mercoledì 9 luglio 2014

I convegni del … nulla.


 

Già tempo fa m’interessai dei periodici Convegni Ue dei Capi di Stato, definendoli – concisamente – un inutile spreco di risorse per 2 motivi.
La prima di questione economica, per il costo che l’inevitabile codazzo di uomini e mezzi comporta in simili occasioni per ovvie ragioni logistiche e di sicurezza, proprio nell’era della digitalizzazione informatica che permette videoconferenze tra i vari soggetti interessati senza che questi si muovano dalla propria sede di un solo metro.
La seconda di carattere politico, perché al di là dei trionfalistici – e inutili – comunicati finali sui risultati raggiunti, questi “proclami”, nel reale contenuto e significato dell’asettico comunicato, indicano in sostanza sia l’inutilità di questi convegni, sia il fallimento degli stessi, con annessa incapacità di gestire le questioni e la crisi.
Nulla di strano, quindi, se pure anche quello appena avvenuto non sia sfuggito alla stessa regola.
 
Chi ha buona memoria, e pensa con la testa propria e non con il mentalismo mediatico o del premier di turno, avrà ben presente che nelle varie conferenze stampa tutti – e dico tutti – i premier italiani hanno inanellato uno dietro l’altro i risultati raggiunti, come se questi risultati fossero delle pietre miliari per la politica italiana.
In effetti, questi risultati in pratica non sono mai esistiti e, al contrario, sono stati spesso dei diktat che abbiamo dovuto subire in primis dalla Merkel. Non solo: gli ultimi premier del Governo italiano sono stati … voluti e nominati … all’estero in modo indiretto.
E, caso strano, la stessa sorte ha subito sia la Grecia sia il Portogallo, gli altri 2 paesi massacrati economicamente dai diktat Ue.
 
Monti affermava che con la sua credibilità carismatica s’era salvato l’Italia dal baratro e dal finire come la Grecia. E appunto perché lui era credibile in ambito Ue ottenevamo (secondo lui) concessioni e benefici.
Va da sé che abbia strangolato tutta l’economia italiana, portando gradualmente la disoccupazione verso il 15% ufficiale; perché, volenti o nolenti, abbiamo circa più di un decimo delle persone in età lavorativa disoccupate.
I fallimenti delle aziende non hanno mai raggiunto, dal dopoguerra, una percentuale e una quantità così alta; mentre oltre 110 mila imprese hanno chiuso i battenti, creando circa 1,5 milioni di nuovi disoccupati. Ufficialmente abbiamo circa 3,3 mln di disoccupati, ai quali vanno aggiunti quelli non ufficiali o con reddito miserevole o in Cig; sommando ai quali i circa 3,5 mln di dipendenti pubblici, gli oltre 16 mln di pensionati e gli 8 mln studenti, ben si capisce come faccia poi una nazione a sostenersi economicamente. Se poi si aggiungono a queste categorie le casalinghe e gli infanti, si giunge alla tragica conclusione che il vero peso produttivo di tutta la nazione cada su circa il 35% dei cittadini.
Certo, il Pil somma tutti gli emolumenti percepiti. Tuttavia la stragrande maggioranza di questi emolumenti sono a carico dello Stato, direttamente (dipendenti) o indirettamente (Inps: pensionati).
 
Letta, dal canto suo, vantava la sua alta considerazione nelle cancellerie internazionali, tanto che, come diceva, veniva considerato uno con le palle di acciaio. Tuttavia l’acciaio è una lega pesante, tanto da affondarlo nel mare tumultuoso e burrascoso del Pd, proprio da chi continuava – a parole – a gridare la sua fedeltà al Governo: Renzi.
Il suo mandato come premier ha seguito la falsariga finanziaria montiana, tanto da affossare ulteriormente l’economia italiana.
 
Ora vi è Renzi - esaltato “novello dittatore” della Repubblica Italiana, secondo la considerazione della minoranza Pd - pronto e svelto in ciance e in promesse, senza però, finora, aver combinato nulla di nuovo.
Ai suoi predecessori, che vedevamo la ripresa dietro l’angolo – per Monti forse quello in … Sudafrica; per Letta già timidamente in atto per un miserevole 0,1% in un mese – contrappone il suo mantra: non siamo ancora fuori della crisi. Il che è innegabilmente vero, come è vero che con qualsiasi riforma di Camera e Senato non si creerà un solo nuovo posto di lavoro, come l’eventuale nuova assunzione nella pubblica amministrazione di 15.000 giovani – ammesso che ciò avvenga – non risolverà affatto l’altissima percentuale di disoccupazione interna, non riducendo neppure il mastodontico apparato statale di dipendenti se non di miserevoli 45.000 unità, ammesso che i soggetti interessati accettino di andare in quiescenza a metà stipendio.
Molti possono ritenere che il poco è sempre meglio di niente. È ovvio sottolineare che con questi numeri Renzi non porterà affatto la disoccupazione a una sola cifra (perciò sotto il 10%) - come in una sparata populista ha affermato -; salvo poi nel Def economico dichiarare che questa verrà ridotta al 12% entro il 2017.
Campa cavallo che l’erba la cresce.
La stessa cosa vale per le “sue” riforme, per le quali ora ha chiesto 1.000 giorni di tempo contro l’una al mese che trionfalisticamente aveva all’inizio del suo mandato dichiarato.
 
