martedì 28 settembre 2010

Il mito del top manager, l'alta finanza e il cristianesimo.

Gli avvenimenti nel settore economico e finanziario di questo ultimo periodo pongono spesso dei grandi interrogativi etici di liceità, specie se catalogati in un mondo in cui chi più “arraffa” più è capace, perciò bravo e degno di rispetto.

Abbiamo manager che in un mese percepiscono più di tutti i loro dipendenti, oppure che hanno buonuscita milionaria pari all’indennità (Tfr) - come ultimamente - di circa 5 mila dipendenti della stessa azienda.

Se poi si aggiunge che la gestione di certe società pone problemi di ristrutturazione aziendale che preveda migliaia di esuberi, allora la liceità di tale remunerazione è maggiormente contraddittoria, specie se il percettore beneficiario si dichiari come cristiano e, in parte, sia la causa stessa della doverosa ristrutturazione.

Lo stesso discorso può essere riservato al politico di radice cattolica, analizzando il cui reddito annuale (pubblico) si ha una crescita continua verso l’alto. Da mie osservazioni ho trovato che tutti i politici partono da redditi normali prima della loro elezione al Parlamento, per poi schizzare verso l’alto in modo continuo via, via che la loro carriera si prolunghi nel tempo. Ciò, ovviamente, senza contare i relativi benefit e la lucrosa indennità di parlamentare, che, essendo considerata tale, non fa parte del reddito comunemente detto, perciò soggetto a tassazione ordinaria.

Ho usato il lemma arraffa non a caso, perché ciò ben si addice oggi anche al comportamento del cristiano: politico, manager o imprenditore che sia.

Leone XIII[1] affermava oltre un secolo fa: non c’è vera soluzione della “questione sociale” fuori dal Vangelo. Anche se, per inciso, fuori dal Vangelo vi è pure il buon senso, la giustizia e la correttezza civile.

E la questione sociale pone in primo luogo la grande disparità di trattamento tra il vertice (imprenditore, manager) e la base lavorativa, perché l’entità di persona include una parità esistenziale, anche se non di trattamento per la responsabilità, il rischio, l’impegno e la capacità individuale.

Tuttavia simili divergenze attuali sono anacronistiche, considerato che in certi casi un anno di emolumenti dirigenziali supera di gran lunga l’intera vita lavorativa di una persona normale, quella che, per intenderci, il predetto pontefice indicava sotto la voce classista di proletariato.

Ipotizzando un dipendente con un salario netto di 1.500 € mensili per 40 anni di lavoro, aggiungendo pure il Tfr si possono sfiorare emolumenti complessivi di 850.000 €, ben lungi dalla scandalosa buonuscita in questi giorni citata di 40 mln di €, specie se prima contrattata, come pare, dai vari avvocati di controparte.

Sempre Leone XIII affermava, nella stessa enciclica, che lo Stato debba garantire il meno abbiente, giacché il benestante si difende già da sé con l’abbondanza delle risorse disponibili.

Egli, infatti, aggiungeva: … poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati; e, aggiungo io, pure quella delle aziende.

Perciò annotava che alla ricchezza sempre maggiore di pochi si contrapponeva l’indigenza dei molti.

Erano altri tempi, ovviamente, e non vi erano ancora le attuali organizzazioni sindacali (affermate come corporazione di diritto sociale e anche cristiano di associazione e di difesa) e neppure lo welfare attuale.

Alcuni papi suoi successori, elaborarono, riprendendo, simili concetti aggiornandoli ai tempi, i cui accenni si possono vedere nella Populorum progressio di Paolo VI, nella Laborem ecercens, Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus di Giovanni Paolo II, oltre che nella Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Le idee espresse anche nelle encicliche possono essere parziali, perciò perfettibili con lo scorrere del tempo.

È, tuttavia, interessante notare che uno dei principali pilastri del vivere sociale (e anche del cristianesimo) venga indicato con lemmi diversi nelle varie encicliche in oggetto: amicizia nella Rerum novarum, solidarietà nella Sollicitudo rei socialis e Centesimus annus, civiltà dell’amore nella Populorum progressio, passando pure in Pio XI che la indicava, nei suoi insegnamenti, come carità sociale.

