venerdì 24 dicembre 2010

Natale 2010

Natale 2010 con la … Sla.

Premessa

Nella tarda primavera un amico non tanto anziano – che non ha famiglia - comincia a faticare a reggersi in piedi a lungo. Non sente dolore, ma grande debolezza negli arti inferiori per cui deve spesso sedersi.

Inquadro la sua disfunzione momentanea in un’acuta mialgia; ma poi noto che questa, nonostante le cure, accentua i propri disturbi.

Nel camminare un giorno non “vede” un piccolo gradino e cade malamente inciampando. Lui afferma che non l’ha notato anche se sapeva perfettamente che c’era. E la cosa mi preoccupa.

Non sono medico; ma mi basta per indirizzarlo verso un conoscente, dotto professionista nella neurochirurgia spinale. Il mio sospetto è che dietro questi sintomi vi sia la terribile Sla.

Ovviamente, seguendo le indicazioni del suo medico, fa un’altra trafila diagnostica, anche se, ai fini pratici, una diagnosi immediata avrebbe cambiato poco l’essenza delle cose.

Dopo un paio di mesi, circa a metà agosto, una mattina deve gettare la spugna non riuscendo più a reggersi, anche perché lo sforzo gli produce oltre ad una spossante prostrazione fisica dei forti dolori che non si manifestano quando sta disteso o in assoluto riposo.

E qua comincia il suo calvario in un letto d’ospedale.

Ora, a pochi mesi di distanza, ha perso prima l’uso di entrambi gli arti inferiori, poi del braccio sx ed ora sta perdendo pure il dx.

Per girarsi a letto ci devono essere delle persone che lo spostano; e la stessa cosa per metterlo su una sedia a rotelle, per lavarlo e per tutte quelle mansioni che regolano quotidianamente la vita di tutti, compreso l’assumere cibo.

Deve essere assistito per mangiare e bere.

Insomma: una devastazione assoluta.

Ogni settimana, appena posso, passo alcune ore da lui, accanto al suo letto o scorazzandolo su una sedia a rotelle tra i corridoi dell’ospedale se se la sente.

La lingua e il cervello è ancora ciò che gli funziona perfettamente, anche se una bianca bava salivare si nota sempre maggiormente all’estremità sx tra le labbra e la sua voce si affievolisce sempre più. È l’indice dell’avanzante paralisi anche del cavo orale/digestivo. A cui seguirà quella dei polmoni.

Un giorno sono in visita con mia madre e lo rimprovero (positivamente) per il suo lamentarsi perché la lingua e la testa sono sempre buone.

Rivolto a mia madre dice: spero che presto mi vada fuori fase anche quello (cervello), in modo che non capisca più lo stato in cui sono!

È Natale!

Il pronunciarlo, però, ha in tali casi un sapore diverso: non tanto di nascita/speranza, bensì di devastazione/impotenza e di morte.

E ciò mi porta a quell’amico religioso che anni fa mi manifestò[1] la sua riluttanza a concepire compiutamente il sacrificio del Figlio voluto dal Padre nella storia. Religioso oggi devastato dal Parkinson.

La vita spesso è un mistero; e il mistero è una tematica che talora intuiamo, ma che non sappiamo recepire e capire totalmente.

E, come il religioso citato prima, pure noi davanti a queste situazioni vacilliamo ideologicamente sulla finalità del nostro essente.

Ci aggrappiamo talora alla fede; a una fede che davanti all’impossibilità di avere valide e logiche risposte diventa tremebonda e fragile, anche se è tenace.

Perche? Perché proprio a me (o: a lui)?

Lo scorso anno dicevo:

Noi tutti siamo nudi: nudi perché indifesi.[2]

E qual è la nudità maggiore se non quella di non essere autonomi e del dover dipendere in tutto dagli altri anche nei bisogni primari e fondamentali?

L’essere totalmente indifeso!

Dire “Buon Natale” a costoro sembra una beffa, perché percepiscono la loro assoluta impotenza al continuo decadere fisico. E lo sconforto diventa maggiormente atroce quando questo è alimentato dal nostro disinteresse reale, pur manifestando noi quello di circostanza.

Eppure stasera, lasciando l’amico dopo avergli praticato a lungo della fisioterapia riabilitativa mentre si chiacchierava, gli ho detto: “Buon Natale! Ci vediamo domenica.”.

Ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste …” (Mt 25,36).

