domenica 16 settembre 2012

Dal berlusconismo al renzismo, passando dal montismo.

Gli “ismo” linguisticamente possono essere considerati delle degenerazioni concettuali, tese a imprimere sul corrispondente concetto originale una valenza diversa, preponderante in uno specifico periodo, lungo o breve che sia.
La politica, specie nazionale, è assai più lenta della società, non tanto a recepire i problemi, bensì a farli propri risolvendoli.
Qua non si vuole parlare di politica – se non indirettamente – ma solo di evoluzione comunicativa e operativa: di una tendenza sociale.

Il crollo della prima repubblica, a seguito di Tangentopoli, stava lasciando un vuoto spaventoso di credibilità e di leadership.
Questo vuoto è stato colmato per circa 2 decenni da una figura manageriale e imprenditoriale di successo: Berlusconi.

Usando le strutture produttive e di capitale proprio, il Cavaliere ha costruito in pochissimo tempo un consenso emotivo che lo ha portato, con opportune alleanze, al potere.
L’uomo ha inteso e dato all’assetto di vertice governativo un piglio manageriale, scegliendosi le persone che riteneva più opportune, molto spesso a lui più fidate.
La sua conquista del potere si è legata soprattutto all’assunto inconscio dell’elettore: un uomo arrivato è capace, perciò in grado di risolvere i problemi dello stato, dunque anche nostri; la sua capacità di produrre ricchezza, lavoro e occupazione non può che far bene ad una nazione. Una considerazione meritocratica basata sulla realtà.
Ovviamente non si è guardato troppo per il sottile: valore morale e storia dell’uomo, come e perché ha raggiunto il successo, approfondita analisi della verità della comunicazione mediatica, interessi personali sottaciuti ma comunque anche palesi.
Questa modalità operativa può, appunto, essere considerata il berlusconismo: un nuovo modo di comunicare idee alla gente, di realizzarle e anche di viverle in prima persona. In pratica un modo diverso e quasi innovativo di fare politica, propria di una società in evoluzione che cerca nuovi stimoli e ideali da rincorrere.
Tra i chiaroscuri del berlusconismo, non ancora del tutto tramontato, vi è il successo individuale – raggiungimento soprattutto di un elevatissimo status quo personale –, emotivamente riversabile a cascata sull’elettore: belle donne, disponibilità economica quasi inesauribile, lusso, agiatezza, capacità di raggiungere gli obbiettivi prefissati, diverso modo di intendere la vita pubblica e privata, concessioni personali alla morale comune, alternanza tra lavoro e divertimento, convincimento che mammona possa sopperire ad ogni bisogno istintuale e sociale.
Un vero jet set … politico e sociale.

Il berlusconismo non sarebbe stato possibile senza il boom economico dei decenni precedenti, capaci non solo di variare l’assetto collettivo dei diritti etici e sociali di un popolo, ma anche di indebolirne le difese, soprattutto morali. Il benessere, infatti, sposta molto spesso la personale solidarietà sociale a quella statale: una delegata cessione di doveri e una pretensiosa acquisizione di diritti.
Il berlusconismo, tuttavia, ha politicamente retto finché la situazione economica nazionale ha potuto far fronte ai suoi impegni. È andato in crisi quando la crisi globalizzata ha piegato – anche con cause esterne – i bilanci degli stati, soprattutto a fronte della speculazione selvaggia sullo spread.
Il tramonto del berlusconismo è, perciò, dovuto più a fattori esterni che a demeriti propri.

Si è creato pertanto un vuoto politico e parlamentare (maggioranza debole) sulla base del malcontento anche sociale, rimediabile costituzionalmente con altri assetti: elezioni o nuova maggioranza parlamentare.
Davanti a queste alternative, pur se in modo un po’ forzoso, è entrato in funzione il napolitanismo, cioè un’interpretazione personale e quasi al limite della costituzione sul ruolo delle prerogative del Capo dello Stato.
Si è, pertanto, creata una grande ammucchiata, dove le conflittuali e antitetiche forze parlamentari hanno dato forma non ad un Governo proprio – del Popolo -, bensì a quello “forzato” e subito del Presidente, anche perché l’alternativa delle elezioni non era detto che desse un nuovo e sicuro assetto al Paese.
A capo di questo governo si è chiamato Monti: un noto accademico titolato e soprattutto apprezzato per i suoi servigi anche da alcune importanti strutture politiche e finanziarie del pianeta.
Monti, assai diverso da Berlusconi, ha espresso il montismo: una saputa imposizione economica di rigore alla nazione, fatta di tagli e di penitenza, basata su una cultura teorica più che pratica, tesa ad avvalorare la concezione socio-religiosa integralista che i peccati prima o poi si debbano pagare, anche se tali peccati magari proprio non lo sono, ma sono dovuti a ben altri peccati della finanza globalizzata e d’assalto.
Tra il berlusconismo e il montismo più che un’evoluzione vi sono diverse connessioni: entrambi pur con disponibilità economica diversa sono degli agiati, perciò dei privilegiati, assai distanti dell’economia reale del proletariato di massa, sia dipendente che autonomo; anche se il primo viene dalla gavetta – self made man -, mentre il secondo dall’alta borghesia – class made man -.
Entrambi nel loro campo hanno avuto successo, perciò sono additabili come esempio alla massa: il primo raggiungendo obiettivi per esperienza ed impegno personale, il secondo per cultura accademica.
Che è avvenuto? Ad una modalità direzionale pratica è subentrata quella teorica accademica, ancor più slegata e distante dalla realtà.
Se Berlusconi propinava ottimismo mediatico, Monti propina quello accademico. Il primo aveva un certo consenso popolare, il secondo solo coatto parlamentare; l’uno era soggetto a contestazione di parte, il secondo lo è a contestazione generale.
Entrambi intendono la premiership come loro esclusiva discrezionalità, esaltata dal ricorso ai coercitivi voti di fiducia, senza i quali Monti non avrebbe retto neppure un giorno, mentre per Berlusconi era se non altro una dimostrazione di forza più che di debolezza.
Sta di fatto che la situazione economica e generale del Paese è continuamente precipitata, tanto da diventare catastrofica. Basti citare il solo debito pubblico, ulteriormente dilatatosi di quasi il 10% dopo l’avvento del governo dei professori.
La cultura teorica ha fallito nella risoluzione dei problemi della nostra società.