E, paradossalmente, il termine usato da Leone XIII equivale a quella linea filosofica classica che viene esplicata nella filosofia greca pagana, prima platonica (Dialoghi di Socrate) e poi aristotelica, giungendo fino alla scolastica dopo essere passata per Plotino.

Filosofia che non a caso illuminò il teismo paolino e l’origine stessa del pensiero cristiano.

Posso solo annotare che, socialmente, amicizia ben si addice al vivere civile, perché questo vocabolo indica l’essere uniti su alcuni interessi che si mettono in comune; e non vi è nulla di più importante nell’esistenza umana che il mettere in comune, tra tutti, la vita di ognuno e quindi anche la reciproca dignità di un’esistenza decorosa, se si vuole essere popolo e non solo comunità.

Personalmente sono molto più in sintonia al lemma di Pio XI, perché la carità dovrebbe essere l’ideale sociale e cattolico che guida il cristiano nella sua esistenza terrena: il primo comandamento del vivere civile, quello che fa vedere nel proximus (colui che ci sta accanto) Gesù/Dio come Persona, che a noi si dona reiterandosi eternamente nella propria creatura (Gen. 1,27).

Encomiabile è pure l’affermazione di Paolo VI – civiltà dell’amore – perché lui intendeva il cristianesimo come una parte della società, quella parte che con la propria cultura, testimonianza e carità è (dovrebbe essere) la luce della civiltà.

Ma l’impostazione concettuale dei vari papi ha delle varianti sociali significative, analizzando le quali si può scoprire o una visione laica e fenomenologica del problema sociale e perciò per riflesso anche religioso (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), oppure una visione veramente cristiana della società (Leone XIII, Pio XI e Paolo VI).

E nella concezione fenomenologica sicuramente vi è una crisi di identità, riconoscibile sommariamente in quel conclamare impositivo anche sociale, piuttosto che in quel testimoniare con perseveranza il proprio essere cristiano nella carità dell’amore: il proclamare il diritto senza considerare che questo debba essere suffragato e conquistato dal dovere del merito.

E, come spesso avviene, il diritto porta ad addossare il dovere alla comunità, esautorando il singolo (di vertice o di base) dal sentirsi chiamato in causa come samaritano.

E certi scivoloni della dirigenza ecclesiastica, anche a carattere di diritto giuridico, sia nel penale che nel finanziario, sembrano avvalorare quella che potrebbe essere definita la teocrazia fenomenologica del diritto, nonché della sapienza trascendentale.

La vicenda Unicredit, nonostante le magnificazioni del manager da parte di molti, specie della sx, è tutt’altro, a mio modesto parere di osservatore esterno, che l’emblema dell’efficientismo e del corretto procedere finanziario.

Come alcuni economisti già osservarono tempo fa, è il frutto della globalizzazione: di quel forsennato mito di espandersi e di aggregarsi per diventare grandi, senza troppo analizzare i pro e i contro, fidando spesso sull’indebitamento oltre ogni liceità logica.

Unicredit è sì diventato il quarto gruppo bancario europeo, ma un gruppo con il fiato corto che ha azzerato in poco tempo gli utili, impegnato capitali enormi senza trarne il giusto costrutto, e sempre alla ricerca (disperata) di nuovi capitali (petroldollari libici).

Sulla situazione di tale istituto già molti mesi fa ne avevo accennato in alcuni articoli.

Si è fatto ricorso nel settore bancario ai Tremonti bonds, si sono emesse obbligazioni e bonds per coprirne altri in scadenza, si è creato un’ingente eccedenza di personale ed è necessaria una forte ristrutturazione del sistema strutturale.

Se si aggiunge l’internazionalizzazione dell’istituto che è andato ad investire con molto rischio anche nei paesi dell’est europeo (ex paesi comunisti), rilevandone solo, per quanto è dato sapere, crediti in sofferenza e forse anche inesigibili, allora la strategia complessiva non risulta delle migliori.

Nulla di eccepibile, perciò, che gli azionisti di riferimento – le fondazioni bancarie con Cariverona in testa – abbiano dato il benservito a chi una simile situazione abbia fortemente voluto e generato.

Le fondazioni bancarie sono sorte in seguito ad una buona legge: la 218, comunemente detta Legge Amato.