Spesso l’indifeso bisogna rivestirlo di affetto e l’affetto ad un infermo lo si dimostra visitandolo con continuità, facendo “nascere” in noi l’interesse per lui e in lui l’interesse dell’amorevole considerazione che gli si porta.

L’affetto sincero porta l’infermo a superare con maggior volontà e tenacia le avversità, perché sente al suo fianco delle persone che lo amano e che lo assistono; e che comunque, anche nel deperimento continuo, comprende che lui è importante per noi nel suo esistere: ci dona l’amore di saperlo aiutare, in quella carità fattiva che vede in lui lo stesso Gesù che dona grazia e misericordia anche nel sacrificio di nascere Uomo, prima piccolo e indifeso al freddo di una grotta per morire poi, da grande, sulla croce.

La semantica della croce, unita alla sua criptolalia, esprime perfettamente l’incedere finale umano verso quella fine naturale che noi tutti chiamiamo morte, per distinguerla dall’inizio che denominiamo nascita.

Alfa e omega: che coincidono sempre con il dolore d’entrare in un mondo e di lasciarlo.

Non tutti però sono indifesi nel fisico; alcuni lo sono anche nell’equilibrio psicofisico o nello stress quotidiano dovuto magari a delle problematiche complesse.

E quest’essere nudi spesso sfugge ai più, anche perché il pudore (orgoglio) di ognuno cerca di celare non solo la propria eventuale povertà economica, ma pure quella fisica e mentale.

Il nostro voler sembrare si sovrappone quasi sempre e esattamente con il nostro cercare d’essere: un’aspirazione contrastante alla realtà contingente.

Una realtà che cerchiamo quasi di nascondere e che perciò è molto più difficile da percepire dell’infermità fisica.

L’uomo dei nostri giorni ha sempre meno tempo e spazio per meditare, perciò di pensare a sé stesso e alle sue finalità: una socialità sempre più ristretta che impone la frenesia quasi in ogni nostra azione.

E smarrendo il nostro tempo e spazio perdiamo anche il nostro essere uomo e persona, clonandoci in oggetti che usano altri oggetti in ogni senso: stanze/case sempre più piccole e tempi operativi ridotti che ci portano sempre a dover correre senza lasciarci il tempo di riflettere e di realmente amare.

E da un mondo patriarcale e rurale siamo passati ad uno di comunicazione virtuale in quasi ogni azione che espletiamo nella vita giornaliera: virtuale perché ci pare di condividere e fare, ma che nella realtà isola sempre di più tutto il nostro essere.

L’amore coniugale è diventato, travasandosi, di norma un compito da espletare in 5 minuti alla fine della giornata scambiandolo per il semplice rapporto sessuale; quello per la prole o per il coniuge un servizio che si dà senza poter comunicare e condividere, e quello per i genitori o parenti un disturbo che si vorrebbe delegare ad altri.

In pratica ci appartiamo sempre più senza comunicare e senza dare e ricevere Amore, pretendendo continuamente il diritto e dimenticando il dovere.

Il diritto bisogna meritarselo (conquistarlo); perciò è fortemente congiunto al dovere.

E la tecnologia che inseguiamo ci isola maggiormente, pure alla mensa familiare, con televisori, Pc o telefonini che ci derubano del tempo che dovremmo riservare ad altri nel comunicare: amici, parenti, familiari … bisognosi.

Leone[3] così raccontava:

Mi fermai accanto e gli feci un attimo compagnia. L’uomo era … nudo, ma mi … riscaldava. Io ero vestito, ma non sapevo … riscaldarlo..

Quante volte vediamo la nudità altrui ma non sappiamo riscaldare l’altro e con lui noi stessi, sia che si sia pastore o pecora del gregge?

E, strano mondo, i primi ad accorrere a riscaldare Gesù appena nato furono proprio i pastori con il loro gregge di pecore o di armenti. Almeno così racconta la tradizione.

E nel riscaldarlo infiammarono pure la loro speranza in un futuro migliore, anche se assai nebuloso.

Pastori/uomini semplici che accolsero il tempo (invito) per fare visita al neonato, perché la nascita è l’inizio sempre di qualcosa: della creazione, dell’uomo, del nostro … essere (dedicarci) anche altri nella società.

E col tempo trovarono poi il loro spazio (finalità) nella storia.

È Natale!

lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoiatroverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia (Lc 2,6;12)”.

