domenica 29 marzo 2009

L'ignoranza del concetto di laicità e di etica in democrazia.

Al congresso del PDL, ieri, è echeggiata sinistramente questa frase:

Siamo proprio sicuri, amici del PDL, che il DDL sul testamento biologico approvato al Senato sia davvero ispirato alla laicità? Perché una legge che impone un precetto è più da Stato etico che da Stato laico.”.

E se la confrontiamo con quest’altra, sempre dello stesso personaggio, di sole 24 h prima, il computo è subito fatto:

È davvero sbagliato irridere le regole …”.

Anche se, onestamente, ignoro quale possa essere il precetto in uno stato democratico, se non quello, unico, di rispettare le leggi democraticamente approvate in Parlamento, che piacciano o no.

La laicità è una tendenza ideologica che sostiene la piena indipendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ecclesiastica. Perciò è l’atteggiamento di chi si oppone ad interferenze della gerarchia ecclesiastica negli affari civili.

L’etica, a sua volta, è l’insieme delle norme di condotta pubblica e privata seguite da una persona, o da una comunità di persone, nel rapporto interpersonale sociale.

Il Parlamento non dipende dalla Chiesa, né è un suo organo subalterno: è l’espressione elettiva e democratica del Popolo italiano, pur con i limiti e i vincoli di una democrazia ancora in cammino e perciò imperfetta.

Ma forse, chi ha pronunciato le due frasi, crede di essere al servizio del Vaticano nella sua carica istituzionale?

Perché è ovvio che se il giorno prima uno si arroghi il diritto di difendere le istituzioni, dal pensiero personale di chi ricopre un’altra alta carica dello stato, non può il giorno dopo attaccarne a suo uso dialettico una, il Senato, che ha democraticamente legiferato su un tema specifico.

Tutto ciò indica una chiara confusione intellettuale che oggi è assai comune anche ai vertici istituzionali, dove l’interesse e la posizione individuale tende ad essere scambiata per un doveroso precetto sociale.

Il cittadino risponde ad una sua morale, la quale è correlata strettamente ad un’etica comportamentale.

Nelle democrazie avanzate occidentali dei gruppi politici si fronteggiano e si alternano al potere, confrontandosi su tematiche diverse, o similari, e su queste raccogliendo il consenso elettorale.

Il Testamento biologico è una di quelle tematiche che non possono essere concepite e ideate se non nell’applicazione di una certa morale, quindi anche di un’etica comportamentale. Ed è ovvio che questo argomento debba avere un “sentire” nazionale suffragato dalla maggioranza democratica dei cittadini.

Ciò dovrebbe essere considerato pure al vertice, giacché la maggioranza che ha approvato (per ora in modo provvisorio) un tale DDL è ampia e non solo della Maggioranza. Anche chi ha votato contro condivide molti punti e le varie votazioni sugli emendamenti trasversali lo provano ampiamente.

Dire, pertanto, che “Perché una legge che impone un precetto è più da Stato etico che da Stato laico”, è non solo un’enorme forzatura democratica all’operato del Senato, ma anche una grande baggianata culturale e dialettica.

Forse, come hanno sottolineato molti, anche politici, una grande furbata.

Cosa si intende per Stato etico e Stato laico? Credo che Fini farebbe bene a spiegare il suo concetto in proposito, considerato il suo procedere politico precedente alla sua adesione al sistema democratico.

Ed è importante sottolineare che proprio tale sistema gli ha concesso, da una parte, di procedere nella sua militanza in una formazione ideologicamente totalitarista e sconfitta dalla storia, e poi di traghettare il suo movimento verso la democrazia.

Vi può essere uno Stato laico senza che abbia un’etica? Sì se lo si vincola al concetto personale verticistico dell’esponente di turno, no se per Stato si intende l’insieme delle forze sociali che lo compongono.

Perché nel primo caso l’intendimento del vertice diventa necessariamente l’etica laica di tutti, ma allora si è nell’autoritarismo totalitarista; mentre nel secondo si ha un’etica democratica basata sulla concezione personale della maggioranza dei cittadini di scegliersi le regole non solo civili, ma pure comportamentali, compresa quella di aderire ad un preciso intendimento religioso, pur se indicato da una Gerarchia ecclesiastica che è, anch’essa, parte sociale in causa nella società.

E la democrazia, come ha garantito al MSI una partecipazione alla vita politica quale minoranza, ha il compito primario di procedere secondo ciò che è l’intendimento della maggioranza degli elettori, specie sui problemi etici esistenziali.

L’avanzare riserve su un DDL, che è sempre perfettibile, è concesso a titolo individuale in un dibattito politico; però è opportuno il rispetto della regola democratica che impone l’esatta concezione della terminologia usata nel rapporto istituzionale tra i vari organi deliberanti.

In pratica il concetto di Democrazia impone l’accettazione della delibera effettuata anche se contrari ad essa, pur salvaguardando il diritto di ognuno di battersi perché quella stessa delibera/legge venga perfezionata o abrogata.

La formula di rito, ad ogni votazione di ogni singola legge, dichiara: “Il Senato (o: la Camera) approva!”, perciò il Popolo italiano tutto.

Non si dice: la maggioranza approva, oppure, la maggioranza e la tal minoranza parlamentare approvano.

Personalmente ritengo il DDL sul Testamento biologico una di quelle leggi inutili che Calderoli potrebbe benissimo eliminare insieme alle altre 39.000. Per me, ma non per altri.

Ciò significa che qualsiasi contenuto questa abbia, burocratico o limitativo, non mi coinvolge affatto, sapendo benissimo cosa fare della mia vita e del suo corso naturale senza che altri me lo dettino.