Lo Stato, infatti, non avendo per il crescere continuo del Debito sovrano molti fondi disponibili, ha favorito che il “privato” (istituti finanziari) creasse società di tipo Onlus, atte a finanziare progetti sociali o artistici che diversamente non sarebbero potuti essere eseguiti, oppure associazioni a carattere di grande utilità sociale compreso il volontariato.

Le banche, che di norma detengono partecipazioni reciproche, hanno in parte, unitamente ad altri enti pure pubblici locali, trasferito proprie acquisizioni societarie nelle fondazioni, il cui ricavato dei dividendi percepiti, al netto delle spese, va riversato poi sul territorio in cui sono radicalizzate.

In questo modo si mantiene il controllo degli assetti azionari di riferimento e si potenzia, si preserva e si sviluppa il territorio.

Il crollo degli utili di Unicredit ha, nella realtà, sguarnito i rispettivi territori di pertinenza di significative risorse, perciò sia di recupero che di sviluppo. In pratica ha reso gli ingenti investimenti azionari improduttivi.

E rapportando le fondazioni al pensiero papale, queste ben si coniugano con quel concetto laico, pur se a radice cristiana, della solidarietà di Giovanni Paolo II, oppure della filantropia settoriale che anima alcune persone laiche.

Una solidarietà, tuttavia, che viene vanificata dalla globalizzazione di Unicredit (e di molte altre aziende anche manifatturiere): in quel privilegiare tatticamente la crescita in multinazionale snaturando l’assetto iniziale di servizio sul territorio, variando la radicalizzazione in ricerca spasmodica di possibili utili e localizzazioni temporaneamente favorevoli.

Oggi i vari raggruppamenti politici, tolto la Dx che per ora ha in Berlusconi il proprio leader e in Tremonti un possibile e valido sostituto, sono carenti di personaggi carismatici in grado di reggere con probabilità di successo una nuova linea politica e un possibile nuovo impatto elettorale.

Questa carenza di leadership cela dietro di sé una crisi culturale ed ideologica profonda, fatta di tentativi di aggregazione e di nuove divisioni, spesso alimentate da una classe dirigente che null’altro ha fatto se non che il fare politica come professione. Perciò un essere non politici, bensì mestieranti.

La storia nazionale di questi ultimi decenni ne è il paradigma inoppugnabile.

Il mai esistito Centro, di proclamata ispirazione sociale cristiana, presente da troppo tempo solo in ipotetiche e lontane, oltre che assai problematiche, nuove aggregazioni, non è in grado di darsi un’ideologia sociale attenta alla religione, basata sul servizio e sulla coerente testimonianza del proprio credere e incedere: una cultura nuova, diversa dal capitalismo e dal liberismo della Dx e alternativa al populismo e massimalismo socialista della Sx.

I gruppuscoli che si avvicinano e allontanano sono spesso antitetici nel personalismo dirigenziale e talora anche ideologico, dove il cesarismo viene coltivato quale modo di perpetuarsi elettoralmente, pur se con minimi risultati.

Non esiste alcun progetto concreto, ma solo un qualunquismo operativo che è l’unica ispirazione plausibile che li fa esistere.

La Sx, con il crollo economico/finanziario del sistema comunista, è andata in cachessia ideologica, priva al proprio interno, a seguito dell’intellettuale organico, di un sistema sociale dialettico e alternativo.

Ne la vecchia dirigenza, creata a suo tempo come nuova classe politica (di mestiere) per esercitare il potere e l’organigramma di partito, può suffragare un nuovo concetto sociale, incapace operativamente di fare altro se non che il mestiere della politica.

Perciò ci si divide tra nostalgici, populisti e progressisti, senza ben sapere dove poter andare.

La conseguenza di tutto ciò è la ricerca di un possibile papa nero, perciò esterno alle ipotetiche aggregazioni politiche, capace nella sua novità di dargli un’anima apparente capace di tenere unito un corpo da tempo disgiunto.

E ciò tanto al centro che alla sx: un totem elettorale.

Prodi, d’estrazione cattolica, fu per la Sx un papa nero; ma come tutti i papi neri un boomerang a breve termine, perché capace sì di unire provvisoriamente, ma di non poter reggere ideologicamente con un programma concreto le diverse anime che si fronteggiavano culturalmente.

E, strano a dirsi, oggi si cerca di opporre al capitalismo/liberismo di dx dei possibili candidati “capitalisti”, quali, stando ai nomi attuali, si possono considerare sia Montezemolo per il Centro che l’ipotetico (perché mai prese posizioni politiche di parte) Profumo per la Sx.

