lunedì 28 febbraio 2011

Le verità mediatiche.

Da anni non seguo la televisione se non per brevi istanti trovandomi momentaneamente in casa altrui. In compenso, viaggiando molto, ascolto spesso la radio nei lunghi spostamenti.

Ho spesso la sensazione più che fondata che le notizie di attualità siano di norma “accatastate” alla rinfusa tanto per riempire spazi.

E per accatastare intendo che le notizie declamate sono spesso delle semplici illazioni, quando non vere e proprie supposizioni; non solo senza una reale fonte autorevole, ma date per cercare di indirizzare il popolo degli ascoltatori verso una “certa” verità o su un’audience attrattiva che sta di norma tra il sensazionale e il morboso.

Ultimamente fatti di cronaca nera o di politica internazionale mi han lasciato (si fa per dire) perplesso.

Ieri ho visto un bombardamento mediatico stucchevole sul ritrovamento di una persona scomparsa, dove la notizia era l’essenza della comunicazione; la quale non era però contingente ai fatti, ma a pure supposizioni con tanto di esperti intenti ad arrampicarsi sui vetri se sollecitati (per ragioni di spettacolo) a sfuggire alla logica degli eventi reali. Perché oggi lo spettacolo è più importante della realtà e anche della vita di una persona.

I vari cronisti si dilungavano in ipotesi talmente sciocche, ripercorrendo gli eventi precedenti, dove ogni possibilità creava una storia a sé stante; ma, come si sa, la Storia non si fa né con i sé, né con i ma.

E se un corpo giace in un determinato posto nessuna supposizione può localizzarlo in una pluralità di luoghi come se questo corpo avesse il potere dell’ubiquità.

E se pure la giustizia si rivolge all’arcano ed all’esoterico (medium e veggenti) per cercare indizi, allora significa che la ricerca della possibilità diventa un’esigenza strutturale di una società che è incapace di pascersi di analisi e di cultura e che si affida con disperazione inconscia al trascendente.

Purtroppo anche certa storia patria, specie quella prodotta da elementi organici, ha infestato in modo nefasto la cultura nazionale, imponendo alla massa una verità faziosa e settaria, lontana spesso anni luce dalla realtà.

In un articolo precedente (Le nuove guerre: telematiche.) ho sviluppato il concetto di possibilità, di probabilità e di realtà.

Le possibilità sono infinite come la fantasia di ipotizzarle e le probabilità si riducono notevolmente con l’esperienza acquisita, la conoscenza e l’analisi; mentre la realtà è una sola, anche se può essere percepita diversamente perché correlata a dei parametri dimensionali.

La storia degli avvenimenti di questi giorni che riguarda l’incendio propagatosi nell’islamismo, specie mediterraneo e mediorientale, può lasciare esterrefatto chi, per la vita vissuta, può vantare nel proprio bagaglio esperienziale una notevole percezione e conoscenza di come certi avvenimenti si creino e si propaghino.

E di ciò questo articolo intende parlare.

Tutti (si fa per dire) affermano che la politica internazionale è stata colta di sorpresa dagli avvenimenti.

Perciò, questi “tutti”, dovrebbero essere dei profani incapaci di svolgere un determinato lavoro.

I fatti della storia, tuttavia, indicano che la rivolta del pane si sviluppa prima in Tunisia dove vi era un regime condotto da un uomo anziano e malato. Tant’è che scomparve pochi giorni fa.

Alcune manifestazioni avvengono pure in Algeria, ma si spengono quasi subito.

Poi compaiono nello Yemen e in altri paesi minori, dove forse il problema del pane non esiste se non per pochissimi.

In Egitto le manifestazioni assumono un carattere diverso e tutto si trasforma in giornate della collera.

Gli U.S.A. si schierano subito coi manifestanti che da tali si trasformano in rivoltosi, nonostante che l’Egitto sia da decenni un alleato fedele.

Però, come si sa, gli alleati si possono cambiare, specie se la preparazione degli eventi viaggi su reti telematiche globalizzate, la cui gestione è in mano a pochi.

Vale sottolineare che tali manifestazioni si propagano pure in paesi diversi anche se timidamente, come ad esempio l’Iran e la stessa Cina, salvo spegnersi subito perché in queste nazioni vi è un governo che, in qualsiasi modo lo si voglia intendere (grande consenso elettorale, regime o dittatura), è comunque forte.

Infine in questi giorni si sviluppa in Libia dove vi è un regime scomodo un po’ a tutti.

È l’implosione naturale dell’islamismo dei regimi arabi mediterranei e mediorientali oppure vi è qualcosa di più serio e di più profondo?

La Libia è un paese ricco e la stragrande maggioranza dei suoi circa 6,5 mln di abitanti è benestante se rapportata ai parametri del mondo islamico/arabo.