Questo mio incedere è collegato ad una morale personale e dunque ad un’etica del sapere comportamentale, senza la quale la regolamentazione statale sarebbe necessaria.

Vi sono problematiche che fanno parte del vivere sociale ed altre che coinvolgono anche la sfera personale.

Questo DDL è nato dall’esigenza di salvaguardare la vita individuale dall’eccesso che altri possono operare, a nostro discapito, in casi particolari. Ed è sorto impellente sul caso, non unico, della ragazza lecchese, amplificato nel suo significato dalla volontà del genitore di dare pubblico risalto al caso.

Il caso precedente di Welby era assai diverso perché coinvolgeva un assenso personale, paragonabile, per eccesso di paradosso, ad un comune suicidio.

La legge, ovviamente, non concede il suicidio, ma nella pratica questo è largamente tollerato, anche perché spesso il “reo” è deceduto e, dove questo non è avvenuto, ha bisogno del sostegno della comunità per riprendere il proprio cammino. In pratica non si procede legalmente contro la vittima, che è pure il carnefice.

La problematica inerente alla vita individuale pone una scelta di vita morale e quindi di una specifica valutazione comportamentale etica. È un grande problema antropologico!

In Italia si è già avuto l’aborto; ma questo è da considerarsi un fattore che pone la preminenza dell’essente sul nascituro. In pratica una scelta egoistica di comodo, perché l’addiveniente risulta soccombente all’esistente. Prima “Io” e poi … eventualmente gli altri.

Il fine vita (morte), coinvolge invece l’essente stesso, perciò la singola persona giuridicamente già riconosciuta.

Diversa è la posizione del feto che non ha ancora importanza giuridica sociale se non dopo la nascita stessa. Perciò la concezione religiosa rimane confinata nella sfera dell’intendere individuale.

Ben si capisce, perciò, che la morte, perché di questo, in effetti, si tratta, viola il principio dell’esistere se giunge per “mano”[1] altrui, ponendo in essere non un’etica religiosa, ma un’etica sociale, appunto perché si sostituisce alla nostra volontà.

Se ne deduce, quindi, che il cittadino stesso intenda la sua vita come un bene da salvaguardare, perciò da collegare ad un’apposita etica sociale.

Ecco, dunque, perché uno Stato laico deve necessariamente essere anche uno Stato etico, assecondando democraticamente la volontà della maggioranza sociale. Diversamente l’entità giuridica di Stato sarebbe preminente alla persona, quindi sostituirebbe la democrazia con il dispotismo burocratico, o, talora, con il totalitarismo.

Ogni legge, spesso anche la più inutile, è collegata ad una concezione etica.

Senza morale ed etica non vi può essere Democrazia, ma solo anarchia: quell’egoismo particolareggiato che dà alla Persona l’autorità di fare qualsiasi cosa; ma, appunto per questo, lede inevitabilmente il diritto degli altri cittadini.

L’anarchia, oltre ad essere un’utopia, che cos’è se non la legge della giungla e lo svincolare la persona da ogni autorità, perciò da tutti gli altri essenti?

La Vita, checché ne pensi Fini, non è un affare civile, bensì personale: è uno di quei beni non negoziabili, principio assoluto, che viene vincolato all’essente, perciò al diritto di esistere della persona. È un’esigenza universale e non religiosa o ecclesiale.

Qualcuno, ovviamente, per considerazioni proprie, talora anche dolorosamente affettive, supera lo steccato del diritto altrui, ammantandolo come proprio dovere: si arroga il diritto di decidere per un altro.

Si è creato un problema antropologico nel quale la Giustizia si è inavvertitamente avventurata a deliberare, usurpando, di fatto, anche se solo momentaneamente, un vuoto politico.

Stante questa importante problematica, la maggioranza parlamentare sta deliberando su un’etica largamente condivisa a livello nazionale, piaccia o non piaccia.

La vita, perciò anche la morte, non è una concezione ecclesiastica, ma un dato reale. La vita, infatti, si svolgerebbe comunque anche senza la gerarchia religiosa.

Affermare, per derivazione dialettica, che un tale DDL non sia davvero ispirato alla laicità, ma solo ad un precetto di uno Stato etico è umanamente e filosoficamente fuorviante.

E lo è maggiormente se lo afferma, pur se individualmente, la terza carica dello Stato.

A meno che si analizzi l’incedere progressivo, culturale ed operativo di ogni persona, soffermandoci sui quei particolari di laicità che gli hanno concesso di fare il proprio comodo e interesse personale, talora sostituendolo ai patti liberamente sottoscritti con terze parti.

Perché, come diceva un detto sapienziale dei nostri vecchi, è solo l’asino che non cambia mai.

E una società evoluta ha il dovere di tutelare i suoi cittadini da possibili abusi in situazioni particolari, specie su quelle tematiche esistenziali e antropologiche che, in menti non preparate, pongono dubbi e interrogativi quasi umanamente insormontabili.

A meno che, se mi è concesso, la Società non voglia essere l’asino che non cambia mai, dando adito ad uno Stato laico che sfiora l’anarchia operativa, dettata dall’egoismo contingente; quando non sostituisce questa (l’anarchia) con il totalitarismo.

Ma ciò avviene solo se non si rispettano le regole democratiche: quelle che consigliano a tutti di attenersi alle disposizioni approvate dal Parlamento, specie se ottenute con parte dei voti dell’opposizione.




[1] - In quanto, comunque questa avvenga, è indipendente dal volere momentaneo della persona coinvolta, perciò soccombente.

domenica 15 marzo 2009

Quando un papa va, confuso, a Canossa.