Tali discutibili scelte non saranno la panacea dei loro mali, anche se li dovesse portare alla vittoria di Pirro, come fu per Prodi a suo tempo.

Già oltre la sponda del Rubicone sta Fini, altro esponente da nomenclatura politica di professione, maggiormente dedito a pontificare principi costituzionali che a dimostrare di poterli risolvere.

Perché se tra il dire e il fare ci sta di mezzo il mare, così tra l’affermare e l’operare vi sta una coerenza democratica ed etica che l’uomo non possiede.

La democrazia è il fare secondo il volere dei più; ma in Italia, spesso, la si fa secondo il volere dei pochi, specie se da decenni asserragliati nelle stanze del potere.

Il giovane e ancor imberbe sindaco fiorentino – Matteo Renzi – nella sua agra dialettica politica, oltre che nella sua baldanza giovanile, vede nella vecchia nomenclatura del proprio partito lo scoglio al rinnovamento. Peccato, tuttavia, che il suo incedere garibaldino non sia suffragato da una sufficiente cultura in grado di dettare in seno al partito quel rinnovamento ideologico che la sx non gli ha potuto dare.

Tale problema non è solo del PD, ma anche del centro e della dx, perché troppi mestieranti hanno occupato l’agone politico.

E probabilmente, prima di conquistare una leadership propria nazionale, Renzi dovrà fare molta gavetta perché non è con due idee in croce e con la pura ambizione che si può dirigere un grande partito e, eventualmente, una nazione, ma con una visione complessiva delle varie problematiche che coinvolgono l’assetto sociale, quello strutturale, il mondo produttivo e il settore economico/finanziario.

Perciò, per ora, lo si lasci maturare nel declamare il suo personale e risicato mantra politico; perché se riuscirà a purgare il PD da un organigramma stantio corroso dalla ruggine dei decenni, avrà già reso un servigio al paese.

Poi vi sono gli emergenti gruppi populisti e qualunquisti, dove i vari leader più che fare politica offrono divertimento e colore - e attraggono pure gli illusi - anche se questi ingredienti non servono affatto a risolvere i problemi della nazione.

Più che un papa nero alla nazione serve un grande progetto democratico, ma per proporlo bisogna prima idearlo.

E nessun papabile nero mi pare averlo già pronto in tasca, specie se il suo reddito da capitalista, o il suo passato, è già un ostacolo insormontabile alla credibilità per l’elettorato.

Lo stato non è un’azienda dove il manager lavora e guadagna molto in poco tempo, mentre il dipendente suda e fa la fame se rimane senza occupazione.

La gente ha bisogno di risposte; e queste non si danno facendo sfoggio della propria opulenza e posizione, perché il servizio alla nazione lo si fa nell’essere disponibile a servire il popolo e non nell’essere un totem di momentaneo successo.

Il fare politica lo si può interpretare in vari modi, compreso il candidarsi per crearsi un reddito consistente e per fare più facilmente il proprio interesse, oppure per assurgere ad una carica prestigiosa; ma ciò non è servire la nazione, bensì essere solo un mestierante per fini propri.

E forse per questo oggi ci si schiera non tanto su un progetto condiviso, quanto sull’essere di Tizio, di Caio o di Sempronio. Salvo, dopo poco, quando l’interesse personale lo consiglia, dirottare il proprio “essere di” su qualcun altro o su sé stesso.

I vari Papi sopra elencati ci han dato, ciascuno, parte della loro cultura, talvolta assai religiosa, talora molto sociale: una cultura frutto del “loro” tempo.

Ma i concetti di base – amicizia, solidarietà, carità sociale, civiltà dell’amore – sono validi sia nel civile che nel religioso e spesso si sovrappongono come concetti indivisibili, sia per il credente che per l’agnostico.

La civiltà non è solo il possedere una cultura, ma il donarla al servizio di tutti.

E non vi può essere servizio senza tali principi sociali, specie se questi sono da millenni il frutto di quel pensiero sapienziale del vivere sociale e del progredire civile che i papi hanno solo aggiornato, ma non ideato.

Questi principi non sono dei possibili optional di un programma elettorale, specie se chi li proponesse avesse una grande disparità reddituale con la base.