Un neonato, per sopravvivere, ha bisogno che i genitori si prendano totalmente cura di lui, piccolo essere indifeso.

Si spera che viva, cresca e diventi adulto.

L’ammalato grave è come un neonato nudo: ha bisogno di tutto per poter vivere.

Pure lui spera sempre di poter guarire, di fortificarsi e di esistere ancora, pur nella virulenza del male.

La solidarietà sociale ha creato ospedali, la ricerca tecnologia e medicine, il volontariato personale che assiste in molti casi. Tutto ciò, però, non ci esime dal delegare all’organizzazione sociale la cura del nostro prossimo, perché l’affetto/amore ha bisogno dell’amico e del parente: necessita del calore dell’amore che solo chi ti sta veramente vicino sa dare.

A Natale il consumismo impone i regali, sostituendoli con quelli che dovrebbero essere i doni.

I regali spesso sono superflui e presto vengono accantonati e dimenticati.

Eppure tanto i pastori quanto i Magi portarono dei doni e non dei regali, ognuno in base alla propria possibilità.

Pure il solo visitare è un immenso dono, perché dà a chi lo riceve l’attenzione della sua importanza che lui ha in noi, piccola o grande che sia.

Per l’ammalato e l’infermo la visita è un’immensa gratificazione: egli si sente soggetto nella nostra vita e non oggetto usato finché serviva e poi subito dimenticato.

I pastori dormivano, oppure vegliavano i loro armenti; era notte fonda.

Tuttavia all’annuncio dell’angelo (Lc 2,9-14) si misero in fretta in cammino, non spinti dalla curiosità di accertare la veridicità di quanto a loro detto, ma per dimostrare la loro fede e riconoscenza al Messia da lungo annunciato, in quell’essere presenti nell’anima che è l’accettare la salvezza in condivisione con Dio e con il suo Popolo.

La salvezza non è dovuta alla predestinazione, ma al nostro vivere nella socialità della carità, pure nel condividere con gli altri le debolezze, le difficoltà, le amarezze, il consiglio, le problematiche, il dolore, l’afflizione, lo sconforto, l’infermità … e anche la gioia. Talora pure la morte, perché anche questa è un atto della vita.

È Natale!

E lo è per tutti, perché è speranza di salvezza.

Lo è per chi crede e per chi non crede, specie se la nostra testimonianza saprà dare luce al nostro vivere nel donarci agli altri nelle necessità.

Il dono è una testimonianza e la testimonianza è lo stare accanto a qualcuno, specie se costui soffre o è momentaneamente inerme.

Un neonato è impotente e senza i genitori perirebbe; ma lo è pure l’adulto quando la deficienza fisica lo rende bisognoso dell’aiuto altrui nella sua necistà totale.

E la presenza solidale è calore e conforto, donando a chi la riceve e la dà la speranza in un futuro, anche se la degenerazione fisica è inarrestabile.

La teofania della Natività pone in rilievo l’attenzione che dobbiamo rivolgere all’altro.

I pastori si incamminarono prontamente alla ricerca del bimbo, senza porsi minimamente il quesito se fossero stati accettati o respinti per la loro relativa importanza sociale.

Il possibile “No!” non era un loro problema, perché nell’incamminarsi s’erano già resi disponibili: davano già tutto di loro stessi.

Spesso nella mia vita mi sono trovato davanti ad inghippi procedurali, di norma altrui, per risolvere i quali ho bussato a molte porte, spesso ricevendo anche dei “No!”.

Sono dell’idea che un diniego sia nell’ordine delle cose, nel rispetto dei ruoli e della disponibilità sociale e culturale di ognuno. Ciò non mi ha mai offeso, perché la risposta negativa ha “dimostrato” il valore reale dell’altro: il suo individualismo ed egoismo, oltre che, molto spesso, il suo smisurato orgoglio che gli impediva di mettersi in gioco.

Tuttavia ho sempre preteso che questo diniego fosse motivato, perché l’ho sempre richiesto nella liceità sociale ed etica, oltre che nelle possibilità della persona interpellata. E, astenendomi dal giudicare, ho “capito” le motivazioni altrui, magari non condividendole: cioè il suo essere uomo e persona, diverso culturalmente da me e da chi nel bisogno in quel momento fosse stato.

Se l’aiuto richiesto viene negato, il soggetto interpellato dimostra la sua “socialità” relativa, perciò, per un cristiano, la sua carente carità o disponibilità verso l’altro.