Non è nella funzionalità di questo articolo entrare nel merito della discussione politico/religiosa della lettera di Ratzinger[1] ai suoi confratelli vescovi. Altri (vescovi, gerarchia, fedeli e credenti) lo faranno compiutamente, guardandosi chi allo specchio della propria vanità e chi a quello della propria fede e coscienza.

Tuttavia il mio analizzare lo è, parzialmente, nel soffermarmi sullo incipit dell’attuale diaclasi che sta emarginando il mondo cattolico; o, forse, sarebbe meglio dire: nella scomposizione, in atto culturalmente, che pone più correnti di pensiero a confrontarsi (guerreggiarsi) apertamente tra loro, indebolendo il concetto di Chiesa e relegandolo ai margini della vita sociale.

La causa “lefebvriana” è solo, sicuramente, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che, con l’uscita pubblica della lettera papale, ha posto il problema all’attenzione generale.

La mia convinzione personale (probabilmente fallace) è che questo pontefice abbia avuto a sua disposizione due anni di interregno per salire volutamente al soglio di Pietro, facilitato dalla malattia che ha estromesso, volontariamente, il probabile altro candidato dalla corsa elettiva.

La cosa può, a prima vista, apparire fantasiosa; ma se, da analista, si osservano i passi di Ratzinger, fatti in questo senso, nei 24 mesi che lo hanno diviso dal regno vaticano, la realtà appare molto probabile.

Abbiamo: dimissioni per raggiunti limiti di età non accettate da Wojtyla[2], la sua amicizia con il predecessore, il suo ruolo curiale di guardiano dell’ortodossia della fede, le cerimonie funebri da lui presiedute, le riunioni organizzate (quasi “correntizie”) prima del conclave e il suo discorso nell’omelia funebre. A tutto ciò aggiungerei, pur con le debite precauzioni del caso, la cartolina firmata con lo stesso nome da pontefice, ben 2 anni prima dell’effettiva elezione, che se fosse proprio vera (e non una semplice boutade giornalistica) porrebbe sul “caso” la sicurezza matematica assoluta.

Chi si ricordi il viso “radioso” (totalmente appagato) di Ratzinger nella sua prima apparizione pubblica da pontefice e lo confronti con quello odierno, arcigno e rinserrato, non può che trarne riflessioni preoccupanti: questo papa si è reso conto che sta perdendo per strada il consenso pubblico e gerarchico della “sua” Chiesa e che non sa come uscire dal tunnel in cui si è cacciato con il suo integralismo personalista nel combattere il relativismo.

In poche parole: non sa comunicare! E, forse, neppure agire.

L’essere acculturati non significa, infatti, possedere anche quelle doti di “governo” che la Chiesa richiede non solo nell’organizzazione gerarchica, ma pure nella proclamazione della dottrina.

La sua lettera contiene una grande quantità di domande retoriche nella parte centrale e finale: domande che non aspettano risposta, ma che l’hanno già insita nel loro naturale porsi. E se il predecessore esponeva pubblicamente il “mea culpa” della Chiesa per gli errori fatti (preferibilmente passati), questo testo pontificio pare porsi il dilemma amletico dell’essere papa: in quel sentirsi isolato non tanto dalla gerarchia che lo attornia, ma dalla comprensione e condivisione generale che dovrebbe unirlo all’Ecclesia tutta.

Quanti milioni di persone si sono perse nelle udienze e in P.za S. Pietro rispetto al passato? In merito vi sono esaustive statistiche assai emblematiche nella nudità sintetica dei numeri espressi.

Ratzinger è un grande studioso: un grande esperto di storia della teologia.

Alcuni lo indicano anche come grande intellettuale (papa teologo), ma su questo non sono d’accordo: i veri intellettuali (filosofi, sociologi o teologhi che siano) sono quelli che non solo hanno una grande padronanza culturale del sapere, ma che pure sanno proporre, di proprio, qualcosa di nuovo o varianti ai concetti precedenti.

Ratzinger ripercorre con grande competenza il passato e nulla più, come un perfetto scolaretto preso totalmente dal suo ruolo.

La vicenda quasi simultanea del vescovo di Recife e la pronta sconfessione pubblica della CEI brasiliana, su un caso specifico di aborto, pone in essere non tanto il diritto canonico su chi possa emettere e revocare pubblica scomunica (di per sé ininfluente al fine dialettico generale, essendo ciò marginale), bensì il contrasto e la frattura che coinvolgono diverse correnti di pensiero, oltre che operative, all’interno della Chiesa.

La lamentela papale è solo la punta dell’iceberg e non certo un caso isolato.

Chi maggiormente dissente dalla linea politica/religiosa di questo papa sono soprattutto le chiese madri di origine, cioè l’episcopato austriaco e tedesco.

La Curia romana può pure stringersi attorno al pontefice in una formale difesa, ma non può cancellare, o seppellire, il contrasto che serpeggia ovunque e che fa ritenere, ai più, questo papa non solo incapace di reggere la Chiesa, bensì di concepirla nella realtà odierna di Popolo in cammino.

Due sono le controverse mosse di Ratzinger.

La prima di accompagnare l’uscita di un suo libro con l’invito a criticarlo se non si fosse d’accordo con il testo, perché il pensiero papale non è un … obbligo di fede; la seconda la concessione del “mutu proprio”, che in parte contrasta con le direttive del Vaticano II°.

Le due mosse vanno a braccetto; e se da una parte la prima appare come una concessione di libertà di giudizio improprio, la seconda spiana, grazie alla prima, la strada al dissidio interno.

La lettera è indirizzata all’episcopato e non è un caso: la gerarchia pastorale è divisa su come condurre la Chiesa e orientare il proprio operare.