Più che un papa nero, o bianco (leader politico di un determinato schieramento), serve un vero uomo: un candidato preparato, consapevole e, soprattutto che intenda donarsi alla nazione in base ad uno dei principi umani universali che diversi papi – e non solo loro - hanno ricordato. E, intorno a lui, altri uomini altrettanto preparati e capaci di anteporre l’interesse generale a quello privato.

E, soprattutto, serve coerenza e testimonianza: quella coerenza democratica e quella correttezza individuale che in molti leader attuali fu (è) spesso facilmente vilipesa e dimenticata sotto la spinta di passioni e interessi personali.

A dirigere una nazione vi può essere anche un laico o un dichiarato “pubblicano”, purché sia capace di traslare l’interesse suo nell’interesse generale; ma se vi è un cattolico, allora costui deve avere quelle doti, che la Chiesa da anni insegna (pur se talora con incoerenza dirigenziale), anche e soprattutto prima di accettare la candidatura a premier.

Il Bene comune tutti lo dichiarano e lo invocano, anche se la cultura del diritto, priva del dovere, lo fa diventare il solo bene di parte, perciò di una certa comunità.

Democrazia non è essere perfetti o infallibili; democrazia è rispettare il concetto democratico, dopo attenta analisi e discussione, del volere dei più, uniformandosi.

Perché in Parlamento non si dice “il PDL, o il PD, o l’UDC approva/ano”, bensì “La Camera, o Il Senato, approva”.

Il top manager, come papa nero, è una pia illusione, pur se possibile; perché per renderla reale il candidato dovrebbe prima procedere ad ideare un nuovo tipo di società produttiva, di capitale e di giusta retribuzione e ripartizione reddituale.

Ciò, tuttavia, contrasterebbe con tutto quello che finora ha perseguito e, soprattutto, percepito, al di là del fatto che si sia dichiarato cattolico o semplice capitalista … d’assalto, perciò globalizzato.



[1] - Rerum Novarum

domenica 26 settembre 2010

Il tempo, il dono, la storia e il benedire.

Questo breve e stringato articolo è un commento al breve post seguente.

Per intoppi telematici non è stato pubblicato sul blog dell’amico.

Con alcuni conoscenti ci scambiamo spesso, per studio e analisi, degli appunti, o dei commenti, che possono essere per noi interessanti per approfondire alcune questioni.

Per cui, in un intervento pubblico di un religioso, me lo son visto riprendere in alcune frasi: ripreso e ulteriormente sviscerato.

Perciò ho deciso di pubblicarlo pure qua, come se fosse un commento pubblicato su blog altrui, come nelle intenzioni doveva essere.

Come si nota in apertura gli ho dato pure un titolo; e per completezza ho aggiunto il pensiero che lo ha stimolato.

Buona settimana (un oggi sfidante..)

Mi risuona ancora nella mente, una fase sentita stamattina ad Assisi al Seminario di Retinopera: “Non posso non benedire l’oggi”.

Ed è vero.

I credenti non possono non benedire l’oggi se veramente credono che quello in cui vivono sia il “tempo”, il periodo storico, loro assegnato dal Signore, Re della storia, per espletare la loro vocazione particolare e dare un vero senso alla loro vita.

Ma l’oggi è anche il “tempo”, il periodo storico, in cui il non credente può comunque dare un senso alla propria esistenza e perseguire il conseguimento dei suoi giusti ideali terreni.

E allora, avanti, anche controcorrente, a vivere questo tempo estremamente complesso e sfidante che ci è dato da vivere.

Commenti sul blog http://www.giuseppesbardella.blogspot.com

Buona settimana.

Non vorrei entrare tanto nel “tempo/oggi” che ci ha dato il buon Dio, ma soffermarmi sulla “dimensione” tempo in filosofia.

Questa, infatti, non è l’assommarsi di secondi che creano ore, giorni, anni e perciò una vita, ma una di quelle varianti geometriche dimensionali utili per comprendere gli eventi: in pratica una variante variabile, perciò un incedere incostante.

Il tempo, scientificamente, varia in base alla velocità e più questa cresce più il tempo rallenta.

Posto, come ipotesi terrena, che Tizio compia un viaggio in auto Torino/Venezia alla velocità media di 140 kmh, costui avrà vissuto un secondo in meno di chi è rimasto fermo a casa propria. Se usasse la Freccia Rossa che viaggiasse alla velocità di 300 kmh, il tempo percepito come utile sarebbe quasi triplicato.