La politica ora sta facendo sorgere un’altra tendenza sociale, raffigurabile nel renzismo.
Renzi - giovane, rampante, spregiudicato, arrivista, boy scout, guascone, rottamatore, garibaldino, azzardato, populista, sfrontato, imbonitore – vede la politica precedente non come una normale transizione nel tempo, ma come un sistema dannoso da buttare, anche se non ci ha detto, finora, con cosa intenda cambiarla.
Personifica l’avversità dei giovani – peraltro nettamente in minoranza nella nostra società anziana – ad accettare un futuro nebuloso e precario, già altrove manifestatasi con gli indignados, specie in quelle nazioni dove il degrado sociale economico si è prodotto più crudemente nella società o in parte di questa, portando seco forte disoccupazione, povertà e precariato.

I vari “ismo” sono in realtà un tentativo sociale più o meno democratico di correggere le storture sociali.
E se tra Berlusconi e Monti vi è una quasi analoga visione della gestione del potere, tra Berlusconi e Renzi vi è una sicumera comunicativa che tende ad abbindolare il seguace. Mentre tra Monti e Renzi vi è un’impostazione economica di visione della società che deve essere per forza corretta: per il primo con il rigore dei conti e con riforme strutturali – peraltro mai messe in cantiere se non in dettagli minimali -, per il secondo con un ricambio totale di uomini e di obbiettivi.
I primi due, tuttavia, hanno dei valori personali e di riferimento reali, il terzo solo un ideale da formulare e realizzare.

Il berlusconismo rischiava in proprio, finanziandosi da sé. Se le cose vanno male pure le aziende e gli interessi del premier ne subiscono le conseguenze. Vi è una correlazione logica tesa a difendere e a ampliare una situazione esistente.
Il montismo, invece, ha una referenza accademica, di notorietà e presidenziale. Ha solo la propria fama e sapere da tutelare, ma non intacca né il patrimonio, né il suo stipendio, specie se “a vita”. Se sbaglia – e ha sbagliato come da ammissione, seppur tardiva – i danni sono degli altri e non propri.
Il renzismo tende invece a sbilanciare la società verso l’ignoto, tutto da individuare, conseguire e costruire, rottamando tutto l’esperienziale precedente.

Berlusconi ha messo in gioco sé stesso e i suoi interessi, finanziandosi da sé.
Monti è stato finanziato dal napolitanismo politico e dall’incertezza della precarietà politica, oltre che dall’opportunismo partitico.
Renzi dovrà prima o poi rendere i dovuti … interessi ai suoi finanziatori, senza i quali non avrebbe fatto neppure un metro.
Come si vede gli interessi non tendono a scomparire, bensì a diventare sempre più coercitivi nella società, forse avvitando ulteriormente le gravi problematiche attuali.
Si sta passando da una realtà pesante e conosciuta ad una ribelle che intende costruire un mondo nuovo, anche se non sa dirci ancora quale.
La ribellione del ’68 aveva degli ideali, dei fini e degli obbiettivi chiari già definibili da perseguire: diritti da raggiungere e conquiste sociali da progressismo radicale.
Quella di Renzi un salto nel buio dell’entusiasmo populista per rottamare tutto l’esistente, non avvedendosi che chi la spinge, finanzia e sorregge degli obbiettivi di ritorno li ha: economici e di potere politico.
Sicuramente Renzi lo sa, a meno che sia uno sprovveduto idiota. Non ce lo dice per non tarparsi le ali.
Il suo rischio è uno solo: il tarparsi le ali da sé nel Pd se verrà sconfitto. Tuttavia state sicuri che il suo sistema potere, dopo una pausa si rifarà vivo in altro modo, magari sotto altre sponde, proprio perché i suoi finanziatori dopo il Palazzo della Signoria ambiscono a ben altri più importanti e succulenti obiettivi.
Il rampantismo giovanile tende ad aprirsi una via forzata verso sbocchi remunerativi.

giovedì 13 settembre 2012

Martini: un illuminato al di sopra di ogni sospetto di parte e controparte.


La morte del Cardinale Carlo Maria Martini ha prodotto un fatto singolare. Da una parte vi è lo schieramento di chi lo esalta, sia nel campo cattolico che laico; dall’altra l’interessata schiera dei detrattori, quasi tutti reperibili nel campo cattolico, o – ma non sarebbe una novità – anche in alcune nicchie del vertice della dirigenza ecclesiale.
Comunque sia, quasi tutti ne riconoscono il grande valore morale, anche se con molti distinguo.
Martini è trapassato e perciò non potrebbe né rispondere, né difendersi da laudi e critiche.
Restano però le sue omelie, le sue lettere pastorali, i suoi libri e tutto ciò che ha fatto sia nell’arco della sua vita religiosa, sia nei quasi 3 decenni di reggenza della principale diocesi del mondo: tutto ciò è la sua sapiente e inconfutabile risposta alla mendacia degli “accusatori”.
Lo Spirito non ragiona fortunatamente con la testa (bacata) di certi cattolici rancorosi, specie se integralisti o ancor peggio fondamentalisti. Se lo chiamò a un tale ruolo un motivo reale ci sarà, a meno che si metta in discussione la Sapienza e l’esistenza stessa dello Pneuma.

Negli attacchi al Cardinale si sta distinguendo un giornalista che – beato lui – si dichiara, pur con parole diverse, un “ottimo cattolico”. Cioè: un pessimo esempio da seguire.
Evidentemente il suo singolare livore verso il Porporato ha ragioni profonde e personali, a cui furbescamente accenna pur non specificando che si tratti di lui medesimo.
In effetti, Martini in tutta la vicenda ha un solo torto, se così vogliamo definirlo: quello di aver ricevuto una denuncia in difesa della memoria di Giuseppe Lazzati da parte della Rosa Bianca, cercando di fare da mediatore tra le parti in causa, onde chiudere la questione nel migliore dei modi.
Il Sabato – settimanale interessato – aderì alla mediazione, ripubblicando l’inchiesta incriminata, accompagnata da una prefazione del teologo Augusto del Noce, nella quale si specificava che nell’inchiesta in oggetto non vi era contenuta alcuna critica per la figura morale di Lazzati.
Il fatto che si sia aderito ad una mediazione nella controversia tra le parti, e che da questa non siano scaturite né condanne, né stravolgimenti al democratico intendere degli interessati, in pratica chiuse in parità la vertenza.

