giovedì 14 novembre 2019

Salvo intese ... ed estreme divergenze.


 
Nel produrre il Def per la nuova legge finanziaria il Governo ha introdotto una nuova formula: Salvo intese. Che, in sostanza, significa: abbiamo delle idee, ma non abbiamo ancora trovato un’intesa.
La Commissione Ue, che ha visto (eufemismo) di buon occhio la nascita di questo governo, per bocca di Dombrovskis afferma che per ora non ha nulla da obbiettare; ma che, comunque, monitorerà costantemente l’evoluzione dei conti italiani.
Gentiloni, da par suo e pur essendo il suo dicastero, per ora tace; anche perché laggiù, si sa, ci sta a far numero e non per governare. In Ue, al suo posto, il Pd avrebbe fatto bene a inviarci Delrio, a cui Ursula, per le affinità elettiva di Goethe, avrebbe affidato il dicastero della politica demografica. Insieme, entrambi, in ciò farebbero faville.
Conte, dal canto suo, declama il mantra che le opposizioni continuano a dire bugie sul fatto che il suo governo corrisponda al governo delle tasse e dei balzelli. Infatti, come si può dargli torto se finora non ha ancora prodotto uno straccio di legge finanziaria, ma solo delle bozze che il giorno dopo sono stracciate?
 
Paul Joseph Goebbels, abile stratega della propaganda nazista, affermava che la politica è l’arte plastica di governare uno stato e che per attrarre consenso è sempre meglio dire una mezza verità piuttosto che una bugia.
Sicché, per far quadrare i conti si sfornano diverse ipotesi (mezze verità): nuova Imu sulla casa, tassa sulla plastica, tassa sulle auto aziendali, rimodulazione quota 100 e via dicendo; senza parlare del pasticcio Ilva, che potrebbe interessare la finanziaria sia nel caso si nazionalizzasse, sia se si entrasse nel capitale sociale, sia contribuendo magari al risanamento.  Ovviamente son tutte idee che però – e il però è estremamente importante – dovranno trovare una maggioranza in Parlamento che le approvi. Perciò oggi si dice, domani si varia e magari dopodomani si annulla. Una politica più plastica di così direi proprio che non esiste.
Siccome, però, nessuna delle quattro forze che sostengono il governo vuole assumersi la paternità di provvedimenti impopolari è ovvio che si proponga l’eventuale entrata in vigore di tali nuove imposte a metà 2020, quando in Emilia e in Toscana si sarà già votato. Perché, qualora vi sia un nuovo tracollo, allora è probabile che questo governo si dissolva e la patata bollente sia passata ad altri.
Pure Mattarella, allora, nonostante la sua buona volontà ed appartenenza politica d’origine, sarebbe costretto a prenderne atto.
 
Chi ora osserva bene i lineamenti della faccia di Conte vi vede un uomo stanco, sfiduciato, braccato e che si sente politicamente finito.  Uno insomma, che non sa neppur più dove sbattere la testa. Ben lontano dallo spavaldo capitan Fracassa che, col tacito sostegno e probabile assenso del Quirinale, riversava un paio di mesi fa sul malcapitato reo professo Salvini un diluvio di accuse capitali in Senato.
Quando un premier convoca un Consiglio dei Ministri inviando una lettera ad ogni ministro perché si presenti al Consiglio con un progetto su Taranto, significa solo che il governo non ha in materia alcun piano e che, davanti a qualsiasi problema, improvvisa solo. Come pure rinviando alla settimana dopo il Consiglio stesso in precedenza convocato.
 
