lunedì 2 febbraio 2015

Sociologia del politico; e non solo.

L’occasione dell’elezione, avvenuta, del nuovo Presidente della Repubblica mi ha riportato a delle riflessioni decennali su cosa spinga un uomo ad accettare prima e a ricoprire poi una determinata carica.
Il mio pensiero non è rivolto per nulla, se non indirettamente, al nuovo eletto, di cui non voglio e non posso parlare, non conoscendolo affatto.
Spesso, nella dietrologia dell’esaltazione politica (o giudiziaria), ho sentito parlare di alcuni come di grandi (fedeli) servitori dello stato; quando, a ben guardare, considerati i benefit, la lauta retribuzione (o indennità), la carriera e i privilegi, si dovrebbe sempre parlare di serviti dello stato. Con buona pace dei servi veri, identificabili, ad esempio, negli schiavi di un tempo, nei servi della gleba e in tutti quei cittadini che oggi tirano la carretta con stipendi o pensioni da fame.
Diciamolo francamente: considerare dei privilegiati della società come servi è un’offesa alla decenza dell’etica sociale.

Molto tempo fa conobbi casualmente, nel mio girovagare per lavoro, una di quelle rarissime persone che sono da considerarsi fuori da ogni standard comune.
Costui era il migliore nel suo campo e si avvaleva di altri migliori, nella loro qualifica professionale, che vi potessero essere, non in una nazione bensì in tutta la terra. Operava con un gruppo ristretto, secondo le esigenze, composto al massimo da 15/20 persone, compreso il funzionario di collegamento che lo stato committente gli metteva a sua completa disposizione.
Percepii che, se vi era umanamente qualcosa d’impossibile, con lui ciò fosse fattibile. Portando il tutto al paradosso si potrebbe dire: era il braccio destro di Dio.
Vestiva e si comportava come un comune mortale. Tuttavia, avvicinandolo, si percepiva subito il grande carisma che trasmetteva. Nessun distintivo o divisa di comando. Nessuna pretesa o esigenza di apparire. Nessuna superiorità manifesta con collaboratori/subalterni. Anzi: un’estrema riservatezza che l’ignaro osservatore poteva scambiare magari per timidezza.
Ebbi la possibilità, trovandomi nello stesso albergo per un certo periodo, di familiarizzare e di scambiare alcune riflessioni generali con lui, anche senza minimamente entrare nella reale consistenza della sua attività. In ciò mi favorì molto il mio sapere filosofico, essendo costui amante della filosofia.
Appresi, perciò, che, tolte le sue spese vive, il resto del compenso dovutogli lo devolveva sempre in attività filantropiche e umanitarie. Tuttavia non era ricco. Era, soprattutto, “povero” nella sostanza del suo spirito. Possedeva però un grande ricchezza: il suo cervello.
Accettava incarichi solo se li riteneva utili e giusti. Ne convenni che neppure tutto il potere e l’oro della terra potesse indurlo a fare una cosa che ritenesse sbagliata.
La cosa che più mi appassionò fu che mi parve la metempsicosi di Lucius Quinctius Cincinnatus (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 30), l’antico, mitico nobile romano della gens Quinctia, che assumeva l’incarico del potere solo quando era strettamente necessario, lasciandolo poi subito a compito svolto per tornare alla sua abituale attività.
Cosa oggi quasi improponibile per tutti i politici attuali, che di questa nobile sociale attività ne han fatto una longeva e lucrosa professione.
Infatti, in tutta la mia vita, finora ho conosciuto solo un (noto) politico che devolve tutta la propria indennità a fini umanitari. Pur se va sottolineato che costui è un benestante.

Per i politici non ho mai avuto una buona considerazione. Almeno per quelli attuali. Eppure quanti ne ho personalmente conosciuti.
Mai, nonostante le sollecitazioni, ho voluto entrare in politica, pur collaborando con qualsiasi gruppo che intendesse elaborare progetti o idee, al di là del suo schieramento. Né mai ho votato candidati che non ritenessi degni, come persone, d’essere votate. Ho sempre guardato alla sostanza dell’uomo, non alla sua apparenza.
Non amo il manager di stato; amo l’Uomo che dona la sua disponibilità e sapere alla nazione.
Sono molto lontani, anni luce, i tempi nei quali Alcide De Gasperi viveva come una persona comune, morendo pure “povero”, con la sola casa avita di proprietà e con pochi vestiti. Ciò, pur avendo ricoperto tutte le più alte cariche dello Stato (ultimo presidente del Consiglio dei Ministri del Regno e primo della Repubblica e poi ancora in seguito, capo provvisorio dello Stato, ministro, onorato dalla ticker-tape parade) e del partito (segretario).
Ritengo che i politici Padri costituenti fossero attenti soprattutto ai Diritti, lasciandoci, con la Costituzione, un esempio fulgido della preminenza del valore della Persona su tutto. I diritti, infatti, sono strettamente connessi a quei Valori che sono basilari per una pacifica, operosa, civile convivenza sociale d’uguaglianza nella diversità.
Riducendo i diritti si svilisce la persona. La si riduce a numero ed oggetto burocratico, a processo qualunquista di bilancio, basato sulla nuda capacità produttiva che può dare in quel preciso momento. Diversamente è scarto.

