domenica 28 novembre 2010

Tortellino Rana e i panzerotti.

Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto che pubblico assai volentieri.

Tratta di una giornata passata in altura, della vita degli animali e della foresta.

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

Tortellino Rana e i panzerotti.

La neve era già abbondante sui monti; e valicando lo spartiacque alpino, in una splendida giornata di sole, pareva di trovarsi seduti sul trono dell’Onnipotente, lassù tra le nubi, intenti ad osservare lo splendido scenario della creazione … invernale.

Chiesi al potente Terra di far riposare un attimo i suoi innumerevoli, focosi e scalpitanti cavalli; e lui mi accontentò accostando nel bianco spiazzo proprio poco dopo la dogana.

Scesi; e mi dilettai a volgere lo sguardo sul bianco e frastagliato orizzonte, girando lentamente su me stesso a 360°. Il termometro segnava –10°; tuttavia il sole riscaldava e la sola fida camicia scozzese, in lana e da alta montagna, mi rendeva anche troppo caldo.

La memoria tornò facilmente alle ardite creste dell’Himalaya e delle Ande, facendo correre il pensiero alle gesta giovanili, quando la preparazione era prioritaria al coraggio e la percezione del pericolo era preminente al desiderio di conquistare la vetta.

Davanti agli occhi mi si pararono all’improvviso i fantasmi degli sconsiderati, che, totalmente ibernati dalle polari temperature, là giacevano da tempo in attesa dell’Ade e si mostravano quando il potente vento dei monsoni, voglioso di accarezzare rudemente le impervie cime, scoperchiava la gelida e bianca bara per mostrarla, a imperativo monito, ai coriacei e arditi impavidi scalatori, intenti a violare le candide creste per raggiungere le agognate vette.

Li rividi uno a uno, quei meschini sfortunati, quasi rannicchiati su sé stessi come se stessero riposando. Alcuni avevano, nel momento del tragico trapasso, ripiegato la testa sulle proprie ginocchia, quasi vergognandosi di mostrare il pudore del proprio fallimento; altri si palesavano ancora eretti e irrigiditi, e con la fiera testa alta pur se appoggiata alla roccia di una nicchia qual riparo improvvisato, alcuni quasi dormienti e con il viso coperto da cristalli e i capelli incanutiti dal ghiaccio, altri con gli occhi spenti, grumosi, vitrei e gelidi ancora aperti, fissi nel guardarti immobili, imploranti il tardivo aiuto … da anni o da decenni.

A quelle quote è arduo avere pietà dei morti; e il buon stambecco, pur nella fatica di pensare dovuta all’ipossia, li salutava mentalmente, passandogli accanto, recitando questa preghiera di suffragio:

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.

Libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum : sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam, quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus.

Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus. Tu suscipe pro animabus illis, quarum hodie memoriam facimus : fac eas, Domine, de morte transire ad vitam.

Requiescant in pace. Amen!”.

Mi riscossi dal torpore dei freddi e lugubri ricordi, pur se lontani, che rattristano sempre l’anima.

Indi Terra riprese la sua veloce cavalcata finché giungemmo nella Federìa.

Il calore dell’accogliente baita, frammisto all’odore del resinoso cembro, ci avvolse appena varcato l’uscio; e superato il piccolo atrio frangi freddo ci ritrovammo nell’ampia sala sovrastata dall’artistico e monumentale crocefisso ligneo.

Il fuoco ardeva gioioso e scoppiettante nel camino frammischiando i suoi rossi bagliori ai raggi del sole che invadevano dalle finestre poste a sud, illuminandola, la grande stanza.

Attorno alla grande e lunga tavola vi erano diverse persone: amici da tempo conosciuti e facce nuove.

Ovviamente non mancava Leone che stava intrattenendo la valida e colta compagnia.

Dopo i convenevoli di rito riconobbi tra gli astanti due noti professori, esperti d’economia e di quella terra nativi, nuovi al gruppo ma che conoscevo di fama: Malaparte e Gitré.

Il primo pareva un’acciuga affumicata alla La Pira, di cui sembrava quasi la copia sputata. Non molto alto, magro assai, viso smunto, occhiali spessi sopra occhi incavati, testa incassata tra esili spalle, l’alta fronte scoperta da calvizie incipienti, pensiero profondo, discorso omogeneo, risposta ponderata e con abbigliamento non eccessivamente curato.