Ne sortisce una personale dicotomia edulcorata: legalmente corretta, moralmente discutibile.

Credo che il dare aiuto a chi è nella difficoltà – e per aiuto ci sta pure il consiglio nel dialogo – sia un dovere sociale del cristiano.

L’aiuto non è solo quello materiale/economico e spazia in ogni campo, specie là dove il soggetto si trova momentaneamente in difficoltà, perciò pure nella malattia invalidante, talora anche psicologica.

Perché quello che ad uno è biologicamente (in forza o in intelletto) negato, può essere consentito ad un altro.

Aiutare è spesso capire, e il capire entrare nella vita altrui, se accettati, dando quell’amore che può essere su gradini diversi: solidarietà, filantropia, carità.

Perché, in ultima analisi, l’uguaglianza è l’essere tutti uguali pur nella diversità che ci contraddistingue. Una diversità che non è mai limitazione, ma valore aggiunto ed equilibrio in una società evoluta, anche e soprattutto nella malattia.

A te, caro amico con la Sla e ormai totalmente inabile

e pure a te, caro religioso devastato dal Parkinson

e anche a tutti voi che mi seguite da tempo

vada il mio sentito e sincero

Buon e felice Natale 2010!

mercoledì 15 dicembre 2010

La rana e il bue.

Oggi, casualmente, trovai Sesac da un comune amico; mi consegnò questo breve racconto che pubblico assai volentieri.

Tratta, come sempre, della vita degli animali e della foresta.

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

La rana e il bue.

Io, Sesac, mi recai nella tana di Leone per i dovuti auguri per le prossime festività.

Portai con me un piccolo dono per ringraziarlo dell’affetto e dell’amicizia sempre dimostratami. Dono che accolse gioioso e che ricambiò con un piccolo favore.

Vi trovai alcuni animali andati da lui in visita con il mio stesso fine.

Stavano amabilmente discutendo sull’esito dello scontro avvenuto nella Dieta di Roncaglia, provocato da Rana e Bordello.

Leone era di buon umore e aveva preso i fatti accaduti con il suo abituale humor; volendo essere preciso dovrei dire che l’esito lo aveva assai divertito e appagato perché - come diceva - chi è idiota nella teoria degli insiemi non può far altro che fare calcoli preconcetti sulla semplice matematica di base, usando il pallottoliere, e sbagliando ignorando la realtà dei numeri, non sapendo fare altro e non avendo alcuna strategia supplementare.

Infine disse:

Gli sconfitti non hanno imparato nulla perché badano solo al loro tornaconto e non a quello della foresta. Basta vedere cosa stanno combinando in questi momenti nonostante la grave crisi e la speculazione che assale i mercati mobiliari.

Hanno costituito un asse basato non su un programma e su un progetto di una nuova società della foresta, cosa per loro inimmaginabile, ma solo sull’odio verso qualcuno. Infatti, nella foresta si vedono già lampanti i semi della zizzania sociale a piene mani seminata.

Perciò, come è avvenuto nei giorni scorsi, chi ha solo un’idea non va molto lontano.

A loro dedico tra la danza delle api sulla corolla della margherita, che come si sa vivono poco tempo, questa antica novella sapienziale:

Inops, potentem dum vult imitari, perit.

In prato quondam rana conspexit bovem

et tacta invidia tantae magnitudinis

rugosam inflavit pellem: tum natos suos

interrogavit, an bove esset latior.

Illi negarunt. Rursus intendit cutem

maiore nisu et simili quaesivit modo,

quis maior esset. Illi dixerunt bovem.

Novissime indignata dum vult validius

inflare sese, rupto iacuit corpore.

Sic rana casinique perirunt.

Fine della storia.

Infine ci salutammo tutti facendoci gli immancabili auguri.

Sesac

domenica 28 novembre 2010

Tortellino Rana e i panzerotti.

Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto che pubblico assai volentieri.

Tratta di una giornata passata in altura, della vita degli animali e della foresta.

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

Tortellino Rana e i panzerotti.

La neve era già abbondante sui monti; e valicando lo spartiacque alpino, in una splendida giornata di sole, pareva di trovarsi seduti sul trono dell’Onnipotente, lassù tra le nubi, intenti ad osservare lo splendido scenario della creazione … invernale.

Chiesi al potente Terra di far riposare un attimo i suoi innumerevoli, focosi e scalpitanti cavalli; e lui mi accontentò accostando nel bianco spiazzo proprio poco dopo la dogana.