Antonio Socci, tuttavia, è prodigo di vituperante intellettualismo organico contro Martini, specie ora che da morto non gli può più rispondere.
Per quel poco che ho conosciuto di Martini, tuttavia, credo che allo stesso giornalista non si periterebbe neppure di rispondere. Come sono certo che con lui in vita lo stesso giornalista si sarebbe ben guardato dal farlo.
Tra Socci e Martini vi sta un abisso: intellettuale, operativo, letterario, carismatico, morale, etico, pastorale e … religioso, soprattutto cattolico.
Perciò, essendo il meno indicato a difendere la memoria di Martini, cerco solo di analizzare alcuni fatti (accuse).

Vorrei soffermarmi su 2 articoli[1] di questi giorni, che sono emblematici della questione.
Prima di iniziare vorrei esprimere un pensiero da simbiologo, perché il soggetto lo merita.
Con aspetto da vanaglorioso saccente che non ha ancora trovato il giusto equilibrio da uomo adulto, si presenta con un look da ribelle irrequieto e insofferente, proprio di colui che tra gli estremismi opposti non sa trovare il giusto equilibrio di pensiero e di azione come l’asino di Buridano.
Usa le sue cognizioni in modo inarticolato da sillogismo sofista, incapace di comprendere se la sua vera posizione sia quella di sx della gioventù, oppure quella del fascismo di Dio dopo il passaggio al giustizialismo del Rubicone.
Dietro la maschera di saputo – che comunque è in grado di puntare a determinati obbiettivi – nella sua modalità espressiva denota il tabù dell’incompreso, forse perché lo share mediatico è stato totalmente fallimentare.
Il pensiero religioso che esprime denota un’etica e una morale costruita su misura, perciò una religiosità personale da New Age improntata alla comodità del proprio essere uomo e persona: un Dio personale costruito ad uso e consumo di sé.
Rapportato al cattolicesimo è una diaclasi vivente e perfetta.

La prima ridicola accusa rivolta a Martini è che il porporato sia stato un biblista che si è dimenticato del Vangelo.
Penso che Socci, pur citando certi fatti, conosca pochissimo sia il “lavoro” religioso del cardinale che il contenuto dei suoi libri, improntati quasi esclusivamente proprio sulla figura del Cristo, del suo mandato, della sua vita pubblica e della sua pastorale.
Martini non è mai generico, ma ha sempre scrutato ogni particolare con profonda ricerca tematica, semantica e meditativa.
Gli si rimprovera di aver cercato l’applauso del mondo, perché – a suo dire - Martini è sempre stato portato in trionfo sui mass media di tutto il mondo, da decenni, e incensato specialmente su quelli più anticattolici e più ostili a Gesù Cristo e alla sua Chiesa.
Come se questa fosse una grave colpa e non un riconoscimento pubblico universale di merito sulla persona, capace per il suo illuminato dialogante sapere di essere compresa, apprezzata e stimata pure dagli avversari che la pensano eticamente e culturalmente in modo magari opposto.
Lo si antepone a Don Milani, che rifiutò etichettature – giustamente - d’essere contro la Chiesa, dimenticando che i ruoli e i fatti sono totalmente diversi e che Martini sia sempre stato visto come uno non contro la Chiesa, ma un Pastore della Chiesa capace di affrontare, discutere e approfondire, con grande competenza teologica, tematiche scomode per la comune morale.
Affermare che “i fatti dicono che Martini ha sempre cercato l’applauso del mondo, ha sempre carezzato il Potere (quello della mentalità dominante) per il verso del pelo, quello delle mode ideologiche dei giornali laicisti, ottenendo applausi ed encomi. È stato un ospite assiduo e onorato dei salotti mediatici fino ai suoi ultimi giorni” significa non solo essere sicuramente fuorviati dall’errore, bensì di vedere la realtà attuale in modo soprattutto degenerato e fondamentalista.

Certo, Martini non ha mai cercato di convertire Scalfari, Cacciari o i tanti altri che si confrontavano con lui.
Tuttavia Socci dimentica che la conversione non avviene per le istanze di un religioso, bensì perché l’uomo accetta una chiamata di Gesù ad entrare a lavorare nella sua vigna.
Il dialogo, tuttavia, porta sempre frutti, perché il confronto migliora sempre la visione della realtà e il rispetto reciproco. Si può essere avversari, ma non necessariamente nemici che si combattono. Si può collaborare, pur su opposti visioni ideologiche, sulle tematiche comuni.

La seconda accusa che gli viene rivolta è quella di aver avallato le battaglie ideologiche del radicalismo laico.
Infatti, parlando di Repubblica, egli afferma: “Tanto che ieri Repubblica si è potuta permettere di osannarlo così: «non aveva mai condannato l’eutanasia», «dal dialogo con l’Islam al sì al preservativo». Tutto quello che le mode ideologiche imponevano trovava Martini dialogante e possibilista: «non è male che due persone, anche omosessuali, abbiano una stabilità e che lo Stato li favorisca», aveva detto. È del tutto legittimo – per chiunque - professare queste idee. Ma per un cardinale di Santa Romana Chiesa? Non c’è una contraddizione clamorosa? Cosa imporrebbe la lealtà? Quando un cardinale afferma: «sarai felice di essere cattolico, e altrettanto felice che l’altro sia evangelico o musulmano» non proclama l’equivalenza di tutte le religioni?”.
Il dialogo interreligioso della Chiesa, intrapreso soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, deve essere sfuggito al nostro interessato giornalista, come il fatto che il concetto di equivalenza civile non coincida affatto con quello di uguaglianza della Verità religiosa, anche perché il cattolico non è il solo figlio di Dio, come tutti gli altri non sono figli del Demonio. Forse non sa o non ha compreso affatto a cosa serva il dialogo interreligioso, come non ha compreso che la legge dello Stato segua logiche diverse da quelle religiose, sia perché lo Stato non è la Chiesa, sia perché non tutti i cittadini dello Stato fanno parte della Chiesa. La realtà, infatti, ci dice che solo la minoranza degli italiani sia cattolica praticante.
La Chiesa, nella Carità della predicazione, indica la via giusta per chi vuole seguirla, condividendo con Essa certi valori inalienabili. Ed è poi un fatto inconfutabile che nella sua storia la Chiesa abbia nel tempo modificato il concetto di molti valori morali comportamentali, seguendo, magari in ritardo, le anticipazioni culturali di alcuni suoi Pastori.
Martini, nella sua illuminata sagacia, ha sempre ragionato su un binario parallelo, come dovrebbe sempre fare un vero uomo di Chiesa: da una parte l’indirizzo al credente, intento a seguire gli insegnamenti basati sulla Parola, dall’altro la presa d’atto che gli “altri” hanno culturalmente una concezione diversa, che implica anche modalità ed esigenze magari opposte.
L’integralismo e il fondamentalismo tendono a voler imporre al non credente la Legge della Chiesa, facendola diventare legge dello Stato.
Non siamo più ai tempi delle Crociate, né ai tempi del dopo Costantino, quando il pagano, che non accettava di convertirsi al cristianesimo, veniva perseguitato con la stessa metodologia, pratica e crudeltà con la quale l’Impero romano aveva operato fino a Diocleziano.