Oggi, più che dei politici, abbiamo dei sociologi (arruffoni), intenti a modificare la Costituzione e i Diritti secondo ciò che per loro è opportuno fare in quel momento, anziché ciò che è giusto. Forse perché il giusto è il … loro tornaconto.
Basti, ad esempio, osservare con quale leggerezza si proceda allo smantellamento progressivo del welfare, all’Art. Quinto e alla stessa legge elettorale; oltre a produrre quelle varie leggi (degeneri) che hanno il solo scopo di legalizzare dei vasti problemi sociali, che lo Stato nei suoi corpi operativi (scuola, forze dell’ordine, parlamento, burocrazia) non è in grado di gestire o risolvere.
Basta un’alternanza politica per cambiare ciò che prima si è fatto, capovolgendo priorità e finalità.
Senza dire poi del riciclaggio continuo di personaggi politici di spicco, che passano da un incarico all’altro con tale disinvoltura e continuità da poter essere considerati i deus ex machina dello Stato.
E che dire poi degli arrembanti pollastri, che senza alcuna esperienza si propongono di cambiare tutto solo perché culturalmente pregni di un (incauto) pragmatismo?

Quando la politica diventa un lavoro ha già perso i nobili connotati di valori sulla quale i greci antichi han basato il concetto di Democrazia, spostando (di norma) il proprio baricentro verso o la dittatura (uomo, partito), o la regalità (re, imperatore), o la plutocrazia (possesso di beni), o l’oligarchia (gruppi ristretti di potere), o la teocrazia (religione), o la finanza (bilancio, mercato), generando corruzione, mentalismo, conflitti sociali, servitù, estremismi e anarchia.
Tutte queste degenerazioni della democrazia fanno ampio uso dei media, utilizzati come inserti subliminali per condizionare il pensiero delle masse. Conclamando, continuamente e ripetutamente, verità e necessità che nella realtà sono solo un’esigenza di parte: di quella che detiene il potere.

Il secolo scorso è stato contraddistinto, in molte nazioni, da pluridecennali gestioni del potere, con caratteristiche spesso dittatoriali nei paesi terzomondisti/sottosviluppati e musulmani. Mentre, nei paesi occidentali mediterranei, ciò è avvenuto con una democrazia disarticolata, che ha spesso limitato al lumicino, con il professionismo politico, il naturale, necessario e utile ricambio di generazioni e idee.
Curiosamente tutte queste forme di potere hanno palesato ovunque corruzione e peculato, crollando poi nella cachessia sotto gli scandali. Se molti paesi oggi sono da lungo in recessione è dovuto principalmente, anche se non in toto, all’operato amministrativo e legislativo di quelle “dinastie” di politici.

La vita di ognuno insegna che le motivazioni cambiano ad ogni ciclo della propria età. Stranamente ciò non avviene nei politici di professione che la intendono come carriera, iniziando da giovani e cessando solo quando il deficit fisico gli impone obbligatoriamente lo stop.
Analizzando la vita pubblica di questi personaggi, tuttavia, appare evidente che mutano facilmente obiettivo, finalità e status, come i camaleonti (idee, partito) da una parte e come la mantide religiosa (cannibalismo correntizio) dall’altra.
Spulciando poi il loro stato patrimoniale pubblico, si nota come nel corso degli anni questo tenda ad accrescersi continuamente, elevando progressivamente il loro status sociale e immobiliare.
Sicché, si può concludere, da servitori diventano dei serviti. Anche dopo il ritiro; per quei “diritti acquisiti” che i politici, nel legiferare, sono molto attenti a rendere duraturi.
Diritti che la Fornero è stata pronta a modificare per il povero (popolo), ma non per il ricco (politico, burocrate, dirigente pubblico).
Per rendersene conto basta controllare chi usufruisce delle pensioni d’oro.