Scesi; e mi dilettai a volgere lo sguardo sul bianco e frastagliato orizzonte, girando lentamente su me stesso a 360°. Il termometro segnava –10°; tuttavia il sole riscaldava e la sola fida camicia scozzese, in lana e da alta montagna, mi rendeva anche troppo caldo.

La memoria tornò facilmente alle ardite creste dell’Himalaya e delle Ande, facendo correre il pensiero alle gesta giovanili, quando la preparazione era prioritaria al coraggio e la percezione del pericolo era preminente al desiderio di conquistare la vetta.

Davanti agli occhi mi si pararono all’improvviso i fantasmi degli sconsiderati, che, totalmente ibernati dalle polari temperature, là giacevano da tempo in attesa dell’Ade e si mostravano quando il potente vento dei monsoni, voglioso di accarezzare rudemente le impervie cime, scoperchiava la gelida e bianca bara per mostrarla, a imperativo monito, ai coriacei e arditi impavidi scalatori, intenti a violare le candide creste per raggiungere le agognate vette.

Li rividi uno a uno, quei meschini sfortunati, quasi rannicchiati su sé stessi come se stessero riposando. Alcuni avevano, nel momento del tragico trapasso, ripiegato la testa sulle proprie ginocchia, quasi vergognandosi di mostrare il pudore del proprio fallimento; altri si palesavano ancora eretti e irrigiditi, e con la fiera testa alta pur se appoggiata alla roccia di una nicchia qual riparo improvvisato, alcuni quasi dormienti e con il viso coperto da cristalli e i capelli incanutiti dal ghiaccio, altri con gli occhi spenti, grumosi, vitrei e gelidi ancora aperti, fissi nel guardarti immobili, imploranti il tardivo aiuto … da anni o da decenni.

A quelle quote è arduo avere pietà dei morti; e il buon stambecco, pur nella fatica di pensare dovuta all’ipossia, li salutava mentalmente, passandogli accanto, recitando questa preghiera di suffragio:

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.

Libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum : sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam, quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus.

Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus. Tu suscipe pro animabus illis, quarum hodie memoriam facimus : fac eas, Domine, de morte transire ad vitam.

Requiescant in pace. Amen!”.

Mi riscossi dal torpore dei freddi e lugubri ricordi, pur se lontani, che rattristano sempre l’anima.

Indi Terra riprese la sua veloce cavalcata finché giungemmo nella Federìa.

Il calore dell’accogliente baita, frammisto all’odore del resinoso cembro, ci avvolse appena varcato l’uscio; e superato il piccolo atrio frangi freddo ci ritrovammo nell’ampia sala sovrastata dall’artistico e monumentale crocefisso ligneo.

Il fuoco ardeva gioioso e scoppiettante nel camino frammischiando i suoi rossi bagliori ai raggi del sole che invadevano dalle finestre poste a sud, illuminandola, la grande stanza.

Attorno alla grande e lunga tavola vi erano diverse persone: amici da tempo conosciuti e facce nuove.

Ovviamente non mancava Leone che stava intrattenendo la valida e colta compagnia.

Dopo i convenevoli di rito riconobbi tra gli astanti due noti professori, esperti d’economia e di quella terra nativi, nuovi al gruppo ma che conoscevo di fama: Malaparte e Gitré.

Il primo pareva un’acciuga affumicata alla La Pira, di cui sembrava quasi la copia sputata. Non molto alto, magro assai, viso smunto, occhiali spessi sopra occhi incavati, testa incassata tra esili spalle, l’alta fronte scoperta da calvizie incipienti, pensiero profondo, discorso omogeneo, risposta ponderata e con abbigliamento non eccessivamente curato.

Il secondo rubicondo e florido, vispo anche se quasi a occhi sonnacchiosi dietro gli ampi occhiali, parlata in parte anomala e vocalizzazione esterofila, impegnato assai nella gestione della foresta, era impeccabile nell’elegante suo vestiario.

Aveva la faccia da eterno furbetto, propria di quelli che con i loro educati e calmi modi di fare posseggono la convinzione di poter sempre istruire … l’alunno tenendolo sotto pressione.

Ovviamente mi meravigliai di trovarmeli difronte, ma non osai porre domanda alcuna, per non infastidire Leone, sulla causa della loro presenza.

La discussione, appresi, verteva sul delicato momento politico della foresta, ulteriormente aggravato dalla grande recessione che da tempo coinvolgeva tutti gli animali.