Dialogare e riconoscere agli altri una civica libertà di scelta e di pensiero non vuol dire demolire i dogmi della fede, né avallarla facendola propria. Significa semplicemente accettare un confronto per sottolinearne la diversità e cercare un comune modus vivendi nel rispetto reciproco di un diverso modo di vedere e di vivere, cercando quante più convergenze possano essere possibili civicamente.
La pretestuosità culturale mostrata dal Socci nel suo secondo articolo, sull’accanimento terapeutico e sulle notizie riguardanti il Cardinale nel suo ultimo periodo di vita, è addirittura degenerante. Infatti, nessuna legge divina afferma che la vita debba essere prorogata all’infinito ricorrendo a cure, né che l’accettare la morte naturale, quando ormai ogni speranza è perduta, sia contraria alla Speranza cristiana. Diversamente non si capirebbe perché l’uomo sia destinato a morire sin dalla creazione.
Per quanto la problematica sia scientificamente complessa, mi potrei dilungare assai nello spiegare che normalmente una persona muore fisicamente quando lo decide più o meno consciamente dentro di sé, proprio perché il nostro cervello, anche nella menomazione, è in grado di riconoscere quando il fisico è giunto al suo capolinea.
Sarebbe tuttavia interessante il pensiero dell’encomiabile “giornalista cattolico” sulla scelta dei martiri, perciò se la loro scelta personale fosse addebitabile eventualmente a suicidio, avendo accettato, in coerenza alla Fede, che gli venisse tolta la vita.

Chiuderei comunque con questa citazione di cultura sapienziale popolare: quando il gatto (Martini) manca i sorci (Socci) ballano.
Ballano soprattutto con scarso rispetto, con carenza assoluta di carità e con degenerante intelletto.
Suvvia, Antonio Socci, non ci propini la sua fideista e personale, pelosa carità cristiana in questo modo, nella sua immensa e unica rettitudine religiosa: “Io, come insegna la Chiesa, farò dire delle messe e prenderò l’indulgenza perché il Signore abbia misericordia di lui. È la sola pietà di cui tutti noi peccatori abbiamo veramente bisogno. È il vero amore. Tutto il resto è vanità.”.
Dice bene: pietas di cui il “peccatore” ha bisogno!
La sua Chiesa, sicuramente non è né quella di Carlo Maria Martini, né, se mi è permesso dirlo, neppure quella di Gesù.
Tutto ciò vale sia per lei, sia per tutti quelli che a qualsiasi livello la pensano come lei, intenti a spargere letame culturale anche su un morto.
Di certo il buon Dio avrà il suo illuminato e fedele Cardinale nella sua Gloria. Perché il suo Giudizio non è condizionabile né dalle lodi sperticate, né dalle pretestuose e rancorose accuse di un interessato intellettualismo organico umano. Gloria già anticipata dalle centinaia di migliaia di persone che gli hanno reso omaggio in Duomo.
Sarebbe una grande grazia di Dio se nella Chiesa vi fossero molte persone apprezzate dal mondo come Martini, capaci di illuminare col dialogo anche il pensiero dei non credenti o con religione diversa.
Auguro, a lei, d’essere a suo tempo accolto allo stesso modo.



sabato 8 settembre 2012

Aperitivo Purpureo.

Oggi mi è pervenuto questo racconto che pubblico assai volentieri.
È un testo particolare ambientato come sempre nella Foresta. Il personaggio principe è facilmente riconducibile ad un’alta personalità  religiosa, anche se, come sua consuetudine e giocando sulle parole, Sesac lo ha sempre indicato - e lo fa pure ora - con uno pseudonimo.
Vi sono citazioni di un libro a cui non sono state messe volontariamente le consuete note esplicative sul nome dell’autore e del titolo del libro che le contiene, in ossequio a questa privacy.
Sesac ha preferito così, convinto che il lettore è sufficientemente adulto per capire di chi si tratti. Rispettoso del suo intendimento mi sono astenuto dal farlo in sua vece.

Sam Cardell
Tratto da “i Dialoghi” di Sesac
Aperitivo Purpureo.

Io, Sesac, decisi di andare nuovamente in … trasferta.
Si era in viaggio per raggiungere l’accogliente baita posta su in Federia, anche se la calura era già stata attutita da alcuni salutari, prolungati e intensi scrosci nel Nord della foresta.
La compagnia intendeva ritrovarsi per diletto amichevole e non per sfuggire alla canicola.
Bipperino procedeva tranquillo e senza alcuna fretta, in un ambiente boschivo montano che, nonostante la tarda estate, appariva come se si fosse già in autunno inoltrato. Infatti, tra i boschi, molte chiazze erano marrone intenso, come se le foglie stessero per cadere o avessero cambiato, per un precoce freddo autunnale, il loro naturale colore estivo. Ciò era maggiormente accentuato là dove le conifere ne esaltavano la diversità policroma con il loro verde scuro intenso.
La prolungata ondata di calore e di siccità permeava il quadro della natura come se a dipingerlo fosse stato il Fattori, intento, in trasferta, a scambiare i dolci, morbidi e protuberanti patri declivi delle siccitose piagge tosche per le scoscese ripide balze dei boschi d’altura alpini.