Il secondo rubicondo e florido, vispo anche se quasi a occhi sonnacchiosi dietro gli ampi occhiali, parlata in parte anomala e vocalizzazione esterofila, impegnato assai nella gestione della foresta, era impeccabile nell’elegante suo vestiario.

Aveva la faccia da eterno furbetto, propria di quelli che con i loro educati e calmi modi di fare posseggono la convinzione di poter sempre istruire … l’alunno tenendolo sotto pressione.

Ovviamente mi meravigliai di trovarmeli difronte, ma non osai porre domanda alcuna, per non infastidire Leone, sulla causa della loro presenza.

La discussione, appresi, verteva sul delicato momento politico della foresta, ulteriormente aggravato dalla grande recessione che da tempo coinvolgeva tutti gli animali.

Quando giunsi il ragionamento si era già molto addentrato nella tematica; ma, con un po’ di attenzione, riuscii facilmente a ipotizzare anche ciò che non avevo potuto sentire.

La situazione al vertice era instabile e precaria e la gestione della foresta era praticamente paralizzata da alcuni che, più che fare l’interesse di tutti, facevano il comodo loro vestendo le vesti dei pirati dei Caraibi, cercando di impadronirsi, o di affondare, la nave dell’odiato Bausia, capitano di lungo corso che nella vita s’era arrangiato assai a modo suo, prima d’ottenere il comando del galeone.

Leone, contrariamente al solito, s’era assunto il compito di moderare il discorso, dando ordine agli interventi e focalizzando alcune tematiche, divertendosi assai nel suo nuovo ruolo e stuzzicando spesso gli interventi dei due nuovi ospiti.

Nella Dieta di Roncaglia vi era, infatti, molta confusione, perché Tortellino Rana da tempo s’era messo in testa di fare a modo suo, da idiota politico qual’era, intento ad occupar sedie per non lavorare.

In effetti, idiota era solo nella concezione politica individualista e tali faceva passare tutti gli altri con il suo continuo fare e disfare la tela di Penelope: ora sì, tra poco no e poi, forse, anche ni.

In gioventù s’era pasciuto e acculturato sui testi dell’autoritarismo dittatoriale del secolo precedente, che tanto danno e lutti aveva creato ai popoli della foresta.

Ora, nonostante facesse intendere d’aver rinnegato il passato, era, in effetti, peggio … di prima.

Il suo aspetto non era dei più rassicuranti e il suo viso era ciò che di più sordido si potesse trovare in un politico: sembrava, dietro quegli occhiali da falso cultore e difensore della legalità costituzionale, tesi ad ingentilire quella mascella da cane mastino in quel viso squadrato, la mummia del tradimento e la sfinge della menzogna – come annotò l’esperto Leone –.

Nella vita era sempre stato inaffidabile; e benché declamasse spesso la difesa di molti valori sociali, in privato li aveva sempre vilipesi.

Nella maturità non aveva il senso della liceità e neppure quello dell’opportunità, accompagnandosi spesso a una giovane femmina intenta a frequentare con grande profitto la scuola di Teofrasto.

Era, comunque, assai furbo e aveva preso lezioni dalla volpe che non era riuscita a cogliere l’uva … acerba.

Quasi sicuramente non era mai stato istruito nella cultura sapienziale dei racconti di Fedro e, essendo una rana non conosceva la favola della rana e del bue. Tuttavia, pur essendo rana, voleva diventare grande, gonfiandosi, come un bue: la sua massima aspirazione era quella di sedersi in cima all’albero più alto della foresta.

Perciò, per riuscirci, brigava e seminava zizzania nella Dieta trovando alleati pure tra i suoi nemici di sempre, tra i quali primeggiavano Burino, Bordello e Sanmarzano; ma, come si sa, nella Dieta il confine tra amico e nemico era assai labile.

Forse aveva letto in gioventù il Principe di Machiavelli e in cuor suo vagheggiava di immortalarlo nella fase finale della sua vita.