Ha, tuttavia, anche circa 1,5 mln di immigrati africani che vi sono giunti per lavorare o come terra di passaggio per raggiungere altre mete.

Contrariamente ad altri paesi arabi ha buone infrastrutture, strade, scuole e università e molte aziende straniere che vi operano da decenni.

I petroldollari sono stati investiti per buona parte nel mondo occidentale, sia negli U.S.A. che in Europa.

È un regime dispotico che però, per interessi economici, è stato sopportato, quando non accolto, dal consesso internazionale. Nella pratica è considerato una macchietta folcloristica con manie di grandezza più che una vera dittatura.

Per carenze logistiche e organizzative non è tuttavia in grado di controllare perfettamente i propri confini.

La Libia, tra i paesi mediterranei, è inoltre la più ricca di idrocarburi.

Se in Egitto la rivolta contro il regime si condensò principalmente nel cuore del paese, in Libia questa partì dalla periferia.

Geograficamente la Libia sta nel mezzo tra Tunisia ed Egitto e forse non è una pura combinazione che lì i regimi siano stati destabilizzati prima, sfruttando, in entrambi i casi, la presenza al vertice di presidenti anziani e malati.

E non è sicuramente casuale che la rivolta al regime libico sia partita dalle città più vicine all’Egitto, perciò quelle più adatte ad infiltrazioni esterne.

Cosa che non si manifestò negli altri paesi confinanti.

Sulla rete telematica, circa un mese prima che le piazze si riempissero, delle apparenti spam a tappeto, con inserti chiave in codice, pare che abbiano cercato di contattare occidentali di una certa età, anche se ancor giovani, che quei territori conoscevano bene, oppure che di tali situazioni erano esperti. Perciò che là potevano avere agganci anche personali.

E non persone comuni, ovviamente; ma esperti di strategie sociali e militari, oppure di gruppi specializzati di rapido intervento.

Da notizie filtrate molti di tali esperti sono ora sul suolo libico.

Una caratteristica particolare della manifestazione libica è che questa sia stata subito incanalata in una sommossa declamata dai media occidentali come vera e propria rivolta spontanea di massa.

Pur con incidenti inevitabili di piazza le manifestazioni negli altri paesi ebbero un altro corso, soprattutto perché la massa popolare non ha una struttura a carattere militare e, cosa non trascurabile, non ha la preparazione e la conoscenza per poter usare armi che oggi sono anche sofisticate.

Marciare e combattere contro un esercito o delle milizie, pur se non di livello eccelso, sarebbe un vero e proprio suicidio e non si farebbe molta strada.

Se il rais libico ha usato aerei da combattimento per contrastare la rivolta è perché dietro questa vi era un apparato operativo a carattere militare, perché per paradosso non si usa un ordigno nucleare per ammazzare un topolino.

Infatti l’evolversi degli eventi ha poi reso manifesto che vi sono stati veri e propri scontri militari e che l’avanzata dei rivoltosi non era affidata allo scoordinato procedere di una massa manifestante solo il proprio dissenso.

Le nazioni occidentali, inoltre, mentre i media pubblici dichiaravano armai soprafatto il regime libico, cercavano ( e cercano tuttora) accordi tra loro per mettere a punto da una parte minacciate sanzioni economiche e dall’altra strategie militari di intervento di no fly zone o di supporti strategici navali di appoggio per sostenere ufficialmente gruppi di rapido intervento per mettere in salvo i cittadini occidentali.

E dietro queste strategie politiche più o meno ammantate di ideali umanitari non ci sta null’altro che la convinzione che senza un appoggio militare esterno non si possa rovesciare totalmente il regime libico, a meno che si voglia innescare una lunga guerra civile.

Questi contatti politici ad alto livello tra le varie segreterie e anche in sede Onu, infatti, non avvennero né per la Tunisia, né per l’Egitto, né per gli altri paesi islamici interessati ancora da moti più o meno pacifici di piazza.

L’approntare tali provvedimenti sarebbe un controsenso pratico se l’esito della rivolta fosse scontato.

Nei primi giorni i media non hanno lesinato ai video ascoltatori dettagliati annunci di tragici fatti: massacri continui, defezioni, battaglie, avanzate, controffensive, proclami, sterminio sistematico casa per casa e … via dicendo.

Si diceva anche che le reti telematiche video e audio erano state oscurate e che ai giornalisti non era consentito accedere in questo paese, oppure che erano stati portati via con la forza.

Ovviamente tutto ciò può far ridere un analista, proprio perché le cose sono spesso anacronistiche.

Mentre viaggiavo, nonostante queste tragiche notizie fossero state appena annunciate, un giornalista del servizio pubblico si mette in comunicazione telefonica col vescovo di Tripoli (Martinelli se non erro), il quale, in barba ai blocchi dell’etere risponde tranquillamente al telefono.