S’era nel meriggio avanzato; e tra un chiacchiericcio e l’altro si ascoltava in sottofondo la radio nelle sue consuete trasmissioni pomeridiane.
Queste, d’un tratto, vennero sospese; e un cronista ci aggiornò sulla morte, appena avvenuta, di Aperitivo Purpureo.
Le condizioni di Aperitivo da tempo erano pessime; tant’e che un paio di settimane prima, su nel regno di Patatona, tra di noi se n’era parlato, già presumendo un’imminente fine: una fine fisiologica dovuta all’età e alla malattia, sollievo naturale e ultimo per l’infermo ormai senza speranza.
In passato avevo avuto la possibilità di conoscere di persona Aperitivo e di descrivere una sua visita riservata a Leone in uno dei miei resoconti[1] di circa 2 decenni fa.
Pur nella serenità degli eventi naturali della vita ne fummo addolorati. Con lui se n’era … andata anche una parte di noi.

Pervenimmo infine alla radura di sosta, dove però brillava l’assenza del possente Terra.
Prese le nostre cose ci incamminammo con calma, imboccando la mulattiera che dava accesso alla spaziosa baita alpina con sinuoso e boscoso percorso, mentre il sole era ancora alto nel cielo pur se già inarcato verso occidente.
Giungemmo. E, infatti, trovammo la compagnia priva di Leone.

Leone era altrove per una sua escursione al Sasso Spicco col simpatico Billy.
Il Sasso stava in alto, anche se altrove rispetto alla baita alpina. Era un luogo sacro e aspro, posto sopra una rupe verticale, atta a difenderlo, nei secoli passati, da possibili scorribande di malintenzionati.
Vi si accedeva da sud, salendo da una pineta che immetteva poi in una secolare e imponente faggeta,  occupante tutta la sommità del monte; oppure da nordovest tramite una selciata mulattiera che saliva, irta, tra gli anfratti della rupe verticale verso il portone d’ingresso, sulla cui cornice vi è il messaggio che gratificava il pellegrino: Non est in toto sanctior orbe mons.
Il sacro complesso è in pratica tutt’ora un noto monastero, dove santi e beati nei secoli si erano alternati, soggiornando temporaneamente in quel luogo e ivi facendo penitenza, meditazione e preghiera.
Uno sparuto gruppo, con piede spoglio e cordone bianco, di tonacati marroni presidiava ancora il sacro luogo, anche se lo scorrere del tempo aveva decimato assai la nutrita famiglia che per secoli lo aveva reso popoloso.
Viandanti, pellegrini, studiosi e fedeli lassù salivano bramosi di curiosità, di fede, di ristoro, di riappacificazione interiore e di arte; e anche di frescura nelle assolate giornate estive.
Il Sasso Spicco può essere considerato lo scrigno d’arte per eccellenza dei Della Robbia, anche se vi è pure una splendida opera a colori del concorrente Santi Buglioni.
Durante una mia visita, infatti, avevo notato che lassù vi erano più opere che altrove, specie di Andrea. Le varie principali cappelle, numerose, che arricchiscono il sacro antico eremo, sono, infatti, ornate dagli imponenti bassorilievi in terracotta invetriata  di quella dinastia di artisti, tanto arditi nell’innovazione della loro arte quanto restii a tramandare ai posteri il segreto della composizione dell’invetriatura smaltata, capace da secoli di reggere l’incuria del tempo nella brillantezza originale.
Le opere sono per lo più monumentali e di pregevole fattura: tutte teofanie religiose a colori policromi e con tratti gentili e delicati, dotati sempre di un’intensa espressività umana di caritatevole e immenso amore di donazione divina e sociale.

Leone giunse tardi, dopo il tramonto del sole e mentre si stava apprestando la cena. Aveva con sé pure Madame.
Lo aggiornammo sulla morte di Aperitivo, notizia che peraltro già conosceva.
Aggiunse solo: Che Dio l’abbia a nostra luce e conforto nella sua luminosa gloria eterna.

Prima di coricarci ci intrattenemmo a chiacchierare nella spaziosa sala adibita a cucina, in attesa che Hypnos, figlio di Erebo e gemello di Thanatos, appesantisse le nostre ciglia.
La conversazione si protrasse tra gli astanti sulla carismatica figura di Aperitivo e sulla sua interessante opera letteraria. V’era chi lo classificava come progressista e chi come di sx, scorrendo analiticamente il suo lungo incedere pastorale nella più grande diocesi della foresta.
Leone, sprofondato in una poltrona posta davanti ad una finestra, se ne stava silenzioso ad osservare la natura senza proferire parola, apparentemente sordo al nostro discorrere.
Eppure, più di tutti noi, lo aveva conosciuto.
Il tempo stava cambiando e il cielo a malapena mostrava solo a tratti la pallida luna tendente al gibboso.

Quando si incrociarono la prima volta, Leone aveva già varcato il San Damaso per ben 2 volte, ovviamente non in visita di piacere. Perciò pure in quel mondo particolare lui era … necessario a qualcuno.
Aperitivo aveva un incedere e un discorrere solenne e ieratico, quasi lento, tant’era meditato e attento. D’aspetto culturale signorile e nobile lo si notava subito tra mille altri individui, come una persona carismatica attrae subito l’attenzione del volgo. Ovviamente era sempre in cattedra col suo sapere posato e ponderato, col suo sguardo intenso, attento e penetrante, anche se sempre nella totale disponibilità di tutti e nel personale dubbio interiore della faticosa ricerca trascendentale d’una Verità ulteriormente da scoprire. Era un Pastore attento e rispettoso dell’intendere altrui, tanto deciso a condurre il gregge, quanto predisposto all’ascolto.
Leone, invece, lo si notava solo quando saliva in cattedra, perché allora non ce n’era più per alcuno, fossero questi tonacati sgargianti, re, principi, duchi, conti o sapienti del reame. Era il “Leone” e come tale restava, finché decideva ch’era l’ora di lasciare quel ruolo.
Aperitivo traeva il suo sapere dalla logica e sofferta sorgente della fede nella Parola, partendo dalla quale, pur nella parziale incertezza della sua elaborata ricerca, costruiva un’innovativa concezione religiosa e sociale.
Leone, al contrario, basava l’azione sulla contingenza della necessità, non dando un valore escatologico alla ricerca, ma operando con sicurezza per la risoluzione del problema. I problemi – diceva – esistono solo per essere risolti.
Entrambi possedevano una grande cultura, che, pur diversa, li poneva al vertice del loro proprio sistema sociale. Non erano antagonisti, né opposti, né alternativi, bensì correlativi pur su binari paralleli e convergenti su una complanarità sociale: erano sempre a disposizione della società.
Erano tanto diversi in tutto quanto complementari, pure nella fede. Per rendersene conto bastava osservare la differenza sostanziale di un loro scritto, i termini usati, la metodologia dell’analisi, il procedimento eziologico e filosofico che lo sorreggeva, oppure ascoltare un loro discorso nella declamazione oratoria stessa, nella linearità e nella musicalità delle frasi.
Erano l’emblema della Foresta nell’astrazione del coesistere: religiosa e laica da una parte, pubblica e estremamente riservata dall’altra.