Il Vaticano II°, come annotò K. Häbsburg, diede disposizioni alla “truppa” di andare in una direzione; ma questa aveva alcuni generali capaci, ma ufficiali e sottufficiali impreparati. Sicché, invece di andare da una parte si andò dall’altra.

Monsignor Lefebvre era al Concilio; ma nonostante tutto non si uniformò alle sue direttive, continuando autonomamente per la sua strada dopo averlo a lungo contestato nel suo svolgersi. E solo Wojtyla lo escluse dalla Chiesa a danno fatto.

Disquisire ora chi aveva ragione e chi torto non ha alcun senso, se non quello di esacerbare gli animi.

L’opera di Misericordia è negli obblighi teologici ecclesiali, anche se ancorata a determinate condizioni pratiche; e, aggiungerei, pure all’opportunità di concederla proprio sovrapponendola all’anniversario del Concilio.

Perciò la questione del negazionismo è solo la causa apparente che ha dato il pretesto a molti vescovi di dissentire pubblicamente dall’operato della Curia romana, proprio perché preceduta dal “mutu proprio”; e il continuo rettificare per cercare di sistemare la scabrosa questione non ha fatto altro che peggiorare la situazione.

Ne è sortito che la Gerarchia ecclesiale ha fatto la figura da “pollo”, come evidenziato dallo stesso Ratzinger con “… Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la convinzione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. …”.

Ciò comporta un’altra problematica importante: se l’efficacia dell’operato papale e ecclesiale sia dovuto alla conoscenza di internet, oppure se all’ispirazione sapienziale dello Pneuma.

Cosa di non poco conto, come si vede.

Tutte queste cause ed effetti a cosa conducono? Al fatto che moltissimi esponenti religiosi siano ancorati ad una concezione monoculturale del loro essere pastori, sia al centro che alla periferia. Lo sconcerto regna sovrano.

La Chiesa con il Concilio ha imboccato una strada giusta aprendo soprattutto al concetto di Persona; ma lo ha fatto, nella pratica, facendo proprio il personalismo cattolico avanzante come moda dominante d’essere credente.

Ciò ha posto al centro la persona che, anziché essere concepita come cellula primaria di una società, è diventata il “centro” della società, pure ecclesiale.

Il Vaticano II° aveva, comunque, riaffermato la dogmatica patristica della centralità di Cristo nella Chiesa. Perciò la Persona si inglobava alla sua importanza e centralità proprio nell’esplicazione della Carità: il concepire nel diritto di esistere dell’altro il dovere del cristiano d’essere Samaritano verso di lui, identificandolo in Cristo per l’amore di Cristo.

Questa centralità conclamata della persona, specie in chi filosoficamente è carente, ha portato a sostituire la Cristologia con il Personalismo, facendolo diventare nella pratica un individualismo egocentrico, tanto al vertice quanto alla base.

Il fedele si è arrogato il diritto, sentendosi centrale, di pensarla a modo suo, svincolando la propria coscienza dai dettami teologici (peraltro nella sostanza ignorati) e sostituendola con la propria sommaria conoscenza. Ciò ha portato al consociativismo e a quello schierarsi interessato che in Italia si è compiuto, in campo religioso, con il voto sul divorzio e sull’aborto.

La grande colpa della Chiesa è proprio stata quella di non comprendere questo processo evolutivo e degenerativo del personalismo, anche se quello laico, anteriore a quello cattolico, aveva generato già il massimalismo e stava instaurando, in campo sociale, i vari fascismi.

Il secondo conflitto mondiale, inoltre, aveva deturpato, con la sua devastazione portata ovunque, la coscienza di molti, tanto che proprio durante la guerra era sorta la filosofia germinale del “Dio è morto”.

Ne consegue che la stessa Gerarchia abbia imboccato un personalismo diverso da quello individualista egocentrico egoista del fedele, sfociando nell’individualismo integralista, perciò nel riaffermare la preminenza gerarchica in base sia all’illuminazione divina dello Pneuma, sia alla conoscenza della sapienza patristica su cui poggiano i dettami della fede.

Si sono creati due mondi non comunicanti, anche perché la scienza e il benessere hanno confinato il concetto di “penitenza” (non intesa solo quale confessione) come pratica superflua al vivere asociale.

La Chiesa nel secolo scorso, inoltre come nei precedenti, pur condannando apertamente la guerra ha permesso che le varie chiese locali affiancassero i regimi, dando un apparente avallo agli operati nazionali; e pure dopo come in alcuni paesi comunisti o nei dittatoriali latino americani.

La conseguenza pratica è che le varie chiese nazionali hanno proceduto su piani complanari e su rette sghembe che mal si accordarono alla centralità universale della Chiesa stessa.

Ne è sortita una metastasi culturale del cattolicesimo e i medici, i Pastori, non solo non hanno saputo curare la malattia, ma non l’hanno neppure individuata e riconosciuta.

Perciò il malato, il fedele del personalismo degenerato, è deceduto nella dissociazione sistematica della dottrina teologica, infatuandosi dietro il saccente decisionismo della propria coscienza basata su una cultura carente e dettata dall’egocentrismo. Cosa che non è avvenuta solo in ambito religioso, bensì anche nel sociale con il pretendere sempre diritti e relegando il dovere agli altri.

Ratzinger, citando il brano di Gal 5,13-15, pone all’attenzione dei confratelli Pastori, con una serie comparativa di domande retoriche, il problema del “cannibalismo” cattolico, specie nella stessa Gerarchia.

In verità tale pratica è dovuta proprio a quel personalismo che rende autonomo ogni vescovo, vincolandolo alla propria coscienza anziché alla dottrina.