Nei decenni scorsi sono stati fatti appositi esperimenti per dimostrare ciò, usando 3 orologi atomici: il primo mantenendolo a terra, il secondo su un B52 che viaggiava da est a ovest a velocità costante stabilita, il terzo sempre su un B52 che viaggiava da ovest ad est alla stessa velocità. L’esperimento dimostrò che, là dove l’aereo assommava oltre alla propria velocità quella della rotazione terrestre, l’orologio alla fine dell’esperimento dichiarava oltre 15 minuti primi di differenza in meno rispetto a quello rimasto sulla terra.

In via teorica, assommando ciò alla teologia, il risultato del ragionamento sarebbe ininfluente nel rapporto tra uomo e Dio, se si considera il “tempo/oggi” come dono divino che ci immetta in una determinata realtà esistenziale. Da cui, il tuo ragionamento francescano potrebbe essere considerato esatto.

Ciò, tuttavia, è solo illusorio perché, in effetti, Dio non dona un periodo di vita predefinito, ma chiama unicamente l’individuo alla vita.

Che significa? Che si antepone una concezione fenomenologica dell’evento – la tua espressa – ad una visione reale e complessiva della Storia.

Già i padri della Chiesa, partendo da Anselmo d’Aosta, si sono cimentati in questi distinguo escatologici e esistenziali, giungendo fino ad Hegel, che definì Dio l’assoluta Signoria della devastazione della storia.

Ciò prima che il tempo fosse giustamente compreso come un’unità geometrica di misura.

Su ciò si innestò il discorso della preveggenza di Dio, il concetto di Grazia e di Salvezza, perciò della predestinazione o, in concezione materialista, del Fato.

Credo che Dio chiami alla vita nell’amare, perciò facendo un dono; proprio perché amare è donare.

Dio, perciò, può prevedere, ma non predestinare. E quando il personalismo giunge ad essere in parte giansenista o manicheo, allora il cristiano crede solo nel caso (escatologia materiale – Dio canaanita) e non in un Dio Persona (escatologia cosmica eleusina). In pratica è un “finto” cristiano. Più che cristiano è un fariseo.

Il Dono va vissuto nel costruire la propria storia. E la storia la si costruisce con la volontà, con l’abnegazione convinta, con l’essere persona/uomo sociale e non comunitario, perciò individuale.

Il tempo della durata della nostra storia non lo fissa Dio, ma noi con il nostro stesso incedere e con le nostre stesse scelte che possono arrecare vizi o virtù, salute o malattia, sia che si ragioni su una procedura genetica che occasionale.

Vi è l’assoluta libertà di operare nel mutuo consenso col creatore, oppure procedere per proprio conto.

Ogni fatto che avviene pone una scelta, anche nella malattia inattesa o genetica, o dovuta a fattori a noi estranei.

E la scelta è nell’accettare la vita sempre, perché non è il tempo che la valorizza, ma solo la nostra volontà.

Perciò il dono è la possibilità di ogni uomo di costruire la propria storia; e questa sarà fruttifera se sarà in sintonia con il donare/amare che ha prodotto in Dio la nostra chiamata alla vita.

E non vi è differenza sostanziale tra essere cristiano o materialista, perché l’essere Società impone il dovere non di essere comunità, perciò ghetto, bensì l’essere Popolo nell’uguaglianza pur nella diversità delle mansioni, dei ruoli o delle capacità.

Diversamente vi è solo individualismo; e dove questo c’è vi è solo il principio di intendere il proprio diritto a scapito altrui, con tutto ciò che questo comporta.

E il “benedire” dove sta? Nel vero senso del termine, erroneamente traslato, dal cristianesimo, dall’uomo a Dio.

Dio non ha bisogno di benedire l’uomo, perché a lui ha già dato tutto nel dono della vita con un gesto unilaterale d’amore. Perciò è l’uomo che deve benedire (bene dicere) Dio.

E il benedire è il costruire la propria storia non nel tempo che ci è concesso (predestinazione o fatalismo), ma che noi ci concediamo, accettando ciò che siamo nella conversione (miglioria) quotidiana del nostro essere persona, perciò cittadino.