Se si incontravano – e avveniva raramente - tra loro vi era una simpatica e affettuosa stretta di mano, di norma condita da alcune battute.
Non erano sicuramente amici – come comunemente s’intende -, data la scarsa frequentazione. Tuttavia erano molto più che conoscenti, perché culturalmente l’uno era nella reciprocità il supporto dell’altro. Si seguivano a distanza e spesso capitava che si affiancassero in articoli profondi, completandosi a vicenda in un dialogare parallelo in cui il pensiero dell’uno era, di norma, lo stimolo e il complemento per l’altro.
Si … conoscevano! E si apprezzavano.
Leone si riscosse infine dal torpore estatico della natura notturna, si alzò, girò la poltrona verso il camino acceso, che, scoppiettante, sprigionava nella stanza un intenso profumo resinoso di cembro, e così cominciò a parlare, in piedi e appoggiato al retro della poltrona come se questa fosse un ambone, proprio sotto il grande crocifisso ligneo che inondava la stanza con la sua ingombrante mistica e silente presenza.

Oggi, al Sasso Spicco, mi sono dilettato ad analizzare il comportamento del penitente e del confessore, facilitato dal fatto che i confessionali lassù hanno luce interna, protetti esternamente da vetriate che permettono di osservare comodamente, da fuori, ogni vibrazione del volto.
Facce contrite da una parte, seriose e paterne dall’altra, evidenziavano un rito che da secoli si perpetua in una colpa/perdono basata per lo più non su una conversione continua e sincera, ma solo su una semplice dichiarazione d’intenti che viene poi quasi automaticamente disattesa. È la religione personalistica e a misura dei nostri giorni, dove il solo semplice dichiarare sottintende l’irrisoria penitenza d’una, o più, preghiera che glorifica e giustifica l’assoluzione.

Si soffermò, fece alcuni passi e trasse dal suo zainetto un libro che stava analizzando su richiesta, fattogli pervenire tempo prima dall’autore stesso. Tornando verso la poltrona appoggiò il libro sulla sommità dello schienale come se quello fosse un leggio, lo sfogliò scorrendo velocemente i vari segnalibro inseriti, trovò il punto voluto e così riprese.

L’analisi di quelle confessioni contrite, seppur spontanee, mi riportarono alla mente questa frase, che indica la differente visione sostanziale della religione esistente tra molta ecclesia e Aperitivo. Ve la leggo.

Mi preme sottolineare che la conversione intellettuale è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più comodo, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell’influenza dell’ambiente anche buono.
Tuttavia il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segnato da bufere di opinioni contrastanti.
In altre parole, la conversione intellettuale è propria di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a cogliere la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare gli altri.
E più avanti:
Il passaggio della conversione intellettuale richiede sforzo, volontà, pazienza, tempo, ma vi invito a farlo. Rimango sempre perplesso quando, incontrando qualche comunità religiosa, anche contemplativa, mi accorgo che, pur conducendo una vita pia, devota, santa, sacrificata, questi uomini o queste donne non hanno l’intelligenza spirituale della situazione della Chiesa. I nostri Padri, come Agostino e Ambrogio, non si sono distinti solo per la pietà o per la moralità; essi avevano acquistato quell’intelligenza che può giudicare da sé ciò che è bene e ciò che è male, che può rendere ragione delle proprie opinioni di fede.
Di questa maturità cristiana, che nasce dalla conversione intellettuale, noi abbiamo bisogno oggi per evangelizzare un’Europa così sofisticata e attraversata dalle più strane correnti di pensiero.

La conversione è sempre legata alla vita personale, quindi anche al superamento del peccato.
Si possono avere concezioni diverse di peccato; ma è ovvio che quando questo venga percepito come tale non possa più essere perpetuato basandosi sulla debolezza della capacità umana e della carne.
E la visione di quelle facce penitenti, oggi scrutate da esperto quasi furtivamente seppur pubblicamente, mi hanno reso chiaro che il concetto di conversione è oggi basato per i più solo sulla convinzione che basti il sacramento – per chi ci crede – della penitenza. Non la grazia benevola di Dio che inonda, purifica e arricchisce l’animo umano, ma una grazia che viene inglobata nell’intimo egocentrico dell’Io ad uso e abuso delle nostre aspettative. Un Dio, dunque, al nostro esclusivo servizio.
Alla cerimonia che avverrà a breve in duomo, chi la seguirà potrà notare in prima fila tutti i falsi e pubblici farisei, riconoscibili dalle facce contratte e devote, dal vestito ricco e impeccabile, all’apparenza quasi affrante dal dolore della sua scomparsa e affiancate una all’altra in una parata mediatica tesa a nascondere i forti contrasti rancorosi che li dividono reciprocamente. Alcuni di loro dichiareranno magari pubblicamente che erano onorati della “sua amicizia”. Quale amicizia? Forse quella del calpestare continuamente i valori che Lui professava e che insegnava? Costoro, sicuramente, hanno scambiato la sua benevola e tollerante magnanimità per amicizia.
Confrontate lo status sociale di questi - per lo più politici -, il loro reddito e la posizione privilegiata che continuano strenuamente a difendere, e vi renderete conto della diversità abissale, religiosa e morale, che li pervade rispetto all’insegnamento che solo a parole intendono esaltare.
Aperitivo si soffermava spesso non tanto sull’essere credente/non credente, bensì sul pensante/non pensante. Infatti proprio qua sta il problema dell’essere uomo, cittadino e credente oggi.