La storia dell’Ilva è molto lunga. Da quando lo Stato, con una propria azienda (Italsider), decide nel 1961 di costruire a Taranto il maggior complesso industriale siderurgico dell’Europa, nonostante che degli esperti affermino che fare acciaio in riva al mare non è proprio il massimo. Certo, c’è un porto, ma si è pure in mezzo a una città.
I vari cambi di nome e di assetti azionari mostrano un dinosauro in grado di sopravvivere solo operando in perdita, perciò continuamente rifinanziato dallo Stato. Finché prima con Dini e poi con Prodi è privatizzata e ceduta (1995) alla famiglia Riva per 2.500 mld di Lire, nonostante la valutazione complessiva sia di 4.000 mld. Ma, come si sa, l’illustre Prodi era famoso a svendere più che a vendere.
I procedimenti giudiziari (2012), sulle morti per tumore per inquinamento, portano al commissariamento della fabbrica e gradualmente all’affossamento industriale e commerciale del complesso sia per gli interventi e sequestri della magistratura sugli altiforni, sia sul materiale prodotto e immagazzinato.
Renzi, con un Decreto di governo, dissequestra, anche se poi la Cassazione dichiara incostituzionale tale decreto.
Finché si giunge ad affittarlo provvisoriamente all’ArcelorMittal lo scorso anno, in attesa della vendita da perfezionarsi. Società composta per il 94,4% da ArcelorMittal e per il 5,6% dal gruppo di Emma Mercegaglia, poi sfilatosi e sostituito da Intesa Sanpaolo. La quale Mercegaglia, grazie a Renzi, si è nel 2014 insediata alla presidenza dell’Eni; forse per uno scambio … di favori.
Il contratto d’affitto con obbligo di acquisto è stipulato col governo Gentiloni e il ministro Calenda il 28 giugno 2017 e modificato col governo Conte e il ministro Di Maio il 14 settembre 2018.
L’articolo 27 dell’accordo, composto di quattro pagine e sei paragrafi, è dedicato ad ogni possibile declinazione sotto il titolo Retrocessione dei rami d’azienda.
Tra l’altro vi si trova:
Nel caso in cui con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non definitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch'esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l'annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell'art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l'annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l'esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell'impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall'annullamento in parte qua), l'Affittuario ha diritto di recedere dal contratto.
Perciò, parafrasando i codici e i codicilli, si giunge alla conclusione che, qualora si variasse il piano ambientale, ricalibrando di conseguenza l’attività produttiva e economica e revisionando per forza di cose il punto di pareggio operativo dell’acciaieria, l’ArcelorMittal potrebbe restituire le chiavi.
Conte può fare il principe del Foro quanto vuole; ma, nonostante i suoi proclami, davanti a qualsiasi tribunale perderebbe la causa.
 
L’inquinamento e le morti, pur non sottovalutando le necessarie migliorie industriali dei vari gestori o proprietari, non sono imputabili solo ai Riva. Il peccato originale è addebitabile allo Stato, che oltre mezzo secolo fa decise di costruire tale impianto in mezzo a una città, producendo e inquinando per decenni con una propria azienda. È ipotizzabile la buona fede; non però la dabbenaggine.
Lo scudo penale, cancellato giorni fa dal Governo, non è perciò la scusa, ma il casus belli che ha causato lo scontro frontale. Perché un’azienda che è subentrata solo da un anno o produce inquinando, oppure ferma gli impianti per una ristrutturazione radicale.
L’impressione, invece, è che il governo Conte bis vorrebbe la botte piena (mantenimento dell’occupazione) e la moglie ubriaca (fermo e ristrutturazione degli impianti).
Il contratto di affitto e di successiva cessione sicuramente doveva essere “salvo intese” su questo punto dirimente.
 
Lo Stato non è un soggetto comune e con i suoi apparati di potere deve garantire i principi generali, perché l'uguaglianza è un principio generale e inderogabile della legge penale. In pratica non può concedere privilegi a persone fisiche o giuridiche nel nome dell’occupazione. Tuttavia, nel garantire l’uguaglianza penale, dovrebbe in questo caso cominciare a processare sé stesso per aver costruito un impianto che crea e ha creato inquinamento e morte. Perché il compito della magistratura è di applicare la legge e non quello di soprassedere alla legge per opportunismo politico.
Come, sempre in ossequio a quest’uguaglianza, lo Stato non doveva affittare, per poi cedere, a terzi un impianto industriale obsoleto che, per essere reso operante e produttivo, dovrebbe prima essere tutto ristrutturato.