sotto le spinte corporative lobbistiche.

E si rinascerà asservendo l’uso del capitale all’etica sociale dello sviluppo ecosostenibile.

Non si può affermare che sia più utile chiudere una sede produttiva e pagare fino alla pensione gli operai perché per l’azienda ciò sarebbe economicamente più favorevole.

L’operaio non vuole essere un assistito, ma un soggetto produttivo utile alla propria indipendenza economica e al benessere della nazione.

Vuole essere popolo e non numero burocratico utile al capitale selvaggio.

Qual è il capitale selvaggio? Quello che non si cura dei propri dipendenti, ritenendoli “cose” subalterne al proprio servizio come un qualsiasi macchinario usa e getta.

In pratica tutto il capitale che non fa né sistema, né distretto.

Vi sono, oggi, i mercenari del capitale, che vendono sé stessi e la propria dignità di uomini barattandola col destino altrui. E vengono talmente pagati, per assolvere ciò, che spesso in un anno possono percepire cifre astronomiche che l’operaio o l’impiegato non solo non potrebbero mai avere in un’intera vita di fatica, ma neppure se vivessero più secoli.

E su questa disuguaglianza reddituale (ed etica) sta il segreto della loro iattanza e opulenza, perciò nel dissociarsi da popolo per ghettizzarsi in lobby privilegiata e separata dal genere umano.

Gente così profumatamente pagata dovrebbe essere in grado di poter correggere le storture economiche dei costi eccessivi che un insediamento produttivo può evidenziare. Dopotutto non si ritengono, essi, gli dei della supervisione globale?

La realtà è un’altra: il produrre altrove non li vincola ad un sistema sociale nazionale; ma li pone in posizione politica privilegiata per poter attingere, dalle casse nazionali locali, quei benefici che la loro incapacità dirigenziale e sociale non è in grado di creare.

Il nostro Paese, finora, ha retto l’impatto recessivo per le PMI e non per le multinazionali finanziarie o manifatturiere. Queste, in verità, sono quelle che hanno ottenuto pronti aiuti e sovvenzioni dalle casse statali delle varie nazioni, per non trascinare seco tutto il resto.

E, quando la cuccagna è finita sono pronte a … sgombrare il campo.

Facile etica dell’opportunismo del business selvaggio e globalizzato.

Da ciò il titolo iniziale, volontariamente aggiustato nella sua espressione naturale evangelica: “Fiat voluntas tua” in “Fiat voluntas mea”.

Ed è solo una casualità che il verbo iniziale corrisponda ad una nota multinazionale.

Vi era un tempo l’astratta percezione della “Rosa bianca” e dei suoi 1.000 padri fondatori, che generò fiducia e speranza in molti.

Non a caso la pensò uno che, forse, trasse dai suoi sistemi limbici cerebrali il ricordo dei 1.000 garibaldini e dalla nomea della sua città.

Come andò a finire ora si sa; e di tutto ciò è rimasta solo in pochissimi soggetti la parvenza del nebuloso sogno della sibilla cumana. Una speranza virtuale e nulla più.

Poi venne l’idea di una Kadima italiana, ben presto arenatasi, non tanto tra le divisioni dei vari cespugli, ma soprattutto nell’incapacità progettuale di questi politici di concepire e riformulare una nuova società.

Guardandoli, uno ad uno, non si può fare a meno di rilevare che sono i resti erratici, dispersi e nostalgici della vecchia morena DC: stessi uomini, stessi metodi, stesse idee e ideali e medesima … incapacità.

La domanda che sorge normale nel popolo è: se questi per decenni non hanno fatto altro che cercare un tetto tra opposti schieramenti, avranno ora chiaro in zucca il da farsi?

Facilissima risposta: No!

Se l’avessero avuta la DC non sarebbe crollata e il resto del suo esercito in fuga sarebbe stato in grado di riformulare la società dopo la disfatta.

Sharon aveva un’idea e un progetto valido in mente. I nostri eroi hanno solo velleitarie e abbozzate intenzioni idealistiche e di … carriera personale.

Una Kadima casereccia potrebbe essere considerato l’Ulivo prodiano, i cui risultati politici e economici sono sotto l’impietoso verdetto della storia con l’ammucchiata Brancaleone prodotta.

Ci si nasconde dietro parole come bipolarismo e bipartitismo, come se creare più poli fosse la risoluzione del problema dell’amletico … fornaio. Non ci si chiede con quali numeri, con quali idee e con quali uomini.

La Lombardia è la regione trainante e faro della nazione: per abitanti, per ricchezza prodotta, per produttività, per efficienza e per iniziativa.

In questa regione la Lega, piaccia o non piaccia, è molto forte e in alcune province è il primo partito a maggioranza relativa. E non solo in Lombardia, ma pure in tutto il Nord.

Con questa bisognerà fare i conti, specie se consoliderà ulteriormente il proprio bacino elettorale.

Non si può partire dall’assioma assoluto di non dialogare politicamente con questa, a meno che il progetto non preveda decenni di … gestazione nell’attività propria dello struzzo.

Ha uomini nuovi, non compromessi con il passato, e che si stanno rodando negli incarichi dirigenziali. Il contrastarla con semplici e idioti slogan elettorali non porterà molti elettori; come ciò non avverrà con le idee nostalgiche del passato. Buona parte del sistema produttivo, anche quello che prima fiancheggiava la sx, sta ora puntando su di questa.

Per fare una nuova Kadima in Italia bisognerebbe partire innanzitutto da una posizione di forza, come Sharon aveva; e non da un punto di estrema debolezza e divisione che contraddistingue i possibili e volenterosi protagonisti.