Ha un senso essere “credente” senza essere “pensante”? No, perché allora la credenza non viene condivisa dalla ricerca della ragione, che la fa sua dopo attenta meditazione. Rimane, in questo modo, una fede epidermica, oggettistica/materialistica, tesa solo a farci consumare una cultura da cui si prende solo l’utile, scartando ciò che per noi non è dilettevole quando diventa conflittuale al nostro tornaconto nella carità cristiana.
Ecco perciò perché il binomio “credente/non credente” diventa il “non pensante”. Il vero “credente” è sempre solo il “pensante”!
Egli istituì non a caso la “cattedra dei non credenti”, proprio perché il pensante agnostico denota un mondo moderno non vuoto di valori, bensì capace di possedere quella fiducia nella ragione, grazie alla quale scaturiscono domande che se valutate, ascoltate e soppesate non risultano superflue all’umanità. Sono sempre aperture verso l’Assoluto, in quella ricerca escatologica o scientifica che dà comunque sempre risposte, magari momentaneamente sommarie, talora errate o parziali, ma che comunque sono impregnate di una ricerca coscienziosa che, per le tante vie misteriose della salvezza operata sempre da Dio, sortisce risultati per tutta l’umanità.
Credente/non credente assume perciò 2 significati diversi e opposti. Il primo sottintende la parità esistenziale nella fede della carità tra le 2 opposte visioni fede/non fede se collegato al pensante; il secondo l’identica parità e nullità del semplice credere/non credere senza pensare.
Il dialogo col mondo, anche quello più lontano, non è mai infruttuoso, ma deve sempre essere laborioso; proprio perché la rivelazione di Dio sia anche dentro l’umanità tutta, in quanto la forza dello Spirito soffia dove vuole e funziona nella forza della ragione se e dove c’è.

Essere padre e pastore non significa rinunciare all’essere critico, sia nel mondo che nella Chiesa. E ciò vale per tutti, perché Dio chiama ognuno indistintamente ad essere padre/pastore verso il prossimo, cioè verso l’alter homo che ci sta accanto.
La critica è sempre costruttiva se inglobata nella carità, cioè in quell’amore che porta ad offrire all’altro anche una visione speculativa diversa, capace di  creare confronto nel dialogo e valore aggiunto alla ricerca del pensiero.
Il suo pensiero talora si discostava da quello ufficiale della Chiesa, ma non era mai in opposizione. Lui non era un ribelle, ma un pensatore molto stimato e apprezzato, che intendeva guardare profondamente la realtà soppesandola sulla Parola: un pensatore illuminato magari talora inascoltato al vertice, ma comunque sempre amato dal gregge per la lucidità e per il pensiero innovativo. Sotto quest’ottica si possono inglobare: il dialogo interreligioso, l’attenzione verso i divorziati e i separati, l’esigenza di un nuovo concilio per l’ammodernamento strutturale e ecclesiale, la riflessione sulle tematiche del lavoro e della finanza, l’esigenza di una formazione diversa per il nuovo clero, la priorità del trarre dallo studio della Parola la sorgente illuminante per procedere sempre oltre, anche sulle tematiche moderne e conflittuali della difesa della vita.

Pensare non sempre vuol dire comprendere appieno.
Infatti, anche per un grande pastore le problematiche della fede possono essere sofferte nell’accettazione, specie in quelle tematiche teologiche e dottrinali che possono sfuggire al “perché” della ragione.
Il suo studio dei testi antichi era improntato proprio anche al tentativo di superare con l’intelletto certe tematiche complesse, che umanamente non sono facilmente comprensibili.
Oggi pensavo proprio a ciò, dopo essermi soffermato a lungo ad analizzare quello che ritengo sia il capolavoro per eccellenza di Andrea della Robbia: l’Annunciazione.
La teofania pare tutta ferma, quasi eternamente immobile nell’attesa di una risposta. Una risposta che non viene istintiva e subitanea, ma che deve essere soppesata e ragionata prima di essere data, perché l’annuncio ha portato un turbamento profondo che ha bisogno di essere fatto proprio, meditato, condiviso e pure programmato nel tempo prima dell’abbandono gioioso alla novità.
La Vergine ha la sua dx sulla profezia di Isaia, mentre la sua sx poggia sul suo cuore, quasi a contenere il moto esplosivo che turbamento e gioia possono produrre simultaneamente quando la Parola, il Verbo, trova dimora in noi. L’efficace staticità rappresentativa pare non dare una risposta nell’immobilità dell’azione. Ma questa è già scritta nella predella del baldacchino: Ecce ãcilla Do˜. Fiat mihi secũdu˜ verbu˜ tu˜.

Il pensante si sofferma sui particolari, quei particolari stessi che sfuggono al distratto visitatore, consumatore delle opere del Sasso Spicco. L’Annunciazione è un capolavoro, ma quanti oltre a dire “bella!” sono in grado di coglierne i moti interiori e profondi dell’animo umano e del volere rispettoso divino? E quanti un attimo dopo essere passati oltre la saprebbero di nuovo descrivere?
Ricordo la sua difficoltà e turbamento nel comprendere e accettare appieno il Sacrificio a cui il Padre aveva sottomesso il Figlio. Si chiedeva sempre se non fosse stato possibile per Dio agire diversamente.
La fede non è una semplice grazia piovuta dall’alto della benevolenza di Dio, ma un procedimento culturale che deve essere sempre e costantemente elaborato e perfezionato su quei particolari che creano turbamento, pur nella gioia della Salvezza che il venerdì storico ci ha arrecato. Serve appunto il venerdì speculativo, capace di renderci nostra la realtà storica e dogmatica!
Pensare non sempre vuol dire capire e risolvere i quesiti che i turbamenti intellettuali interiori arrecano nel nostro pensiero; serve però ad approfondire la tematica e a rendercela, se non totalmente nostra, almeno familiare e reale.
Il pensare ci rende chiaro che ricevere non è inferiore in importanza al donare, che essere padre non è meno fondamentale che essere figlio, che essere pastore non è diverso dall’essere gregge, che amare implichi sempre colui che è amato, non il ricambiato.
Nell’Annunciazione l’Altissimo, attorniato dai cherubini, se ne sta appartato e rispettoso della libertà della Vergine pur nella sua preveggenza divina. I visi denotano sguardi che si consumano nell’attesa, ma che portano l’anima/spirito ad un abbandono finale cosciente e gioioso.