Burino era un rozzo provinciale della foresta tropicale, trasferitosi per far carriera nelle selve boscose poste tra i limiti della pianura e gli alti monti. In verità prima era andato pure anche nelle foreste più a nord, ma per motivi pratici di troppa fatica, a lui non consona, aveva puntato nuovamente a sud.

Il suo linguaggio era da semianalfabeta, i suoi modi da scopritore dell’acqua calda, la sua vita privata in parte sulla falsariga di Rana, la sua cultura inesistente da populista e giustizialista cowboy.

Espatriato con le pezze al culo, scalando con tenacia le classi scolastiche le pezze le aveva messe al posteriore di altri, anche se nel mettersi il vestito nuovo s’era dimenticato di cambiarsi anche la camicia.

Per cui era rimasto sempre quello di … prima.

Bordello, invece, in parte aveva ricalcato l’iter di Rana, comprese le femmine. Si fregiava di praticare i dettami dei Druidi, anche se nella realtà li vituperava.

Aveva l’aspetto del bullo di radura e negli anni aveva perso la fisionomia del Cicciobello per vestire quella del duro e puro che, in effetti, non era.

In passato era saltato di palo in frasca per sfuggire agli impegni pattuiti e, nel farlo, s’era ammaccato cascando di brutto, salvando la sua carriera per un’opportunistica alleanza e per una fortunata inezia. Cosa di cui il Leone s’addolorava assai per averla quasi imposta ad Orso.

In questo atteggiamento ondivago era stato il precursore di Rana e spesso meditava di fare il figliol prodigo. Ovviamente non quello pentito che torna per essere nuovamente famiglia, ma solo quello che ricompare per speculare nuovamente cercando di farsi passare per necessario.

Sanmarzano era tutto minio dalla testa ai piedi e non per nulla portava quel nome.

In passato era stato pure console della foresta quando Tetù, suo amico, aveva preso per breve tempo il potere. Tuttavia aveva fatto tali danni all’economia che le conseguenze apparivano chiare pure ora.

Nella sua città natale non era profeta in patria ed era anzi assai mal visto; infatti, il suo raggruppamento, in caduta libera con animali e con idee da tempo, risultava solo numericamente terzo, sopravanzato di gran lunga da quello di Lama.

Nel suo raggruppamento stava prendendo piede il giovane Cola che si dava da fare per rottamarlo, unitamente a molti altri; ma lui, con quella faccia da tonto parlatore che si ritrovava, faceva lo gnorri tra una batosta e l’altra, puntellandosi al suo predecessore che, nonostante l’età, portava ancora il ciuccio in bocca.

In gioventù pare avesse voluto intraprendere la carriera di pompiere, ma forse covava ancora questa ambizione visto che spesso si allenava nell’uso delle scale, in parte imitato da Burino.

Aveva una personalità ambigua e non si capiva se la sua vera aspirazione fosse stata in gioventù quella di Grisù il pompiere.

La situazione era critica e Gitré non lo nascondeva. Data la situazione – affermava - poteva saltare tutto il banco nonostante i continui moniti, inascoltati, del Nano del Tirolo.

Perciò il pericolo era grave, anche perché Patatona in casa sua non sapeva che pesci pigliare per 2 motivi: il primo era che oltre alle forze di gravità, data la sua mole, non conosceva altro, il secondo era perché era continuamente strattonata da chi le stava accanto.

Perciò si procedeva a vista verso il baratro, sia in molti Land della foresta, sia nella foresta tutta.

Tra una discussione e l’altra giunse l’ora di pranzo e si abbandonarono i fervidi discorsi per dedicarci al cibo.

La mensa era varia e si poteva spaziare, dopo l’antipasto, tra i tortellini in brodo o al sugo con funghi, oppure ai panzerotti alla panna.

Per secondo, invece, tutti accettarono ciò che il convento passava in ossequio all’austerità economica imposta da Gitré: salamella al forno con patate, cipolle di Tropea alla cenere e polenta.

Infine torta di mele amburghese alla Leone, perciò con cognac e latte, prima del tradizionale caffè.

La discussione riprese e proseguì a lungo; e i dotti interventi degli astanti si susseguirono sotto l’attenta regia di Leone, che non permise al dibattito d’uscire dal seminato: finanza, economia, debito sovrano, bilancio, investimento.