Secondo Renzi la posizione italiana al recente vertice Ue ha ottenuto una grande vittoria che, sinceramente, mi è impossibile vedere, anche perché le regole sono sempre inalterate, mentre il nostro Debito sovrano cresce inesorabilmente e viaggia sui 2.200 mld. In pratica intorno al 140% del Pil.
Perciò, ammesso che la Commissione Ue conceda una deroga al pareggio di bilancio e nonostante che l’anomalo – secondo i tedeschi - operato di Draghi alla Bce abbia ridotto notevolmente il monte interessi sui Titoli sovrani nazionali, sarà molto difficile avere risorse disponibili per rilanciare l’economia.
Squinzi afferma che l’Italia non sta più sul baratro, anche perché forse, sul bordo non ci sta più, ma c’è … caduta dentro. Infatti, le aziende continuano a chiudere e a fallire e la disoccupazione cresce.
 
Elencare tutte le promesse inattuate di Renzi sarebbe facile, come è facile prevedere che la copertura una tantum trovata quest’anno per gli 80 € “elettorali” - non è forse voto di scambio? – nel 2015 imporranno una manovra di almeno 20 mld di €, quasi uguale a quella capestro di Monti. Senza calcolare che con le nuove tasse, proprie e improprie del governo Renzi, la tassazione ha raggiunto un record storico nazionale mai toccato dall’inizio del Regno d’Italia, perciò non solo della Repubblica. Record che ci pone tra i 28 Paesi Ue all’invidiabile primo posto.
Ci si affida ad un’auspicata flebile ripresa, che però gli enti interessati alla previsione correggono continuamente al ribasso. Perciò, se i prossimi mesi saranno a Pil prossimo allo zero o leggermente negativo, una manovra correttiva sarà forzatamente necessaria già in autunno.
 
L’Ue, per accontentare tutti nei comunicati finali, punta alla flessibilità (???) sui bilanci, ricorrendo agli strumenti già previsti nei trattati.
Ciò significa che nulla cambierà.
Renzi, perciò, può benissimo dichiarare fiero i grandi risultati ottenuti.
Salvo poi, nel  suo discorso al Parlamento Ue, tornare alla carica sulla tematica, per vedersi subito “sbertucciato” dal capogruppo Ppe Manfred Weber e, poco dopo, anche dal governatore della Bundesbank Jens Weidmann. Non a caso entrambi tedeschi.
Perché, in effetti, condivido le preoccupazioni tedesche (anche se interessate) riassumibili in: dove Renzi prenderà i soldi considerato il costo dell’apparato statale e l’ingente Debito sovrano che l’Italia ha?
Sforare il debito è facile, magari aggiungendo altri 100/150 mld nel tentativo di rilanciare i consumi e abbassando l’imposizione fiscale. Però, se la ripresa probabilmente sarà comunque lenta e inefficace, ci ritroveremmo con un’Italia ulteriormente zavorrata e sempre più malata, buttando alle ortiche tutti i sacrifici – più o meno giustamente – fatti.
 
L’amletico dilemma è: come rilanciare il Pil e con questo la crescita?
Abolendo il Senato o facendo altre riforme inutili ai fini macroeconomici e adatte solo a garantire il potere ad un certo gruppo dirigente a scapito della democrazia popolare?
Oppure  snellendo drasticamente il mastodontico apparato statale, creando ancora almeno un altro milione di disoccupati o di pensionati?
Oppure  sforando il bilancio per ridurre la tassazione diretta e indiretta?
 
Credo che in Italia, ma pure in  Ue, non vi sia una ricetta utile a risolvere il problema della disoccupazione, perché se la disoccupazione esiste è perché manca il lavoro e non vi è più interesse a fare Impresa.
Negli ultimi decenni, infatti, con la Legge Amato che parificava le banche commerciali a quelle d’affari si è creato il presupposto dell’attuale crisi, seguendo l’esempio americano che, non per nulla, è stato l’origine della crisi globale.
I pratica si è stabilito che non era più conveniente investire nel Lavoro, ma che fosse molto più redditizio investire nel finanziario, perciò nell’aleatorio (Derivati).
Non si è capito – o non si è voluto capire, ignorandolo – che non vi può essere per molto Finanza senza Impresa, perché viene a mancare il valore vero e reale della Produttività, la sola in grado di creare Reddito e Lavoro.
 