Quando giunsi il ragionamento si era già molto addentrato nella tematica; ma, con un po’ di attenzione, riuscii facilmente a ipotizzare anche ciò che non avevo potuto sentire.

La situazione al vertice era instabile e precaria e la gestione della foresta era praticamente paralizzata da alcuni che, più che fare l’interesse di tutti, facevano il comodo loro vestendo le vesti dei pirati dei Caraibi, cercando di impadronirsi, o di affondare, la nave dell’odiato Bausia, capitano di lungo corso che nella vita s’era arrangiato assai a modo suo, prima d’ottenere il comando del galeone.

Leone, contrariamente al solito, s’era assunto il compito di moderare il discorso, dando ordine agli interventi e focalizzando alcune tematiche, divertendosi assai nel suo nuovo ruolo e stuzzicando spesso gli interventi dei due nuovi ospiti.

Nella Dieta di Roncaglia vi era, infatti, molta confusione, perché Tortellino Rana da tempo s’era messo in testa di fare a modo suo, da idiota politico qual’era, intento ad occupar sedie per non lavorare.

In effetti, idiota era solo nella concezione politica individualista e tali faceva passare tutti gli altri con il suo continuo fare e disfare la tela di Penelope: ora sì, tra poco no e poi, forse, anche ni.

In gioventù s’era pasciuto e acculturato sui testi dell’autoritarismo dittatoriale del secolo precedente, che tanto danno e lutti aveva creato ai popoli della foresta.

Ora, nonostante facesse intendere d’aver rinnegato il passato, era, in effetti, peggio … di prima.

Il suo aspetto non era dei più rassicuranti e il suo viso era ciò che di più sordido si potesse trovare in un politico: sembrava, dietro quegli occhiali da falso cultore e difensore della legalità costituzionale, tesi ad ingentilire quella mascella da cane mastino in quel viso squadrato, la mummia del tradimento e la sfinge della menzogna – come annotò l’esperto Leone –.

Nella vita era sempre stato inaffidabile; e benché declamasse spesso la difesa di molti valori sociali, in privato li aveva sempre vilipesi.

Nella maturità non aveva il senso della liceità e neppure quello dell’opportunità, accompagnandosi spesso a una giovane femmina intenta a frequentare con grande profitto la scuola di Teofrasto.

Era, comunque, assai furbo e aveva preso lezioni dalla volpe che non era riuscita a cogliere l’uva … acerba.

Quasi sicuramente non era mai stato istruito nella cultura sapienziale dei racconti di Fedro e, essendo una rana non conosceva la favola della rana e del bue. Tuttavia, pur essendo rana, voleva diventare grande, gonfiandosi, come un bue: la sua massima aspirazione era quella di sedersi in cima all’albero più alto della foresta.

Perciò, per riuscirci, brigava e seminava zizzania nella Dieta trovando alleati pure tra i suoi nemici di sempre, tra i quali primeggiavano Burino, Bordello e Sanmarzano; ma, come si sa, nella Dieta il confine tra amico e nemico era assai labile.

Forse aveva letto in gioventù il Principe di Machiavelli e in cuor suo vagheggiava di immortalarlo nella fase finale della sua vita.

Burino era un rozzo provinciale della foresta tropicale, trasferitosi per far carriera nelle selve boscose poste tra i limiti della pianura e gli alti monti. In verità prima era andato pure anche nelle foreste più a nord, ma per motivi pratici di troppa fatica, a lui non consona, aveva puntato nuovamente a sud.

Il suo linguaggio era da semianalfabeta, i suoi modi da scopritore dell’acqua calda, la sua vita privata in parte sulla falsariga di Rana, la sua cultura inesistente da populista e giustizialista cowboy.

Espatriato con le pezze al culo, scalando con tenacia le classi scolastiche le pezze le aveva messe al posteriore di altri, anche se nel mettersi il vestito nuovo s’era dimenticato di cambiarsi anche la camicia.

Per cui era rimasto sempre quello di … prima.

Bordello, invece, in parte aveva ricalcato l’iter di Rana, comprese le femmine. Si fregiava di praticare i dettami dei Druidi, anche se nella realtà li vituperava.

Aveva l’aspetto del bullo di radura e negli anni aveva perso la fisionomia del Cicciobello per vestire quella del duro e puro che, in effetti, non era.