La Chiesa, come sottolineavo in altri articoli, dovrebbe essere una perfetta democrazia teosofica; ma questo non può avvenire con il personalismo individualista, ma solo con la centralità di Cristo come vera e totale essenza di Persona umana e divina.

E il relativismo, perché proprio questa vicenda lo evidenzia anche in seno alla stessa Chiesa, non si combatte nell’arroccarsi nell’individualismo settario integralista, ma nel saper comunicare, tanto al pastore quanto al fedele, la bontà, l’essenzialità e l’utilità della buona novella.

Il porsi al servizio del Prossimo, e non l’essere serviti, è la base ineludibile per iniziare un dialogo.

Tuttavia, se si procede con la concezione personale integralista del “contare molto[3] rispetto al prossimo, allora si diventa unicamente serviti e non servitori, fallendo il proprio ministero.

Con questa lettera Ratzinger va idealmente a Canossa.

Oltre a Matilde chi ci troverà per essere assolto e ricevere il perdono?

Forse l’imperatore?

Era, allora, il 28 gennaio 1077; all’incirca mille anni fa. E oltre alla contessa Matilde, che non era proprio uno stinco di santa, gli interpreti erano Enrico IV e Gregorio VII.

Ora i tempi sono cambiati e pure gli attori, anche se la situazione ha molte analogie, anche se invertite.

Si spera solo che, per avere l’epilogo positivo, non si debba attendere a lungo come in quei tempi, quando la pace fu siglata nel 1111 per la soddisfazione di tutti i contendenti.

Perché allora, se ciò avverrà, della Chiesa forse esisteranno solo le pietre, quale responso storico di un tempo che fu.




[1] - Benedetto XVI

[2] - Giovanni Paolo II

[3] - Basta riandare ad alcuni discorsi di Giovanni Paolo II

sabato 7 marzo 2009

Vi sono ancora i Liberi e Forti?

Circa un secolo fa veniva lanciato questo appello ai cattolici di buona volontà:

A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà. [1]

I concetti di Patria, giustizia e libertà allora avevano un significato assai diverso da quello odierno.

Quello di Liberi e Forti, volendo, dovrebbe essere ancora inalterato; ma quello che, purtroppo, non lo è più, e che non si vedono più in giro gli uomini di quello stampo e, per la precisione, neppure molti religiosi nella gerarchia ecclesiastica.

Me lo faceva rilevare un amico, ex cattedratico di lungo corso, poco tempo fa in una sua mail a proposito del Card. Carlo Maria Martini, a cui, per inciso, va il mio caloroso incitamento e la mia totale amichevole fratellanza morale in questo grave momento di dolore, che restringe, ogni giorno di più, il suo già precario stato di salute per l’avanzare dell’età e della malattia.

Guardando attentamente, i gruppuscoli “popolari” sono numerosissimi ovunque nella nostra società, ma hanno il grave difetto d’essere schierati a testuggine intorno ad uno, o poco più, personaggi politici che viaggiano nella terza età.

Vi sono, è vero, anche altri più giovani, intenti a formare il loro nido politico dopo essersi sganciati dal proprio raggruppamento parlamentare in attesa dell’opportuno migrare in un altro, così tanto per salvare la faccia.

Quanti sono è difficile dirlo, ma se li cataloghiamo in una centuria non siamo tanto lontani del vero.

Questa frammentazione politica da dove trae le sue origini, considerando che sono soprattutto a matrice cristiana e che, ciò nonostante, non riescono ad aggregarsi per sostanziali modalità di intendere e di concepire la politica?

La risposta è ovvia e deprimente: i principi e i valori che tutti propugnano hanno, in ogni gruppo, un significato diverso, per lo più perché il loro concentrarsi è dovuto ad interessi settoriali contrastanti.

Abbiamo i popolari del PD, quelli del PDL, quelli dell’UDC e le innumerevoli forze minori facenti riferimento o a politici non militanti nei gruppi principali, o a ex parlamentari della vecchia DC, o, infine, a formazioni cattoliche di tipo paraecclesiale o sindacale.

Non solo: nei vari raggruppamenti parlamentari vi sono correnti disomogenee nello stesso intendere principi e valori.

Ciò significa che l’ideale religioso e sociale che li guida non ha né la stessa causa, né la stessa finalità.

Non per nulla, nel mio ultimo articolo “La concezione personalista.”, esprimevo la mia contrarietà al personalismo religioso[2], specie quando si trasforma, inevitabilmente, in individualismo egocentrico, considerandolo una deviazione esistenziale filosofica. Ne, a questa degenerazione, sfugge la Chiesa, la quale pone al vertice una concezione del personalismo ancora più dannosa, perché tende a diventare fenomenologica relativistica ancorata al solo intendere del vertice gerarchico: l’integralismo personalista!

Ciò che contraddistingue, all’analista, queste forze, di personalismo religioso, attive nel campo sociale è l’assoluta incapacità di proporre, perciò di saper creare un dettagliato piano civile alternativo al sistema attuale, di cui, invero, ce ne sarebbe estremo bisogno e non solo per la grave recessione in atto.

La loro caratteristica è solo quella di contestare l’operato altrui, di dissentire da ogni iniziativa, specie se governativa, e di reclamare diritti e assistenza sociale senza inglobarla nel sistema economico nazionale.

Ne consegue che se a livello ecclesiale, al vertice, si sfonda nel campo dell’integralismo personalista, in quello civile si defluisce nel settarismo corporativo, prospettando solo insignificanti palliativi settoriali scorporati dal contesto.