Gli si chiede come sia la situazione; e lui afferma che dove c’è lui (nella capitale) è assolutamente tranquilla e normale. Su sollecitazione del cronista aggiunge che alcuni gli hanno raccontato sì di scontri con la polizia altrove, di feriti e di morti, ma che sono fatti che non è in grado di appurare.

Il cronista gli chiede se non ode il crepitio di armi automatiche e di bombardamenti; ma lui ribadisce che è tutto tranquillo.

Gli chiede, infine, come siano le strade; e quello afferma che è appena tornato da pochi minuti da un viaggio per motivi pastorali di ben 25 km su strade perfettamente agibili e senza alcun intralcio o visibilità di movimenti di truppe.

Unico neo di quel giorno: il tempo piovoso.

Che in Libia quel giorno ci fossero scontri in alcune zone del paese è più che scontato; ma che lo fosse ovunque e che il regime stesse cadendo era falso. Infatti, a più giorni di distanza, pur non controllando tutto il paese, il regime è ancora in sella, anche se non si sa ancora per quanto e se asserragliato in alcune roccaforti.

La popolazione libica è formata da più tribù che di norma convivono, ma non sempre collaborano.

Perciò in tali casi cambiano facilmente casacca per assicurarsi più potere.

In compenso il prezzo del greggio è salito notevolmente e più che l’instabilità regnerà più salirà.

Per mesi molte petroliere sono state in mare aperto non avendo alcuna convenienza a scaricare, attente a trovare il momento redditizio per farlo.

Ed è probabile che se la situazione si normalizzerà in Libia, questa possa esplodere poi in un altro paese arabo, e non è escluso che ciò avvenga prima o poi in Arabia Saudita.

I regimi islamici sono stati ben graditi ai governi occidentali per decenni e dove non lo erano sono stati benevolmente accettati come garanti di una stabilità più economica che politica.

Basti pensare alle varie visite del leader libico in Italia, all’accoglienza che gli veniva riservata e alla libertà operativa concessagli per certe sue manie, oltre ai notevoli intrecci economici tra finanziarie libiche e aziende italiane.

Molte nazioni occidentali si fanno portabandiera dei diritti umani, salvo poi ignorarli con quei paesi che possono offrire per relazioni commerciali o di approvvigionamento delle sostanziali prospettive economiche e di business.

Tuttavia oggi le grandi politiche finanziarie della globalizzazione sono solo in parte condotte dai singoli paesi, spesso sopravanzati, quando non al traino, delle grandi multinazionali.

La maggioranza dei paesi islamici hanno la prerogativa di regime quando non di dittatura; e in questi la cultura occidentale è spesso considerata da integralisti e fondamentalisti un ostacolo alla loro cultura.

I movimenti di protesta e insurrezionali attuali si sa da dove sono cominciati e si può anche capirne il perché. Non si sa però dove andranno a finire.

Che Obama (e altri) cavalchi il sostegno alla protesta con la scusa della libertà e dei diritti umani è encomiabile; lo sono molto meno le probabili motivazioni che lo costringono a scegliere questa strada, perché sarebbe interessante vedere questo stesso atteggiamento verso la Cina, dove il debito sovrano statunitense è classato per circa il 40%.

La globalizzazione mediatica oggi è importante per creare opinioni e condizionare le masse e certe tv libere del mondo arabo/islamico sono i cavalli di troia per scombussolare dei sistemi di governo che appartengono per tradizione a dei popoli che hanno estremo bisogno del totem per organizzarsi e riconoscersi.

Credo che sia però un peccato imperdonabile quello di destabilizzare dei governi alleati ed amici per fini che più che nazionali oggi fanno parte di interessi globalizzati, senza aver prima provato tramite pressioni diplomatiche riservate a cambiare le cose.

Le multinazionali traggono per lo più i loro grandi utili dagli idrocarburi, riversando poi questi su altri settori produttivi e sociali, non ultimi quelli che sono correlati ad interessi politici.

Le guerre sono nella stragrande maggioranza prodotte da interessi economici e solo poche volte da interessi religiosi. Va da sé che spesso la cultura ha radici profonde in un determinato sistema religioso, su cui viene implementato un sistema sociale.

Gli occidentali non a caso fanno riferimento ad una determinata cultura religiosa e gli arabi (semiti) ad un’altra ancora. E se non si tiene conto di ciò non si può comprendere perfettamente perché vi possano essere stati per anni sistemi diversi di gestione del potere.

La globalizzazione (e gli interessi che questa crea) sta cercando di mischiare le carte sovrapponendo culture come se queste fossero semplici prodotti, perciò oggetti di un semplice agire comune.

Ed i movimenti attuali di dissenso o di rivolta che si stanno manifestando nel mondo arabo/islamico sono il preludio non troppo sicuro di una maggiore democrazia e libertà, specie se i popoli interessati non abbiano di questa una conoscenza completa ancorata profondamente alla loro cultura e religione.