In passato era saltato di palo in frasca per sfuggire agli impegni pattuiti e, nel farlo, s’era ammaccato cascando di brutto, salvando la sua carriera per un’opportunistica alleanza e per una fortunata inezia. Cosa di cui il Leone s’addolorava assai per averla quasi imposta ad Orso.

In questo atteggiamento ondivago era stato il precursore di Rana e spesso meditava di fare il figliol prodigo. Ovviamente non quello pentito che torna per essere nuovamente famiglia, ma solo quello che ricompare per speculare nuovamente cercando di farsi passare per necessario.

Sanmarzano era tutto minio dalla testa ai piedi e non per nulla portava quel nome.

In passato era stato pure console della foresta quando Tetù, suo amico, aveva preso per breve tempo il potere. Tuttavia aveva fatto tali danni all’economia che le conseguenze apparivano chiare pure ora.

Nella sua città natale non era profeta in patria ed era anzi assai mal visto; infatti, il suo raggruppamento, in caduta libera con animali e con idee da tempo, risultava solo numericamente terzo, sopravanzato di gran lunga da quello di Lama.

Nel suo raggruppamento stava prendendo piede il giovane Cola che si dava da fare per rottamarlo, unitamente a molti altri; ma lui, con quella faccia da tonto parlatore che si ritrovava, faceva lo gnorri tra una batosta e l’altra, puntellandosi al suo predecessore che, nonostante l’età, portava ancora il ciuccio in bocca.

In gioventù pare avesse voluto intraprendere la carriera di pompiere, ma forse covava ancora questa ambizione visto che spesso si allenava nell’uso delle scale, in parte imitato da Burino.

Aveva una personalità ambigua e non si capiva se la sua vera aspirazione fosse stata in gioventù quella di Grisù il pompiere.

La situazione era critica e Gitré non lo nascondeva. Data la situazione – affermava - poteva saltare tutto il banco nonostante i continui moniti, inascoltati, del Nano del Tirolo.

Perciò il pericolo era grave, anche perché Patatona in casa sua non sapeva che pesci pigliare per 2 motivi: il primo era che oltre alle forze di gravità, data la sua mole, non conosceva altro, il secondo era perché era continuamente strattonata da chi le stava accanto.

Perciò si procedeva a vista verso il baratro, sia in molti Land della foresta, sia nella foresta tutta.

Tra una discussione e l’altra giunse l’ora di pranzo e si abbandonarono i fervidi discorsi per dedicarci al cibo.

La mensa era varia e si poteva spaziare, dopo l’antipasto, tra i tortellini in brodo o al sugo con funghi, oppure ai panzerotti alla panna.

Per secondo, invece, tutti accettarono ciò che il convento passava in ossequio all’austerità economica imposta da Gitré: salamella al forno con patate, cipolle di Tropea alla cenere e polenta.

Infine torta di mele amburghese alla Leone, perciò con cognac e latte, prima del tradizionale caffè.

La discussione riprese e proseguì a lungo; e i dotti interventi degli astanti si susseguirono sotto l’attenta regia di Leone, che non permise al dibattito d’uscire dal seminato: finanza, economia, debito sovrano, bilancio, investimento.

Ovviamente Gitré e Malaparte fecero la parte del leone, visto il loro ruolo pubblico, pur incalzati dalle intuizioni degli altri.

Il discorso, infine, sfociò sulle possibilità politiche future e sulle prospettive che la precaria situazione attuale rendeva verosimili.

Quasi tutti ammisero che era assai probabile che si dovesse ricorrere a breve alla formazione di una nuova Dieta, onde superare lo stallo attuale, anche se la situazione economica avrebbe consigliato ben altro, perché era innegabile che con Tortellino Rana non si potesse continuare oltre.

Alcuni sostennero che la possibile convention forse non avrebbe risolto il nodo di una maggioranza netta; ma alla fine Leone così parlò:

La situazione è tale che esige un chiarimento e questo chiarimento non lo può dare il tergiversare continuo e equivoco di Tortellino Rana. Perciò serve una nuova Dieta, frutto di una convention della foresta.

Poi, comunque vada, si vedrà il risultato ottenuto.

Vi sarà una netta maggioranza in grado di governare compatta? Bene, problema risolto!

Non vi sarà e saranno necessarie convergenze tra gli opposti blocchi? Si vedrà di realizzarle, anche se ciò non sarebbe il massimo per le necessità del nostro tempo.