Ovviamente Gitré e Malaparte fecero la parte del leone, visto il loro ruolo pubblico, pur incalzati dalle intuizioni degli altri.

Il discorso, infine, sfociò sulle possibilità politiche future e sulle prospettive che la precaria situazione attuale rendeva verosimili.

Quasi tutti ammisero che era assai probabile che si dovesse ricorrere a breve alla formazione di una nuova Dieta, onde superare lo stallo attuale, anche se la situazione economica avrebbe consigliato ben altro, perché era innegabile che con Tortellino Rana non si potesse continuare oltre.

Alcuni sostennero che la possibile convention forse non avrebbe risolto il nodo di una maggioranza netta; ma alla fine Leone così parlò:

La situazione è tale che esige un chiarimento e questo chiarimento non lo può dare il tergiversare continuo e equivoco di Tortellino Rana. Perciò serve una nuova Dieta, frutto di una convention della foresta.

Poi, comunque vada, si vedrà il risultato ottenuto.

Vi sarà una netta maggioranza in grado di governare compatta? Bene, problema risolto!

Non vi sarà e saranno necessarie convergenze tra gli opposti blocchi? Si vedrà di realizzarle, anche se ciò non sarebbe il massimo per le necessità del nostro tempo.

Perciò si proceda senza perdere altro tempo, coinvolgendo tutti gli animali della foresta; perché davanti ad una simile crisi è necessario che tutti si assumano le proprie responsabilità e dichiarino come si voglia procedere.

La comunità della foresta dirà chi tra i contendenti ha tradito gli impegni presi e chi li ha mantenuti, anche se, a dire il vero, molti animali possono essere culturalmente, perciò politicamente, manipolati.

Il vero nodo da sciogliere è quello di creare subito un vero intangibile programma su cui associarsi, perché è su quello che si costruirà il nostro futuro; diversamente si perirà.

Tutti, ovviamente, sanno vedere i problemi che abbiamo, tanto nell’attuale maggioranza che nell’opposizione. Per fare ciò basta avere gli occhi e non vi è bisogno di troppa intelligenza.

Questa, tuttavia, serve per trovare i rimedi agli impellenti problemi che non possono attendere oltre: troppo tempo si è già sprecato.

Le idee ci sono, basta avere il coraggio di farle proprie, dichiararle pubblicamente, inserirle nel programma e cogliere poi la volontà degli elettori, dicendo la vera situazione economica e sociale senza nasconderla, perché nulla sarà più come prima.

Di certo vi è che bisognerà ridimensionare il nostro status sociale e vincolare il capitale disponibile al territorio, ridistribuendo quindi la ricchezza perché serve sia un nuovo modo di governare che un nuovo modo di investire, perciò di fare impresa.

L’economia massimalista è saltata, ma anche quella capitalista globalizzata – il liberismo - è morta: resistono solo le nefaste conseguenze del non aver saputo regolamentare, perciò impedire, l’uso e l’abuso di certi prodotti finanziari.

Credo che, considerando tutti i debiti mondiali pubblici e privati, oggi la ricchezza del risparmio non esista più, immolata da tempo sull’altare del consumismo sfrenato.

Però vi sono cittadini benestanti e altri indigenti: i primi pochi, i secondi molti.

Vi è inoltre la povertà nazionale, quella dovuta agli ingenti debiti sovrani che nella realtà brucia anche il benessere dei pochi.

A ciò vanno aggiunti i grandi debiti della cartolarizzazione delle finanziarie o di molte società che hanno investito malamente, spesso speculando e non prevedendo correttamente il futuro prossimo.

Questa massa imponente di debiti è sicuramente superiore ai risparmi dei pochi, come Gitré prima elencava anche a livello internazionale.

La nuova ricchezza da produrre non potrà fare a meno dal considerare prioritarie alcune scelte sociali: il lavoro, l’occupazione, l’investimento radicato sul territorio, il distretto produttivo nel connubio reale tra persona ed azienda, il servizio del fare politica come necessario atto valoriale civico e non individuale.

Perciò basta mestieranti, perché non si ha alcun bisogno del loro idiota interloquire inteso come professione. Serve spirito di sacrificio e dedizione, usando tutti ciò che possiamo dare: idee, intelletto, volontà di risorgere, lavoro, manualità e soprattutto, il sacrificio sociale d’essere popolo.