Vi è recessione e disoccupazione? Bene: diamo il sussidio di disoccupazione come vi è la cassa CIG per i lavoratori; poi il sostegno alle famiglie, alle aziende e via di questo passo finché … la cuccagna dura, perché è ovvio che per fare tutte queste belle cose ci voglia ricchezza e non ingenti debiti come noi abbiamo. Ma noi, non siamo forse il paese di Bengodi o di Pulcinella dove il problema si risolve sempre estraendo il coniglio dal cappello della finanza pubblica?

In verità nel cappello ci dovrebbe stare la “testa” e non il coniglio, ma alcuni non l’hanno ancora capito.

In “L'estinzione dei dinosauri.” ho trattato espressamente dell’incapacità di questi gruppi di saper proporre progetti completi e dettagliati, e del limitarsi solo alla declamazione di principi generali, propria del personalismo.

Il convegno di Todi, per quel poco che con fatica sono riuscito a racimolare, è la pratica attuazione di questa mera realtà operativa: il non saper costruire insieme perché si antepone l’interesse alla necessità.

E se alcuni volevano fare passi in avanti verso una costituente, altri si sono affrettati a dichiarare che bisogna aspettare tempi migliori, perché le attrattive di molti sono contrastanti e costringerebbero non a un passo indietro di tutti, ma a molti di più.[3]

Ciò significa che il tanto decantato e sbandierato Bene comune è solo un concetto astratto presente sì nel lessico politico, ma inesistente nella realtà, soppiantato dall’interesse individuale che vede il politico di professione lottare strenuamente per la difesa della posizione acquisita.

Sicché, stando così le cose, continueremo ad avere tanti Cicciobello arroccati intorno ai loro privilegi.

Tutto ciò, tuttavia, non è solo il frutto del nostro tempo se si ricorda come, cinicamente, le correnti minoritarie della DC sapevano affossare un governo con i franchi tiratori ogni circa sei mesi.

Perciò non vi è nulla di strano se i “seguaci” rimasti pratichino ancor oggi i loro giochetti di potere.

Il Governo attuale ha enormi difficoltà e pure limiti. Ma in tale situazione la contrapposizione frontale e il solo dissentire sempre non sono indicati. Serve costruire insieme; perché insieme si uscirà da questa drammatica situazione o si naufragherà tutti.

Ovviamente per costruire non vi è bisogno di appoggiare il Governo che ha già una solida maggioranza. Serve, però, il saper ideare e proporre un sistema sociale alternativo completo, o correttivi importanti in grado di farci uscire dalla recessione.

E bisogna farlo non erigendo barricate ideologiche, ma nell’offrire la propria competenza e professionalità nell’umiltà del servizio.

Si costruisce sempre nel confrontarsi costruttivamente!

Un accenno a parte merita la Costituente, ormai non più rinviabile a tempi migliori.

Una forza politica emergente e attiva deve saper trovare nella sua base, più che al vertice, le forze sane atte a produrre un nuovo soggetto omogeneo, produttivo e utile alla società.

Se ci guardiamo attorno vediamo tanti credenti che occupano posti importanti con mansioni direttive nella società: università, pubblica amministrazione, economia, finanza, industria, commercio, ordini professionali …

E pare impossibile che tra tutti questi non si possano trovare alcuni uomini capaci di saper costruire insieme qualcosa di nuovo, di positivo e di molto importante per il futuro.

Pure tra la base di molti gruppi popolari vedo delle persone preparate e valide, non solo tra la nuova generazione, ma anche tra la vecchia guardia politica che, pur con degli sbagli, ha saputo reggere per anni il Paese.

E anche nel tuo piccolo movimento, che tante aspettative ha inizialmente prodotto, vedo persone assai utili alla causa, anche se alcune demoralizzate dagli eventi e dal continuo procrastinare.

L’esperienza di alcuni e l’entusiasmo di altri può essere il mix giusto per implementare un nuovo soggetto politico importante.

La Lega è radicata sul territorio e nelle valli e fa la sua fortuna (anche alle prossime vicine elezioni lo sarà) col privilegiare, innanzitutto, la società esistente nella solidarietà strutturale del territorio.

La sua è una degenerazione pratica e pragmatica del personalismo religioso, ormai laico, che fa della solidarietà e del consociativismo spicciolo nelle varie realtà territoriali, anche se a carattere egoistico.

Purtroppo attrae una grande massa di persone da opposti schieramenti, tant’è che Cacciari e Chiamparino, non due qualsiasi, se ne sono accorti bene. Piaccia o non piaccia con il loro asserragliarsi in comunità danno una risposta, forse falsa e provvisoria, alle aspettative ansiolitiche della gente. E gli slogan “Prima i nostri e poi gli altri” non possono essere eticamente né contestati, né demonizzati come razzismo, perché è la regola prima esistenziale di ogni comunità.

Il Cattolicesimo, quello ancora sano e impegnato nella società e nel volontariato, non può più stare inerte a guardare la nave che affonda: deve reagire e riprendere il suo cammino sulla base di quei Principi e Valori che altri stanno usurpando e snaturando nel significato.

La Carità si basa anche sulla solidarietà; in quella compartecipazione sociale che è capace di offrire all’altro non solo un perbenismo di facciata, ma quell’aiuto a camminare e a crescere insieme che rende forte e autonoma una comunità.

Todi, Savino, forse ha indicato, più che un inizio, un capolinea terminale politico: un modo errato di intendere la militanza politica come professione invece che donazione.

Tra tanti arrivisti, pur con tutti i tuoi limiti oggettivi, sei uno dei pochi che è lì (in Parlamento) al servizio della comunità, senza altro interesse specifico. Non sei un carrierista!

Il tuo compito, ora, è quello di fare la tua strada con chi vuole costruire e non con chi vuole solo “conservare”.

