Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto che pubblico assai volentieri.
È il primo di 2 articoli connessi, pur con tematiche diverse, che parlano della situazione della foresta e delle vicissitudini degli animali.
Questo tratta della scomparsa di un amico, che da molto faceva parte del gruppo degli animali.
Sam Cardell
Tratto da “i Dialoghi” di Sesac
Billy.
La compagnia, avvicinandosi le festività, si dava appuntamento in un’accogliente baita alpina dove spesso Leone si recava. Com’era tradizione da anni ci si riuniva anzitempo sulle festività di fine anno per i consueti auguri.
Di norma era così; ma quest’anno andò diversamente e quando vi giunsi trovai una situazione ben diversa.
L’occasione, come sempre, veniva colta più per riunirsi che per i convenevoli sociali. Quest’anno, poi, data la situazione esistente nel settentrione della foresta, specie ad Itachia, l’occasione era maggiormente ghiotta.
Itachia faceva parte del continente Eustachia, così chiamato perché ogni suo Land sentiva solo pro domo sua.
Giù nella piana e nelle valli vi era una forte nebbia; ma, appena attaccati i primi tornanti che portavano al valico, questa si diradava velocemente lasciando posto al gagliardo sole dicembrino che, se non turbato dal tramontano, scalda ancora il cuore e la mente di tutti gli animali, bipedi e quadrupedi indistintamente, specie di quelli poveri che da lui traggono il calore per superare giorno dopo giorno il lungo inverno.
Salendo tra il bosco ceduo che fiancheggia tutta la salita, facevano bella mostra di sé sia le foglie mattone del faggio che quelle ancor più seghettate e scure del forzuto roburo, parente stretto del rovere, della quercia e della ghiandaia; arbori, però, che ai monti prediligono o la piana o le ondulate e morbide valli, specie di quelle che immettono poi nei terrosi fiordi montani.
Ad eccezione dei radi e verde cupo abeti, posti a sud sulla dorsale che divide le 2 valli, i rimanenti fusti arborei levavano verso il cielo le scarne braccia, quasi implorando il buon Dio affinché li scampasse dalla grave crisi in atto; e avendo spesso, accanto, altri colleghi che, benché spogli, erano imbellettati dalla rossa pastura per gli uccelli.
Non erano ancora iniziati i grandi freddi, per cui il clima era mite e la natura, sebbene già in letargo, ancora molto accogliente.
Appena dopo una curva a gomito un’intrepida lepre balzò dal muro a monte e si cimentò, fino al tornante successivo, in un duello sportivo di corsa alpina con Bipperino. Costui, per la verità, procedeva beato, indifferente e senza alcuna fretta, intento a scansar le grosse e indecenti buche che l’amministrazione di quei luoghi, come proprio civile biglietto da visita, presentava al coraggioso viandante che lassù si avventurava alla singolar tenzone.
Giungemmo infine al valico; e invitai Bipperino a sostare un attimo, onde goderci il paesaggio. Prontamente accondiscese. Si era solo a metà viaggio.
Scesi; e tra il terso fiammeggiar del sole mi godetti il paesaggio familiare.
Scorrendo l’occhio da ovest a nord, e infine verso est, notai il fulgore dell’imponente catena alpina, già ben imbiancata nelle sue alte cime. Sotto di noi, a sud, i grandi e piccoli laghi dai vivaci colori; e, più lontano, la brumosa immensa piana che mostrava però solo un grande mare: quello della nebbia, intenta a frangersi contro il fianco dei monti propri degli etruschi.
Mi sovvenni che lassù sarebbe mancato un amico: un piccolo quadrupede a noi tutti caro, capace ogni volta di accoglierci con un festoso bau-bau di benvenuto. Ci aveva lasciati alcuni giorni prima senza alcun clamore.
Casualmente lo seppi, anche sa da mesi sapevo dei suoi acciacchi.
Lo vidi emergere dal mare di nebbia della piana, quale fantasma reale, alter ego della Dama Bianca che nelle notti agostane attraversa il lago ch’era sotto di me.
E attratto nel gorgo biancastro rividi … tutto.
Avvenne, infatti, che giorni prima dovessi recarmi da Leone, presso il suo antro, per chiedergli delle informazioni su Becca Morti.
Giunsi nell’immediato pomeriggio e non trovai Billy ad accogliermi. Pensai che fosse uscito con Leone.
Leone, invece, lo vidi intento a preparare degli attrezzi per eseguire un lavoro: una vanga e un piccone. Aveva già gli stivali ai piedi per non inzaccherarsi.
Mi vide, mi salutò senza troppo entusiasmo e mesto nell’aspetto. Mi invitò ad attenderlo nell’antro, dicendomi che mi avrebbe fatto aspettare poco. Doveva fare una buca nel terreno dietro casa.
Gli chiesi se avessi potuto seguirlo. Non mi rispose, come se non mi avesse sentito, apparentemente chiuso nella sua mestizia.
Si avvio verso il podere con gli attrezzi in spalla, quasi a malincuore; ed io lo seguì a distanza con discrezione.
Nel podere vi era un prunus armeniaca; e presso quello Leone si fermò. Mi arrestai a distanza ad osservarlo presso un calicantus.
Tutto intorno la terra era morbida, nera, fresca e senza zolla, come se fosse stata lavorata da poco.