Perché se manca questo allora vi saranno solo due classi principali: i privilegiati e i servi.

I salvatori della patria, della costituzionalità e i cavalieri bianchi non esistono; esistono solo coloro che ce lo vogliono far credere per poter continuare a fare il loro interesse personale.

Ma costoro sono i soliti privilegiati che tali vogliono rimanere, sia che siano manager, sia che siano politici.

Credo che basti e di aver espresso bene il conciso riassunto del nostro dibattito odierno.”.

Il sole volgeva all’orizzonte, arcuandosi sopra le creste imbiancate, finché queste cominciarono ad assumere un tenue colore rosato.

Si era nel cuore delle Retiche, ma l’aspetto era proprio delle Pennine.

Si passò al tè, data l’ora, e molti lo sorbirono guardando lo splendido paesaggio che il buon Dio, quello artistico che sovrastava la grande tavola della sala, ci aveva donato.

Lassù, nell’accogliente baita delle Federìa, non ci aveva donato solo un paesaggio fiabesco; ci aveva donato anche valide idee per il futuro.

Ora bisognava però metterle in pratica in ossequio al proverbio sapienziale aiutati che Dio ti aiuta.

I tortellini e i panzerotti del pranzo erano già digeriti.

Chissà se pure gli animali li avrebbero … divorati alla nuova probabile convention della foresta.

Sesac

lunedì 22 novembre 2010

Vecchie ricette per problemi stantii.

Nell’era Bush il tanto vituperato Alan Greenspan consigliava al suo presidente, in caso di crisi, di far piovere sul popolo americano miliardi di $ a getto continuo.

La sua politica monetaria, come presidente della Fed per 2 decenni, venne bollata dai suoi detrattori e dall’amministrazione successiva come la causa forzosa della crisi finanziaria attuale.

Questa modalità operativa non fu comunque l’unica causa; ma, come si sa, il capro espiatorio va di norma ricercato nei predecessori, specie se l’esplodere della crisi non avvenga sotto la presidenza Greenspan, ma sotto il suo successore Ben Bernanke.

L’era Obama non ha fatto molto meglio; e l’ultima mossa di quantitative easing della Fed di 600 mld di $ per rastrellare sul mercato assets di titoli americani, per ironia della sorte va nella stessa direzione del mantra economico di Greenspan.

Proprio come il fondo Bce, da 750 mld di € per sostenere le economie Ue a rischio default, corre sullo stesso binario parallelo, anche se il pericolo, talora, più che coinvolgere un singolo debito sovrano è dovuto all’allegra gestione delle banche di una determinata nazione che, come si sa, spesso seguono e fiancheggiano la politica economica dei vari governi.

Quindi nulla di nuovo da 4 anni sotto il sole … americano, nonostante i … bostoniani e la finanza creativa virtuale.

Il discorso sull’efficacia di questa manovra da 600 mld di $ è molto sottile; oserei dire quasi perverso nelle intenzioni.

Immettere una tale imponente liquidità sul mercato può sì saturare momentaneamente il mercato, dare impulso ai consumi, favorire la liquidità di investimento, indebolire il $ al Forex, dare ossigeno all’esportazione, abbassare il costo delle materie prime in un’era monocratica monetaria e dare sicurezza ai mercati mobiliari.

Tuttavia, di riflesso, eleva ulteriormente l’indebitamento pubblico e privato, procura inflazione e destabilizza l’economia interna, drogandola invece di purgarla.

In pratica sposta nel tempo il problema; ma, invece di risolverlo, lo aggrava ulteriormente.

Il debito sovrano americano si sta incrementando a percentuali greche e alcuni azzardano l’ipotesi che per il 2014, procedendo di questo passo, possa superare anche il 150% del Pil.

E tale importo, se sommato al grande debito privato degli States, porrà l’economia U.S.A. a vero rischio default, sulla strada di un mesto declino economico internazionale, trascinando seco molte altre economie.

Perché non è l’aumento del Pil, spesso in crescita anche per l’inflazione monetaria, che crea il benessere degli stati, ma l’investimento reale che si fonda sul risparmio acquisito: quell’investimento che basato sul risparmio reale e non virtuale è in grado di produrre vero reddito e non ulteriore debito.

