martedì 28 maggio 2013

La velocità in filosofia nel paradosso di Zenone.


Uno tra i miei articoli più visionati anche tutt’oggi è La velocità in filosofia.
Tempo fa un docente di filosofia, considerato che molti suoi studenti seguivano i miei articoli filosofici, mi invitò ad ampliare il discorso collegandolo alla filosofia presocratica, perciò in modo particolare a Zenone di Elea, inventore della dialettica e dei sofismi basati sul paradosso.

Zenone di Elea visse in quel Sud Italia che allora era una colonia greca. Secondo la tradizione Zenone fu l’amante di Parmenide e nello stesso tempo suo figlio adottivo, chiaro esempio di omosessualità classica del mondo ellenico specie nelle classi intellettuali e agiate.
Di lui non ci è giunto nulla; ciò che si sa si basa su citazioni di altri scrittori e in modo particolare di Aristotele, di Platone (che riferisce della sua visita ad Atene con il maestro Parmenide per le Grandi Panatenee), di Plutarco, di Diogene Laerzio. Per citare solo i maggiori.
Non è da confondersi con il suo omonimo Zenone di Cizio (Cipro), padre dello stoicismo e vissuto un secolo dopo.

La sua concezione della velocità è un topico della filosofia classica, solo in parte corretto più tardi da Aristotele. Si basa su una sequenza di sillogismi logici dialettici ricorrenti che fanno riferimento solo però a 2 semplici “punti geometrici” (filosofici) di riferimento: la distanza e la velocità. La prima reale, la seconda fittizia – secondo Zenone -; perciò la velocità diventa una semplice esperienza sensibile che diventa un concetto.
Il ragionamento è noto. La freccia prima di raggiungere il suo obbiettivo deve raggiungere necessariamente la metà della distanza; prima ancora di questa metà deve raggiungere la metà della metà, in un continuo dimezzamento della distanza che porta alla fine quasi a zero. Dialetticamente, secondo questo fine ragionamento, la freccia resterebbe immobile.
Aristotele corresse questa deduzione dialettica affermando che in realtà il movimento/velocità è un insieme di punti distanti solo in potenza, ma non in atto. In atto il tempo e la distanza formano un tutt’uno, di punti non distinti tra loro. In pratica Aristotele afferma che essendo la retta una successione di punti, questa diventa filosoficamente un tutt’uno inscindibile anche nel percorrerla (tempo).

Tuttavia, né Aristotele, né Zenone sono nel giusto.
Se capovolgiamo il ragionamento sillogistico di Zenone -  la freccia prima percorre la metà del percorso, poi il ¾, e … via di seguito – si giungerebbe alla conclusione che la freccia si avvicina continuamente al bersaglio, ma non lo raggiunge mai. Entrerebbe perciò in un moto perpetuo infinito, senza tuttavia raggiungere mai la meta; proprio come col ragionamento opposto non si muove mai dal punto di partenza.
Perciò la retta teorica tra l’arco e il bersaglio entra nei 2 ragionamenti (contrapposti) in una successione infinita di punti, che appunto perché infiniti sono anche divisibili.
La retta, tuttavia, ha una distanza precisa definita; ergo: è divisibile ma solo nelle sue parti. Ne consegue che la sua divisione ha un limite, non essendo infinita.
La freccia, perciò, parte da un punto e arriva in un altro.
Se Zenone afferma il contrario lo può fare, offrendosi però come bersaglio. In questo modo il dolore e la ferita gli dimostrerebbero il contrario.

Demolire il discorso di Zenone, al di là dell’usare le leggi fisiche, lo si può anche dialetticamente usando la logica.
Infatti - se ammettiamo che Zenone abbia prodotto questo ragionamento a 40 anni - in pratica per il suo stesso sistema dialettico il ragionamento non esisterebbe. Prima sarebbe dovuto arrivare a 20 anni, ma prima ancora a 10, ancor prima a 5 e sempre dimezzando non … sarebbe mai nato. Perciò non esistendo, ed essendo solo una percezione, non potrebbe produrre un ragionamento. Ne consegue che la freccia non potrebbe colpire ciò che non esiste, né il filosofo poter fare un ragionamento.
Ciò porta i ragionamenti quasi ad una visione onirica, sperduti tra i fumi della nevrosi intellettuale esasperata, propria dei sofismi presocratici.