Guardati attorno e vedrai tanti capaci e vogliosi di edificare insieme qualcosa di importante, magari anche sconosciuti, ma comunque altamente motivati. Aspettano solo che qualcuno si muova coagulando attorno a sé il seme germinale e fecondo di un grande albero futuro.

Sturzo non partì con un esercito pronto, ma con un manipolo di volenterosi. Le cose grandi si costruiscono dal poco, ma soprattutto con la dedizione e l’intuito della potenzialità futura.

Che poi la Dc sia degenerata questo non è addebitabile a Sturzo, ma a chi ha fatto diventare il partito un lupanario di potere.

Ci attendono non mesi, ma anni difficili prima di ricreare un nuovo benessere.

L’industria e il commercio si stanno fermando totalmente e il volano delle opere pubbliche necessita di tempo per rimettere in moto l’economia.

La CIG, in febbraio, è esplosa in Europa e molte aziende, anche italiane, sono sull’orlo del default; se ciò avverrà, il sistema finanziario, che in Italia finora, bene o male, ha retto, salterà come in America con un devastante effetto domino.

E la CIG, spiace dirlo, si dilaterà ulteriormente nei prossimi mesi.

Non ero entusiasta degli ecoincentivi alla rottamazione delle auto, specie se solo fine a sé stessi. E il mercato ha dimostrato che il trend del settore permane, perché senza reddito è impossibile spendere.

Serve lungimiranza, sacrificio, dedizione, parsimonia e … immensa tenacia.

Credo che uscire da una logica personalista, anche se di derivazione (positiva) sindacale “cislina” sia necessario, perché le problematiche sul tappeto non sono solo di tipo conflittuale aziendale, ma di tutto il sistema sociale.

E le prossime elezioni non debbono essere interpretate come una causa sine qua procedere, perché non è con un paio di deputati in Europa che si risolveranno i problemi.

Il mio non è un proclama alla Sturzo, ma solo un invito operativo che si leva da molte parti.

Serve una nuova società e i capaci non bisogna aspettare che aderiscano, ma serve soprattutto radunarli. Poi, quando il seme si espande, la pianta cresce da sé.

È possibile: basta crederci!

A meno che, invece dei Liberi e Forti, vi siano solo tanti conigli Cicciobello tremebondi per la recessione e incapaci di saper costruire nel sano pragmatismo cristiano, nonostante le tante qualifiche professionali poste davanti al loro nome quale fiore all’occhiello.

Credo che ora sia possibile e necessario attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, e sviluppare le energie spirituali e materiali di tutti.




[1] - 18 Gennaio 1919 - Commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano – Appello: Liberi e ai Forti.

[2] - Specie a quello di Mounier e Maritain, assai diverso da quello originale socratico/aristotelico.

[3] - Il concetto pratico era questo anche se le parole no.

martedì 3 marzo 2009

La concezione personalista.

Dopo aver pensato e … viaggiato, cerco di darti una risposta.

Ovviamente è positiva; perciò mi cimenterò in un ruolo per me inusuale: il contradditorio costruttivo!

Vorrei partire, per questa volta, onde avere un vantaggio discorsivo, dal tuo ultimo testo “Il ritorno.”.

Tu, Kärl, non sei un personalista e neppure un individualista: sei indefinibile e senza punti precisi di riferimento, fuori dalle comuni dimensioni geometriche e temporali.

Ciononostante esponi problematiche che si rifanno al personalismo, quindi basando il tuo discorso (nel post) sulla preminenza della Persona sullo Stato e pertanto, di riflesso, anche sull’autoritarismo, che non è necessariamente identificabile con la sua degenerazione, cioè il totalitarismo.

Non ho mai apprezzato molto il personalismo, perché questo, come ben sai (e non lo dico per insegnartelo – me ne guarderei bene) è nato in un momento buio della storia, ed esattamente proprio in concomitanza alla grande recessione del ’29. Era la risposta del pensiero cattolico, ancora incompleto, ai fascismi.

Ne parlo appunto perché tu inquadri il discorso sulla situazione attuale, legandola alla crisi di valori e principi e sottolineando che Dobbiamo operare per costruire una nuova società e non sulle regole, ma sulla comprensione etica che il rispetto delle stesse è fondamentale per procedere.

Per fare ciò abbisogna non tanto cambiare i principi e i valori che i nostri avi ci hanno tramandato, bensì il recuperare la loro essenza in consonanza agli impegni che stiamo vivendo.

I valori e i principi sono, infatti, universali, pur dovendo essere adattati ai tempi..

Tutto ciò, credo, porta alla filosofia del personalismo, prettamente cattolica, tant’è che sia Wojtyla che Ratzinger possono essere catalogati come papi personalisti, anche se fenomenologici e con diversità importanti tra loro.

So, tuttavia, che il tuo pensare non è da credente, ma unicamente da multiculturale, traendo il meglio dalla capacità universale di comprendere appieno le culture nel legame con le esigenze.

In via teorica posso condividere l’impostazione del tuo pensiero, ma non le sfaccettature dominanti che la contraddistinguono.

Una cultura, come tu affermavi anni fa (cito a memoria parafrasando, e mi scuso se sarò imperfetto nella terminologia), non può mai essere vincolata e veicolata al contingente, perché questo la imprigiona in una struttura che la riduce a necessità sillogistica. Essa è universale nei principi, ma non nei valori che sono diversi nel relazionarsi ad ogni civiltà.

Il personalismo, in verità, trae la sua origine come diramazione esistenziale fideista della fenomenologia hegeliana e già Marx e Kierkegaard sono personalisti, anche se vanno su strade diverse.