Siamo, tuttavia, in un mondo consumistico globalizzato, dove l’unico indice di riferimento è, erroneamente, la crescita del Pil; e con questo si pensa che possa crescere anche il benessere del cittadino.

Quale benessere? Non quello reale, ovviamente, considerata l’insoddisfazione generalizzata e la grande preoccupazione nel futuro che pervade i popoli occidentali, assillati non tanto dall’eventuale mancata crescita del Pil, bensì del poter vivere con una certa sicurezza il futuro prossimo.

La Cina, che governa internamente la propria moneta non sottoponendola alla fluttuazione dei mercati, è assai preoccupata dall’inflazione che è salita al 4,5% e dal consumismo che si sta sviluppando al suo interno.

E val la pena notare che il salario medio dell’operaio cinese si attesta su circa 1/8 di quello occidentale.

Teme, altresì, che una possibile frenata economica/produttiva possa far esplodere il rischio mutui in modo incontrollabile.

Appunto per questa ragione pare che la dirigenza cinese abbia intenzione di proibire alle società straniere l’acquisto di immobili, onde frenare il flusso di capitali; e, nello stesso tempo, procedere ad una nuova stretta monetaria per frenare i consumi interni.

La politica monetaria cinese è pertanto quella di limitare al massimo la migrazione dei capitali instabili globalizzati.

A G20 di Seul, nonostante l’ottimismo di facciata, le regole economiche e finanziarie per il futuro sono state appena abbozzate, bloccate da recriminazioni reciproche specie tra Cina e U.S.A.; la prima occupata a mettere in discussione l’ultima manovra Fed (considerato che buona parte del debito degli States è finanziato proprio dalla Cina), la seconda tendente a vincolare l’Yuan al Forex, perciò alla fluttuazione dei mercati finanziari.

Dall’inizio della crisi finanziaria la fluttuazione isterica €/$ è spesso slegata dai dati macroeconomici, considerato che i mercati oscillano non sull’economia reale, ma solo sotto la spinta della speculazione delle grandi aziende finanziarie che possono muovere giornalmente imponenti masse valutarie in barba alle banche centrali, fidando spesso anche su leve spropositate.

E la stessa sorte tocca ai titoli dei vari stati, spesso attaccati senza una valida ragione precisa se non quella speculativa.

I conti statali irlandesi, ad esempio, sono nella norma dei parametri europei ed a soffrire sono solo le banche locali che rischiano il default, per salvare le quali il governo ha sforato i parametri debito/Pil; pur tuttavia i titoli irlandesi vengono attaccati brutalmente dalla speculazione, intenta ad innescare una turbolenza sull’€ che possa essere loro redditizia, magari coinvolgendo a catena anche i titoli degli altri paesi “P.I.I.G.S”.

La manovra Fed da 600 mld avrebbe dovuto indebolire il $; ma a pochi giorni di distanza a flettere nel rapporto è l’€, finché questo non avrà raggiunto dei supporti di resistenza (meglio sarebbe dire di guadagno) che possa far invertire la tendenza, spostandola poi sul $ in una continua altalena speculativa.

Il supposto contagio, con annessa turbolenza su €/$, ha perciò solo come scusante il titolo di un singolo stato Ue; ma, in effetti, punta a destabilizzare tutti gli altri, specie quelli che si basano sul debito sovrano eccessivo e che sono stati piazzati in buona parte all’estero, quindi fuori dal controllo della rispettiva banca centrale. Il problema non è perciò locale, bensì di sistema.

Non è il default vero a cui le grandi finanziarie tendono, ma il deprezzamento dei titoli stessi e il rispettivo aumento dei correlati CDS che ne consegue.

Il default vero sarebbe catastrofico pure per loro perché farebbe implodere tutta l’economia globalizzata in un domino contagioso atto ad abbattere tutta la catena finanziaria ed economica.

Un discorso interessante, ma lungo, andrebbe riservato alle agenzie di rating che, con le loro spesso inopportune anticipazioni sul possibile declassamento di titoli sovrani a mercati aperti, creano dei veri sconquassi borsistici sia sui titoli mobiliari che al Forex.