Se poi, come pareva all’inizio, la si voleva affidare alla direzione di un “monte…”, fedele e servo solo al capitale, allora le idee politiche dovevano essere proprio scarse.

Savino Pezzotta, ideatore e unico rimasto a credere nella Rosa, dal fiancheggiamento alle elezioni provinciali non ha imparato la lezione avuta.

Si è partiti con la convinzione di puntare al ballottaggio, ma si è arrivati miseramente … ultimi.

Non solo: l’uomo emblema del piccolo (grande solo nelle intenzioni) movimento, pur presentandosi in più collegi non è stato neppure eletto consigliere e alcuni esponenti della lista si son ben presto dissociati.

Ora, pare che Savino l’abbia voluto con sé nella nuova avventura (che sarà in realtà solo di bandiera per la serie: importante è partecipare e non vincere) alla teorica scalata al Pirellone. Con quale profitto e utilità non si sa proprio.

Se i nomi circolanti saranno quelli veri mi pare una misera compagine destinata a combattere con i marosi elettorali non su una scialuppa di salvataggio, ma su una zattera di emergenza.

Dove sono gli intellettuali, gli industriali, i docenti che possono dare smalto alla lista e al movimento?

Non si è riusciti a trovarli? Beh, allora si getti la spugna e ci si ritiri a vita … privata, se gli uomini sono solo questi.

Per il rispetto che ho alla sua onestà di semplice uomo non posso fare altro che augurare a Savino un sincero e amichevole: in bocca al lupo.

Ne avrà grande bisogno.

Emettere il Fiat voluntas tua non è solo, oggi, il ripetere mnemonicamente una parte di preghiera evangelica.

È, molto di più, il comprendere esattamente la riformulazione necessaria alla società, partendo dal principio basilare che il capitale debba essere asservito ad un’etica sociale di Popolo e di Nazione.

Perciò: che l’industria si radichi e diventi sistema e distretto sul territorio, che i suoi dirigenti abbiano una concezione del loro ruolo sociale al servizio della popolazione, che il politico accetti di dialogare e costruire con tutti una società nuova e diversa dalla precedente, che il business sia un prodotto di sviluppo ma non “il” prodotto per antonomasia dello sviluppo, che l’economia debba essere ecosostenibile perché il basarla sul debito crescente può solo creare gravi crisi recessive.

La parola Piggs, intesa spregiativamente oltre oceano (pigs = porci), indica esattamente le iniziali del sistema debole dell’Ue: Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna e Grecia.

Non a caso sono le nazioni maggiormente indebitate, per varie cause, della vecchia Europa e che rischiano il default strutturale.

Alcune per debiti pregressi, come l’Italia, in seguito a gestioni politiche dell’economia assai nazionalpopolari; per cui, forse oggi, si vorrebbe rivalutare e santificarne gli autori, attori anche della degenerazione della politica e del malaffare.

Altre, come Spagna e Grecia, perché hanno spinto la ricerca dello sviluppo oltre il limite strutturale del debito senza ritorno.

Se poi ci aggiungiamo le nuove nazioni, che sono entrate a far parte dell’Ue con troppa leggerezza e avvedutezza politica, il quadro che ci appare davanti è sintomatico di come la crisi recessiva sia grave e la depressione sull’uscio di casa.

Chiedersi se l’Ue ha un futuro di unità o una possibile disgregazione economica non è tanto retorico, anche perché il tornare alle vecchie monete, tolta l’Inghilterra che l’ha caparbiamente mantenuta, è quasi improponibile.

Per superare questo periodo bisogna tornare ad essere Popolo e Nazione nella reciproca solidarietà, anche nei confronti della limitazione dell’immigrazione selvaggia e clandestina.

L’aprire le porte a tutti porterà ulteriori problemi strutturali e di costi, vista anche la pretesa ideologica e culturale di buona parte dell’islamismo.

Perciò si creeranno ulteriori problemi a quelli già tanto gravi che si hanno.

Rosarno non è stato un sintomatico fatto di teorico razzismo, ma il segnale allarmante che può preludere ad un aperto scontro etnico, specie se la concezione del capitale continuerà a privilegiare l’uso, a fine di business, di manodopera sottopagata e precaria in tutto.

L’Italia si avvia verso il 10% di disoccupazione, mentre la Francia l’ha già superata; la Spagna è già sul 20% abbondante e la Grecia nuota in acque stagnanti.

Con queste cifre bisognerà fare i conti e riformulare prontamente un sistema sociale che si basi soprattutto sulla difesa del cittadino.

Francia e Spagna già da tempo applicano la politica del favorire economicamente la fuoruscita volontaria e incentivata dell’immigrato, mentre da noi alcune forze politiche e religiose cavalcano teorie ideologiche che sfociano nella dietrologia populista.

Siamo in un mondo dove tutti recitano l’imperativo categorico di moda Fiat voluntas mea, invece del Fiat voluntas tua.

Il farlo implica il riconoscersi in comunità e non in popolo, specie in politica dove il populismo, il qualunquismo e il migrare continuamente tra cespugli e opposti schieramenti è un fatto assai alla moda, degno del miglior opportunismo.

Purtroppo l’opportunismo non ha mai, nel suo Dna procedurale, l’esatta percezione della realtà e della problematica da risolversi ad ogni costo per non precipitare in un baratro.

Forse pure per questo tante forze sociali si agganciano continuamente a sterili battaglie di bandiera che ci fanno perdere attimi preziosi per una pronta ripresa.

E tutto in base al motto Fiat voluntas mea!