Il suo costante turbamento sul Sacrificio del Figlio l’ho spesso abbinato, ultimamente, alla sua malattia, debilitante e progressiva. Malattia che potrebbe essere mia o di chiunque altro quando l’età avanza.
I sintomi sono sempre quelli: parti del corpo squassate sempre più frequentemente da tremolii, perdita della coscienza stabilometrica, stanchezza, intorpidimento muscolare con rigidità motoria e del regolare flusso intestinale.
L’ammalato di norma rimane lucido e cosciente, capace di intendere il deperimento del suo stato fino allo stadio finale.
Sorge perciò spontanea nell’infermo la retorica domanda sul perché di questo umano sacrificio, atto a concluderne l’esistenza.
La sofferenza, specie quella che toglie la speranza di guarigione, è sempre difficile da accettare, in modo particolare se non si è allenati al ragionamento del perché ciò avvenga; e può indurre alla considerazione che l’atto creativo – chiamata alla vita - sia stato un fallimento operativo.
Il sacrificio della persona e del Figlio tendono allora a sovrapporsi nella ricerca d’una risposta che dilania la mente.
Perché, perché, perché deve essere così?
Un triplice perché che riecheggia nell’eco storico la tripla domanda alternativa di Gesù a Pietro: Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro? … Simone di Giovanni, mi vuoi bene? … Simone di Giovanni, mi vuoi bene?-  ( Gv 21,15-17) –

Si fermò, sfogliò ancora il segnalibro alla ricerca di una citazione e così riprese:

Parlando dell’autosufficienza della cultura contemporanea così lui sostiene:
Mancando questa visione unitaria, è facile cadere in una serie di contraddizioni. Basti un solo esempio, relativo alla dignità della vita.
È maturata una forte coscienza civile della libertà e della dignità della persona. Si fanno grandi battaglie e si impegnano mezzi, tempo, energie per salvare tante vite umane dalla guerra, dalla malattia, dalla fame, dagli ambienti malsani, ecc.
Stranamente, però, accanto a questi atteggiamenti costruttivi si registrano fenomeni di segno opposto: uccisioni della vita nel suo sorgere o nel finire; corsa sfrenata agli armamenti; mentalità violenta; mancanza di rispetto del contesto fisico, psichico, sessuale, affettivo, familiare in cui la vita umana nasce e si sviluppa; paurosa diffusione della droga; ricorso agli interventi armati, anziché alle mediazioni diplomatiche, per risolvere i vari conflitti tra i popoli. Purtroppo, contraddizioni di questo genere diventano inevitabili, quando non si sa riconoscere il valore ultimo e assolutamente intangibile su cui si fonda la dignità dell’uomo.
Verso la fine parlando della vita teologale:
… “Diventa ciò che sei!” è allora il compendio in forma di precetto di tutto ciò che l’itinerario educativo dell’esistenza redenta deve realizzare. La comunione in cui il battesimo immerge si esprime anzitutto nella vita teologale, che sviluppa il peculiare rapporto del cristiano a ciascuna delle divine Persone, nel cui “nome” egli è stato battezzato: è così che la carità si offre come icona del Padre, il puramente accogliente, colui che ci insegna come il ricevere non sia meno divino del donare, e la gratitudine non meno partecipativa del mistero santo della gratuità; la speranza, infine, si rivela icona dello Spirito, che non solo unisce il tempo e l’eterno, ma apre il cuore dei credenti alla sorpresa di Dio. Il cristiano come figlio credente, speranzoso e innamorato è allora la vivente e densa immagine del suo Dio Trinità d’amore.
… Grazie a questa virtù, il credente spreranzoso-innamorato di Dio inserisce in maniera adulta ed equilibrata la propria vita nel divenire del tempo: la fortezza lo aiuta a superare la paura, che chiude al futuro; la giustizia gli fa vincere l’evasione e la fuga dal concreto, rendendolo capace di dare a ciascuna situazione e persona ciò che è giusto e buono che le venga dato; la prudenza e la temperanza liberano dall’impazienza, dalla fretta e dai condizionamenti negativi dei desideri sregolati. Permettono così un orientamento autentico verso il bene. Grazie alle virtù cardinali l’esistenza redenta, che partecipa della vita eterna mediante le virtù teologali, vive pienamente la sua inserzione nel tempo, senza fughe in avanti, senza ritorni all’indietro, senza stasi paralizzanti.
La vita eterna è un elemento religioso dogmatico, che innesta l’atto d’amore della chiamata alla vita e il ritorno finale alla comunione col Padre.
La triplice domanda fatta a Pietro sull’amare Gesù, oltre alle varie interpretazioni teologiche, riporta anche all’Annunciazione del Sasso Spicco: annuncio, presa di coscienza, accettazione. In pratica il ciclo della vita che si apre con la nascita, prosegue con la vita terrena e si tramuta in vita eterna con la morte che, comunque la si voglia inquadrare, è la malattia per eccellenza dell’uomo; quella, per intenderci, che non è reattiva ad alcun antidoto, se non quello unico della salvezza generatasi con il venerdì storico.

Ciò che però può essere una perfetta concatenatio nella fede, non trova riscontro nella ragione, specie in quella del non credente, pur pensante.
La concezione religiosa dogmatica – come pure lo stoicismo filosofico - non è totalmente esaustiva, ma solo giustificante. È e rimane il “mistero” della vita e di Dio, a cui il credente si affida con filiale abnegazione per un fine ultimo che possiamo eventualmente intuire, ma non sapere e conoscere.
Ciò, ovviamente, crea nell’uomo grande turbamento: quello stesso turbamento che coglie la Vergine all’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, quel turbamento che coglie Aperitivo davanti al Sacrificio del Figlio, quel turbamento che coglie l’uomo davanti alla malattia terminale che porta alla morte terrena.

Tacque.
E capimmo che Leone aveva lasciato la cattedra per tornare uno di noi: uno di noi, ma all’occorrenza assai diverso da noi.
Il mistico silenzio del Crocifisso illuminava il nostro meditare e il nostro sincero rincrescimento per la dipartita di colui che aveva dato tutto di sé per la sua Chiesa.

Madame colse l’occasione per intonare il rosario in suffragio dello scomparso, a cui tutti noi ci aggregammo volentieri, consci che ciò era assai meglio che presenziare alle sue esequie.
Fuori, intanto, tra il buio della notte cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve, che al mattino ci avrebbero fatto trovare la valle completamente imbiancata.
Non era un segno dei tempi, ma le avvisaglie che pure la natura moriva in autunno per rinascere a vita nuova in primavera.
Era trapassato un uomo; aveva dato un’impronta a un’epoca!

Sesac



[1] - La salvezza nel venerdì speculativo.