La serietà di giudizio, più che affidarsi a delle anticipazioni premature di possibile valutazione, dovrebbe basarsi sulla reale conoscenza dei piani di sostegno o di salvataggio che banche centrali, Fmi e governi interessati stessero predisponendo.

Perciò è ovvio che vi sia una stretta connessione, anche se forse involontaria, tra speculazione e anticipazione di possibile giudizio futuro prima della predisposizione finale dei piani d’intervento.

Analogo lungo discorso andrebbe riservato alla politica che, dall’inizio di questa grave crisi finanziaria, non solo è sempre stata latitante e tardiva nelle decisioni, ma anche incapace di prevederne gli sviluppi pur avendo i dati macroeconomici sempre sottomano.

È successo prima con i mutui sub prime e con molte banche, poi con la Grecia, indi con i piccoli paesi mitteleuropei ed ora con l’Irlanda, lasciando incancrenire la situazione prima di intervenire e sprecando così ingenti risorse preziose tanto dei singoli paesi Ue che della capitalizzazione dei mercati.

La politica della Merkel ondeggia tra l’ignorare la scienza economica e il fronteggiare le pressioni politiche interne dovute alle ingenti spese per sostenere l’€.

I costi accrescono inevitabilmente il disavanzo e il debito senza una chiara visione di ciò che sarà, portando seco, per forza di cose, l’aumento della pressione fiscale e togliendo linfa alla coriacea economia teutonica.

Il tracollo dell’€ dovuto al default di alcuni stati membri, anche se minori, trascinerebbe anche la florida industria tedesca nel baratro.

Perciò si cercano vie alternative, basate sul rigore dei bilanci, per scongiurare il pericolo incombente; oppure, in extrema ratio, il dividere l’Ue in due blocchi a diversa velocità e rischio economico, composto uno da nazioni forti (con capofila la Germania) e l’altro da nazioni deboli (con capofila l’Italia). Ciò, tuttavia, sarebbe distruggere in pratica l’unità Ue e rinnegare i principi solidali che dettarono la sua costituzione.

Per stabilire regole comuni nuove vi è però bisogno di governi granitici e numericamente forti nei vari stati membri, in grado perciò di imporre al loro interno una rigorosa politica economica di tagli e di riduzione dello status sociale a tutti, cosa che il malumore sociale dovuto alle traballanti economie rende quasi impossibile realizzare.

Per bilanciare la riduzione dello status sociale necessita in ogni caso la ridistribuzione della ricchezza, vincolando perciò i capitali al territorio e ponendoli al servizio della persona nella garanzia futura di investimento, occupazione e produttività. Cosa assai sgradita alle multinazionali.

Purtroppo in Europa si può dire che si voti quasi ogni settimana; e ciò è un grande male perché dà instabilità politica a tutto il sistema.

Se poi si aggiunga che molti stati basano la loro struttura politica su una frammentazione partitica proporzionale, allora ben si capisce che spesso nella coalizione governativa la maggioranza diventi ostaggio della minoranza, anche se questa possa avere consensi da prefisso telefonico.

Ed è ciò che pure in un sistema apparentemente bipolare, come quello italiano, sta succedendo con i continui e altalenanti piagnistei di Fini. Figuriamoci cosa succederebbe con un secco ritorno al proporzionale o con un sistema bipolare basato su delle armate Brancaleone.

Le vere regole (scienze) economiche e finanziarie non sono molte neppure oggi e si fondano principalmente sul dare e sull’avere. E quando il dare supera di molto l’avere è ovvio che lo sbilancio crei danni insanabili per secoli, perciò coinvolgendo anche le generazioni a venire per lo scialacquio operato dagli avi.

La moneta e l’economia virtuale, basata su imponenti debiti sovrani, va contro le stesse intuizioni economiche di Keynes e ne sono, in pratica, la vera negazione, considerati i risultati.

Pur tuttavia banche centrali e stati continuano a percorrere imperterriti questa strada, creando ulteriori debiti che inevitabilmente inflazioneranno la moneta e prostreranno ulteriormente le economie per gli ingenti costi che richiederanno.