I ragionamenti/paradossi di Zenone – si ricorda anche quello sullo stadio e su Achille e la Tartaruga – sono da inglobarsi nel tempo, perciò nella concezione che si andava delineando sull’escatologia dell’Essere (ontologia dell’Essere) – immutabilità o molteplicità –, con scontri dialettici accaniti tra le opposte tendenze: presocratici sofisti, pitagorici, Anassagora (semi, spermata in greco, omeomerie per Aristotele) e Leucippo (atomismo).
Quasi per paradosso questi sofismi sono stati analizzati e presi in seria considerazione, specie dai matematici, sia in quel tempo dai pitagorici, intenti a demolirli, sia molto più tardi dai matematici illuministi. Tanto da portare Bertrand Russell ad affermare che questi formano la base della rinascita della matematica.

I filosofi antichi procedevano per lo più su teoremi induttivi o pratici.
Solo con Aristotele (Fisica) si comincia ad inglobare il rapporto tra i vari “punti geometrici” filosofici nella loro complessità, anche se ancora nella superficialità per la carenza quasi assoluta di vere cognizioni scientifiche.
Tuttavia le varie considerazioni tendono a esaminare non solo pochi punti fermi – in Zenone i 2 punti estremi della linea del percorso -, ma anche altri fattori come: tempo, spazio, forza, risultato reale.
Perciò si può ragionevolmente concludere che i sofismi di Zenone – tesi a difendere la concezione sulla staticità dell’Essere di Parmenide – hanno prodotto in circa un secolo di serrati e feroci dibattiti le basi della filosofia aristotelica, perciò pure scolastica.

Il ragionamento, come la freccia, ha una velocità: quella della Storia.
Con questa l’evolversi del ragionamento segue prima la conoscenza, quindi la scienza, infine la definizione. Che però è sempre parziale e ulteriormente perfettibile.
Il ragionamento viene prodotto dalla conoscenza, che si basa sull’esperienza precedente. La ricerca porta alla scienza, approfondendo la quale si giunge ad una maggiore definizione o dell’argomento o della sapienza.
Perciò dalla staticità di Zenone si passa all’atomismo di Leucippo, per giungere alla divisibilità dell’atomo (bomba H o energia nucleare) e ai nano elementi dell’atomo stesso.
Ovvio che, seguendo Zenone, si possa giungere erroneamente alla staticità, pur continuando a dividere e a trovare il diviso.
E questa staticità è forse riassumibile in una basilare legge fisica di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Però, proprio perché si trasforma, dimostra la realtà della velocità: quella negata argutamente e finemente da Zenone di Elea.

domenica 5 maggio 2013

Faggio.


Faggio, che il tuo splendor sul monte prorompi,
sopra i bruniti castagni e candidi ciliegi in fiore,
che nel lago ritagli capovolto il verde smeraldo,
che di morbida fronda cingi il bosco montano.

Amato Faggio, che il vento non ti può sradicare,
che sempre in vagabondar mi accompagni beato,
qual silente chiocciola perenne mi segui lontano,
mi ricordi il presente, il passato e pure l’amato.

Il maggiociondolo disegna il suo oro ai tuoi lati,
mentre il cuculo canta la sua nenia ai tuoi rami,
e la cornacchia stride felice al tuo forte braccio
che possente cinge e protegge il suo focolare.

Faggio, trabocchi con gioia gustando tuo maggio,
che felice arreda natura di grande tepore e colore,
mentre il cervo lascia il suo palco per uno nuovo
e il capriolo lo guarda sfregarsi stupito nel noce.

Dalla Cascina ti ammiro, felice, dall’alto appagato,
mentre riposo ripenso al perché d’una vita operosa,
che gioie e dolori elargisce nel suo scorrere lento
verso un futuro e una vita ch’è ancora occultata.

Ohhohh, Faggio, che la frescura d’estate mi doni
mentre passeggio nel bosco cercando il porcino,
mentre ora la rossa peonia proteggi ai tuoi piedi
che leggiadra impreziosisce il tuo placido stare.

Ti scruto, t’ammiro, t’invidio! D’inverno ti bramo
quando la casa mi riscaldi col tuo robusto vigore,
mentre rade foglie rossicce ammiccano al monte
che dorme tra candida neve e muto stupore.

La gialla e verde ginestra silente ti fa compagnia
osservando il cinghiale che ruvido cerca radici,
felice del sole e dell’acqua che irroran natura
mentr’io ti scruto al riparo del mio porticato.

La tua morbida, folta e lucente chioma ombrosa
cinge i nervosi fianchi del monte e li fa sinuosi.
Tu li intagli, scolpisci e modelli come un’amata
che il corpo nell’intimo talamo rende radiosa.