Perciò si proceda senza perdere altro tempo, coinvolgendo tutti gli animali della foresta; perché davanti ad una simile crisi è necessario che tutti si assumano le proprie responsabilità e dichiarino come si voglia procedere.

La comunità della foresta dirà chi tra i contendenti ha tradito gli impegni presi e chi li ha mantenuti, anche se, a dire il vero, molti animali possono essere culturalmente, perciò politicamente, manipolati.

Il vero nodo da sciogliere è quello di creare subito un vero intangibile programma su cui associarsi, perché è su quello che si costruirà il nostro futuro; diversamente si perirà.

Tutti, ovviamente, sanno vedere i problemi che abbiamo, tanto nell’attuale maggioranza che nell’opposizione. Per fare ciò basta avere gli occhi e non vi è bisogno di troppa intelligenza.

Questa, tuttavia, serve per trovare i rimedi agli impellenti problemi che non possono attendere oltre: troppo tempo si è già sprecato.

Le idee ci sono, basta avere il coraggio di farle proprie, dichiararle pubblicamente, inserirle nel programma e cogliere poi la volontà degli elettori, dicendo la vera situazione economica e sociale senza nasconderla, perché nulla sarà più come prima.

Di certo vi è che bisognerà ridimensionare il nostro status sociale e vincolare il capitale disponibile al territorio, ridistribuendo quindi la ricchezza perché serve sia un nuovo modo di governare che un nuovo modo di investire, perciò di fare impresa.

L’economia massimalista è saltata, ma anche quella capitalista globalizzata – il liberismo - è morta: resistono solo le nefaste conseguenze del non aver saputo regolamentare, perciò impedire, l’uso e l’abuso di certi prodotti finanziari.

Credo che, considerando tutti i debiti mondiali pubblici e privati, oggi la ricchezza del risparmio non esista più, immolata da tempo sull’altare del consumismo sfrenato.

Però vi sono cittadini benestanti e altri indigenti: i primi pochi, i secondi molti.

Vi è inoltre la povertà nazionale, quella dovuta agli ingenti debiti sovrani che nella realtà brucia anche il benessere dei pochi.

A ciò vanno aggiunti i grandi debiti della cartolarizzazione delle finanziarie o di molte società che hanno investito malamente, spesso speculando e non prevedendo correttamente il futuro prossimo.

Questa massa imponente di debiti è sicuramente superiore ai risparmi dei pochi, come Gitré prima elencava anche a livello internazionale.

La nuova ricchezza da produrre non potrà fare a meno dal considerare prioritarie alcune scelte sociali: il lavoro, l’occupazione, l’investimento radicato sul territorio, il distretto produttivo nel connubio reale tra persona ed azienda, il servizio del fare politica come necessario atto valoriale civico e non individuale.

Perciò basta mestieranti, perché non si ha alcun bisogno del loro idiota interloquire inteso come professione. Serve spirito di sacrificio e dedizione, usando tutti ciò che possiamo dare: idee, intelletto, volontà di risorgere, lavoro, manualità e soprattutto, il sacrificio sociale d’essere popolo.

Perché se manca questo allora vi saranno solo due classi principali: i privilegiati e i servi.

I salvatori della patria, della costituzionalità e i cavalieri bianchi non esistono; esistono solo coloro che ce lo vogliono far credere per poter continuare a fare il loro interesse personale.

Ma costoro sono i soliti privilegiati che tali vogliono rimanere, sia che siano manager, sia che siano politici.

Credo che basti e di aver espresso bene il conciso riassunto del nostro dibattito odierno.”.

Il sole volgeva all’orizzonte, arcuandosi sopra le creste imbiancate, finché queste cominciarono ad assumere un tenue colore rosato.

Si era nel cuore delle Retiche, ma l’aspetto era proprio delle Pennine.

Si passò al tè, data l’ora, e molti lo sorbirono guardando lo splendido paesaggio che il buon Dio, quello artistico che sovrastava la grande tavola della sala, ci aveva donato.

Lassù, nell’accogliente baita delle Federìa, non ci aveva donato solo un paesaggio fiabesco; ci aveva donato anche valide idee per il futuro.

Ora bisognava però metterle in pratica in ossequio al proverbio sapienziale aiutati che Dio ti aiuta.

I tortellini e i panzerotti del pranzo erano già digeriti.

Chissà se pure gli animali li avrebbero … divorati alla nuova probabile convention della foresta.

Sesac