Nell’Ue il Trattato di Maastricht stabilì uno sforamento massimo di spesa rispetto al Pil, considerando questo l’unico coefficiente in grado di misurare l’economia dei singoli stati; ma ciò fu un gravissimo errore che dovrebbe essere prontamente corretto.

Considerare solo la crescita del Pil come utile risorsa per rilanciare l’economia, basando l’ammontare della crescita come sviluppo positivo economico, è uno dei grandi errori che possono essere praticati oggi e che da decenni si stanno perpetuando.

L’economia, infatti, cresce in modo sano quando gli utili prodotti dall’incremento della produzione nazionale servono sia in parte a rilanciare gli investimenti, sia in parte a ripianare i debiti contratti; ma, come si nota guardando gli attuali bilanci statali, l’economia rimane debolissima e i debiti sovrani continuano ad aumentare.

Zapatero in Spagna, pur inimicandosi diversi strati sociali, ha già iniziato a ridurre, pur solo del 5%, gli stipendi degli statali. In Italia, con le iniziative Brunetta, si è operato in altro modo cercando di ridurre l’assenteismo e di aumentare la produttività, pur riducendo gradualmente e inesorabilmente il personale.

In Grecia, in presenza di un bilancio pubblico disastrato e fallimentare, si sono operati rimedi draconiani, creando però malumore e sommosse di piazza, strada che inevitabilmente sarà ora intrapresa anche dall’Irlanda.

Tuttavia queste iniziative paiono troppo tenui sia nella risoluzione dei gravi problemi economici e finanziari, sia per ridurre prontamente i debiti sovrani.

Per ammodernare gli impianti strutturali e anche costituzionali di uno stato servono ingenti capitali, nuove idee e valide risorse di capitale umano.

Immettere nel Trattato di Maastricht anche un limite alla migrazione di capitale selvaggio, vincolandolo perciò al territorio, sarebbe buona cosa. Diversamente vi potrà essere sì un’Ue politica, ma solo sulla carta essendo totalmente sguarnita di capitale reale, possedendo solo quello virtuale che genera unicamente ulteriore debito.

E il risultato pratico lo si vede ogni giorno nell’economia reale.

Il diagramma dei grafici mobiliari di questi ultimi 2 anni ritraccia continuamente i corsi altalenando ribassi a rialzi; ma i due corsi opposti hanno in comune tra loro una riduzione continua delle rispettive code, evidenziando con ciò che l’economia reale continua a peggiorare.

Troppe aziende hanno resistito alla crisi, specialmente le PMI, pur con scarsi aiuti pubblici quando non inesistenti. Ora, però, troppe stanno chiudendo non vedendo l’utilità né di investire, né di riconvertire, né di continuare.

Serve un colpo d’ala nazionale e comunitario, possibilmente rottamando quei personaggi che da decenni occupano la scena politica, intenti a fare unicamente il loro interesse da mestieranti.

Certo che a molti di costoro la dialettica per giustificare il loro continuo voltagabbana non manca, spesso vestendo i panni del salvatore della patria e della democrazia costituzionale.

Purtroppo la nostra costituzione non prevede che chi si dissoci dal programma sottoscritto debba dimettersi non condividendo più l’impegno assunto davanti all’elettorato.

E se un detto popolare afferma che è solo l’asino che non cambia mai, è pur vero che di asini ce ne siano troppi in giro, tirando continui calci al popolo e alla nazione, fidando solo nel loro status di privilegiati.

L’Italia per ora ha retto grazie alla tenacia di Tremonti che ha stretto sapientemente i cordoni della spesa, scontentando non solo ceti sociali ed opposizione, ma anche alcuni ministri incapaci di comprendere la drammaticità della situazione.

Se non si vorrà tra poco fare la fine di Grecia e Irlanda, innescando una miccia esplosiva che l’Ue non sarebbe in grado finanziariamente di disinnescare, sarà bene che maggioranza ed opposizione trovino un sistema immediato e pratico non per governare insieme, il che sarebbe pretendere l’impossibile, ma per emarginare definitivamente questi sabotatori che con le loro mosse di palazzo destabilizzano i vari gruppi parlamentari.

Perché se uno diventa inaffidabile da una parte è ovvio che, pur facendo subito comodo alla controparte, finisca per destabilizzare tutto il sistema, precipitandolo nel caos assoluto.