Prese la vanga e cominciò con forza a spingerla nel terreno, sollevando poi grosse quantità di terriccio che posava ai lati. Poi prese il piccone e scavò ancora nella buca per renderla più profonda, spostando poi la terra smossa.
Infine misurò con la vanga la profondità e ritenne – almeno mi parve di intendere – che fosse bastevole.
Lasciò gli attrezzi e tornò nel cortile di casa. Poco dopo ricomparve con una cesta in mano, coperta da un drappo azzurrino. La depose lentamente poco distante dalla buca, sul prato che vi era vicino.
La scoprì e a distanza vidi che c’era: il corpo esanime e ben composto di Billy.
Né … soffrii!
Leone mi dava di spalla e stette per alcuni attimi ad osservarlo; poi pose un ginocchio a terra e coccolò l’impavido e fido cagnolino a lungo. Infine lo sollevò tra le braccia togliendolo dalla cesta. Girò su se stesso verso la buca e … li vidi bene entrambi.
Leone mi parve commosso, estraniato come se il mondo non esistesse. Billy era rigido, ma splendido come sempre e con le sue fiere orecchie ritte e la coda composta; pareva dormisse beato, ninnato tra le braccia di Leone. Ebbi la convinzione che se Leone lo avesse posto a terra in piedi Billy, nella sua rigidità, sarebbe parso vivo, pur con gli occhi chiusi. Era, infatti, in una posizione naturale eretta.
Lo depose lentamente nella comoda buca, attento a non sciupare quella posizione; lo pose adagiato sul fianco dx. Lo coccolò un attimo accarezzandogli la testa; poi si alzò.
Si diresse verso un rosa posta al limitar del podere e ne colse un bel fiore rosso, lasciandone un altro già un po’ sfiorito. Non era la stagione dei fiori. Ve n’erano altri in bocciolo, ma li disdegnò.
Tornò verso l’amico e dall’alto lasciò cadere il fiore su di lui. La rosa cadde ruotando come un’elica su se stessa con il gambo rivolto verso il basso e si infilò nella terra proprio sotto il mento di Billy, creando uno splendido abbinamento di tinte con la sua pelliccia biondo scuro.
Leone osservò l’effetto, poi vagò ancora un attimo per il terreno, raccogliendo una grossa margherita gialla e una bianca di prato; notò pure un fiore multiplo cobalto e raccolse pure quello.
Tornò alla fossa; si inginocchiò sopra di questa, appoggiò la mano sx tra la nuda terra per sostenersi, si chinò e depose i fiori sopra l’amico, vicino alla rosa.
Lo rimirò a lungo, accarezzandolo tra la nuca e la coda, sulla schiena, con la sua dx. Vedevo bene in faccia Leone e alcune rade lacrime gli scendevano dagli occhi, resi ancor più splendenti e brillanti, come diamanti, dal trasparente liquido lubrificante, cadendo sopra l’inerte amico. Tuttavia il suo viso, pur nel dolore, era sereno.
Infine si alzò deciso, prese la vanga, salutò con un ultimo amorevole sguardo Billy e con mosse sicure e decise lo ricoprì velocemente di terra finché il tumolo fu terminato.
Prese un rametto di agrifoglio guarnito di bacche rosse e lo conficcò sopra. Sbatté gli attrezzi sul terreno tra l’erba, onde ripulirli dalla terra umida e appiccicosa; se li mise in spalla e si avviò deciso verso il cortile di casa.
Lo seguii.
Mentre sistemava gli attrezzi entrai in casa. Mi parve … in parte vuota. Lui giunse poco dopo. Si era completamente ricomposto.
Ci scambiammo alcune idee e mi aggiornò con serenità, su mia richiesta, sulla morte del comune amico, scomparso il giorno prima.
… Introdussi il discorso su Becca Morti, ragione principale della mia visita. Comprendevo che non era il giorno adatto, perciò vi accennammo solo.
Era costui così chiamato anche se il suo nome anagrafico era Amorino. Aveva tuttavia un aspetto tanto tetro, da bolgia infernale, che tutti lo chiamavano così, iniziando dai suoi genitori che gli cambiarono subito il nome in Becca. L’ufficiale anagrafico, all’atto della registrazione e essendo un po’ sordo, non capì bene neppure il cognome, anche perché il padre, che aveva sempre monete in bocca, masticandole per professione, aveva il difetto di pronunciare male una consonante, declamandola come se fosse la quarta successiva.
Per Becca Morti mi invitò ad essere presente alcuni giorni dopo ad un piccolo convegno di amici, alcuni dei quali – mi disse – non conoscevo ancora. Si sarebbe ragionato della situazione e delle prospettive.
Mi diede indicazione sul luogo del ritrovo, che non era uno di quelli abituali per ragioni che non mi elencò e per cui non chiesi ragguagli.
… Data l’ora, prendemmo insieme un the al latte con alcuni biscotti.
Salutai infine lui e Madame, dandoci appuntamento ad alcuni giorni dopo.
Mi riscossi dai ricordi e capii che la realtà non era nel mare di nebbia che vedevo sotto di me e nella quale rivedevo il passato prossimo. Era negli amici che mi attendevano pazienti.
Perciò risalii su Bipperino che riprese di buona lena il cammino, affrontando deciso la discesa del nostro percorso.
Sesac
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