Una delle leggi e delle riforme oggi necessarie – in pratica la principale – è quella di poter finanziare le imprese manifatturiere a costi bassi, agendo per legge sui tassi: stabilendo un tasso di usura invalicabile.
La Bce di Draghi offre alle banche danaro allo 0,15%, vincolandolo al finanziamento delle aziende. Quindi le risorse sono già disponibili.
Però le aziende si trovano a sostenere poi tassi alti nella forbice 5%-10%, che con le aggiunte dei vari oneri e balzelli possono raggiungere in certi casi anche il 15%. Un costo impossibile da sopportare – oggi – nel fare impresa.
Perciò, se Renzi vuole effettivamente fare le riforme e rilanciare la crescita, stabilisca in comunione con l’Ue dei tassi usura per le banche, senza i quali mai ci sarà voglia e spirito di impresa.
Si fa impresa solo se vi è convenienza e utilità,  mai se costrizione e perdita.
 
Con l’aumento dell’imposta sulle rendite finanziare al 26% il governo Renzi va nella direzione opposta a quella di favorire l’impresa, creando un ulteriore baratro tra redditi di Titoli sovrani e redditi da impresa. In pratica, considerata la tassazione doppia, sottraendo i capitali necessari alle aziende, specie a quelle quotate al Mercato che per varie ragioni sono costrette a rafforzare la capitalizzazione per far fronte ai danni della crisi.
Si tolgono risorse al lavoro per darle al Debito.
 
Avere un’Ue nominale non serve a nessuno; e prima o poi si giungerà alla sua disgregazione, perché non basta la moneta Euro a fare il collante tra 28 Stati.
Servono regole uniformi sovranazionali che prevedano: un costo (tassazione) del lavoro uguale ovunque, un costo del danaro uguale ovunque, un’imposizione sui redditi uguale ovunque, una ri-localizzazione delle imprese sui territori con un progetto comunitario, in grado di supportare i vari stati nel rendere le imprese soggetti stabili e giuridici del territorio.
Perché senza impresa  non vi è occupazione, senza occupazione non vi è consumo, senza consumo non vi è crescita e sviluppo.
 
I convegni Ue finora sono stati solo passerelle mediatiche per i vari Capi di Stato o di Governo, inutili - o assai marginali - ai fini dell’integrazione comunitaria di tipo federale.
Non hanno affrontato né risolto la crisi, acuendola per lo più nelle nazioni deboli.
Tutti han cercato di difendere le posizioni acquisite, spesso a scapito di quelle altrui. Ciò nonostante i comunicati ufficiali finali.
In pratica si possono definire in modo perfetto i convegni del nulla.
 
Le ultime elezioni comunitarie hanno evidenziato l’avanzata degli euroscettici anche in nazioni – come la Francia – dove la situazione è ben diversa economicamente, anche se non florida.
Si dice che il Pd renziano abbia contrastato questa deriva. In effetti, è il contrario, perché proprio il Pd renziano può essere considerato uno dei partiti maggiormente euroscettici in ambito Ue. Basti citare il suo stesso intervento al Parlamento di Strasburgo  e le sue continue idiosincrasie politiche rispetto alla Germania merkelliana, ad là dei sorrisini di facciata.
Renzi sarà pure diplomaticamente rozzo e con l’istinto autistico del dover essere il gradasso Capitan Fracassa. Tuttavia chi crede nell’Ue non infarcisce i suoi discorsi di frasi pessimistiche sulla fine dell’Ue, anche se condizionate  dai tanti “se”.
Perché a nulla serve scontrarsi rissosamente - come i bulli - con fior di personaggi, che per capacità, ruolo e cultura lo sovrastano nettamente. Anzi, da questi dovrebbe imparare dove e come saper intervenire, perché i moniti sarà pur vero che non arrivano direttamente dal Governo tedesco, ma da via parallele per far capire pure ai sordi l’antifona.
 
Quest’Ue è di là da venire.
La crisi non penso sia finita, perché tale potrà essere considerata solo quando la disoccupazione scenderà ai livelli prossimi ai precedenti.
La disoccupazione salirà ancora almeno fino al 2015, indebolendo ulteriormente territori e popoli. Ciò significa che altre aziende saranno costrette a chiudere.
Con la sola Finanza non si campa, anche perché la crisi attuale ha dimostrato che la speculazione ha dilaniato pure capitali e risorse di tutti gli istituti finanziari, molti dei quali han dovuto correre ai ripari per non fallire, talora pure con gli aiuti dei vari stati.
Relativamente all’Italia mi è impossibile capire come si possano rilanciare crescita e consumi con stipendi di molto inferiori a quelli di altre nazioni sul nostro livello, neppure se elemosinati dagli 80 € mensili – 1.000 o 1.100 non fanno differenza – e da pensioni estremamente basse poco sopra i 500 €.
Se si vuole costruire e mantenere l’Ue  bisogna cambiare passo, sia nei paesi mediterranei sia in quelli nordici.
Perché il rischio reale è che le nazioni siano sempre più commissariate nei propri bilanci, facendo montare quell’avversione popolare che per ora si è solo parzialmente manifestata.