Il vero personalismo, a mio parere, nasce tuttavia nella centralità platonica, quindi nella dialettica greca. I Dialoghi di Socrate, scritti da Platone, si basano sul “conosci te stesso”, perciò sulla centralità dell’essenza di persona rispetto al circostante. La conoscenza interiore necessaria e basilare per comprendere e relazionarsi all’esistente!

Il Cristianesimo[1] porta questa definizione verso l’individualismo egocentrico, ponendo l’uomo come creato dell’Essere supremo, Dio quasi personale che dona la libertà totale anche di peccare.

Ovviamente riconosco la peculiarità della persona libera e creatrice, ma non quella della sua centralità propria del personalismo cristiano e dell’attuale cultura teologica, che la pone come valore assoluto.

Un valore assoluto, infatti, rende il concetto di Uomo/Persona come individualismo egocentrico; ed è appunto in parte una negazione escatologica e ontologica dell’Essere, vincolandolo al creatore che è solo teorico e indimostrabile, dipendendo dal concetto di fede.

In pratica viene a mancare la logica del sillogismo, come Häbsburg[2] dimostrò perfettamente demolendo il divenire hegeliano dell’Essente, collegato all’A = A e derivazioni.

E. Mounier, a proposito, afferma:

Il personalismosvolge un ruolo preciso contrapponendosi a tutto ciò che si oppone alla realizzazione del compito personale. Si caratterizzacome “anti-ideologia”. L’ideologia è la controfigura della personail personalismo è un’aspirazione speculativa, una direzione intenzionale del pensiero fortemente connessa con l’attività pratica e a spiccato rilievo esistenziale.[3]

Considerato tutto ciò preferisco il personalismo socratico/aristotelico a quello cristiano, perché considera l’uomo una monade[4] sociale che deve relazionarsi agli altri monadi/persone nel rispetto della libertà di una legge basata sì su valori universali, ma appunto per questo democratici e contingenti alla cultura e all’esigenza.

L’uomo, pertanto, non ha la libertà di peccare, perché questa libertà è una degenerazione sia del suo essere persona sia della società.

Il concetto che si pecca contro Dio è relativo, giacché non si pecca mai contro un’ipotesi esistenziale escatologica, ma solo contro il creato, altrimenti il tutto può essere condotto al nichilismo massimalista e giustificando il totalitarismo come necessario all’uguaglianza. E a nulla vale l’esistenza della Bontà/Misericordia divina che perdona nel suo grande amore, perché ciò crea un conflitto con la giustizia.

Il detto luterano “pecca fortius, ama fortiter” è il personalismo individualista egocentrico esasperato per eccellenza, perciò la negazione stessa sia dell’uomo, sia di Dio.

La società, e pure la Chiesa, si basa su regole, quindi su leggi che si ispirano a Principi e Valori che sono universali solo se catalogati in una determinata cultura, quindi ideologia. Devono essere recepiti, compresi e condivisi per esserlo.

Lo stesso Cristianesimo è un’ideologia del vivere sociale e questo è il primo grande limite non del personalismo socratico/aristotelico, ma di quello cristiano di Mounier e Maritain. Si rischia di ridurre tutto al fenomenologico e all’egocentrismo individuale puro.

La società è un insieme di Persone che dovrebbero essere in teoria paritetiche, anche se nella realtà non lo sono per differenze sostanziali di stato, capacità e potenza.

Non può esistere un’anti-ideologia, perché o questa è la negazione dell’ideologia, quindi il suo contrario, oppure è un’ideologia essa stessa.

Il pensiero di Mounier è, pertanto, viziato all’origine e un controsenso esistenziale, proprio perché pone nella centralità dell’uomo un’ideologia specifica. È un sillogismo logico apparente che contrasta, nel suo errore d’impostazione, con la logica del sillogismo.

I Principi e Valori sono universali relativi; diventano assoluti se inglobati in uno specifico mondo.

Ne consegue che l’uguaglianza del diritto alla centralità della Persona rispetto allo Stato deriva dal fatto che lo Stato è un insieme di persone, le quali, nel rapportarsi volontariamente, creano unione, quindi forza. E questa forza dà ad un essente giuridico – lo Stato – il valore di persona giuridica, appunto perché scaturisce da una legge che si basa su un valore, che è pure un principio, di necistà organizzativa ed esistenziale.

Mi pare di comprendere appieno il tuo discorso se inquadrato in questo modo.

Allora “Il diritto non è un bene inalienabile, bensì la conseguenza del dovere: il diritto nasce dal dovere del rispetto reciproco.” assurge a quella realtà di Principio condiviso, perciò di Valore universale che nel “recuperare la loro essenza in consonanza agli impegni che stiamo vivendo” si richiama alla continuità dei concetti, pur nella correzione sistematica del nostro intenderli.

La nostra è una società basata su una cultura cristiana; ma la degenerazione del rapportarsi sociale ha affossato i principi e i valori condivisi in una corsa al benessere dettato dal consumismo.

La “ricchezza[5] la si gode e la si percepisce appieno solo se la si condivide con altri, altrimenti diventa un’ossessione personale che ci rende oggetti di un concetto astratto.

Ed è proprio su questo principio che si instaura l’uguaglianza nella diversità, tramite il relazionarsi nella condivisione ideologica.

Ed è su questo, se ho ben interpretato il tuo pensiero, che bisogna lavorare per costruire una società che non è vittima della recessione, ma solo di sé stessa e di quel personalismo esasperato che è diventato individualismo egocentrico.




[1] - Più del Cristianesimo il Cattolicesimo.

[2] - Sociologia, filosofia ed etica nel nostro tempo - 1984

[3] - Le personnalisme - 1949

[4] - Concezione dei pitagorici e di Leibniz, quindi assimilabile al concetto di “anima” nell’unione col corpo.

[5] - Non solo quella venale.