venerdì 28 febbraio 2014

Christian demons and Christian ghosts.

ovvero:

Simbiologia del boy scout.


Pochi decenni fa la gente delle mie valli natie era solita indicare (chiamare) i filibustieri della Dc con l’appellativo variato del partito. Perciò dalla Democrazia Cristiana si giungeva ai Demoni cristiani.
Ovviamente con tale appellativo si intendevano quei politici che usavano lo scudo crociato per tutt’altri fini che quelli dell’essere, operativamente, … “cristiani”.

Nella Bibbia, perciò anche nei Vangeli, il lemma “demone  non coincide con quello di “diavolo”. Sono 2 entità diverse.
Diavolo è il tentatore, perciò il maligno che si contrappone a Dio. In principio Lucifero era il più bello degli Arcangeli; ma dopo la sua ribellione a Dio fu precipitato da costui negli Inferi. Da questa lotta primordiale nasce la sordida guerra tra Dio e Lucifero, principe dei diavoli.
Demone è un essere malefico perverso che pervade e invade corpi e spiriti (menti), portandoli a comportamenti e azioni fuori della norma.
Pure in italiano vi è una differenza in tal senso, riassumibile nella diversità d’uso comune tra indemoniato e indiavolato.
Per semplificare il diavolo è il tentatore, colui che cerca di portare alla dannazione le anime circuendone la volontà e la ragione. Mentre il demone è uno spirito maligno che si impossessa dei corpi, sia degli uomini sia degli animali, indipendentemente dalla loro volontà e consapevolezza.

Gli eventi politici di questi giorni hanno lasciato sconcertate molte persone, soprattutto tra gli aderenti del Pd. Un tesserato da decenni – dal Pci al Pd – mi confidava nauseato nei giorni scorsi che il Pd è invaso da “demoni e fantasmi della vecchia Dc”. Ragion per cui non avrebbe più rinnovato la tessera, chiedendosi: “Dov’è finito il partito di Sx?”.  E aggiungendo: “All’inizio credevo che fosse l’uomo del cambiamento. Ora ho capito che è come gli altri; anzi è anche peggio di tutti gli altri.
L’uomo, ovviamente, è Matteo Renzi.
Non per nulla le adesioni alle primarie Pd in Lombardia hanno visto una scarsa affluenza, pur a solo un bimestre di distanza da quelle per la segreteria del partito.

Ho ascoltato il discorso programmatico fatto al Senato e mi ha fatto … pena. Di programmatico, ovviamente, conteneva solo idee generali: ripetitivo, ridondante, attaccabrighe, supponente, arrogante,  sbeffeggiante  e … via dicendo. Un discorso da comizio elettorale, forse idoneo ad un posticcio palco d’assito in pubblica piazza per arringare la plebe, fatto non da un politico maturo ma da un saccente ragazzo arrembante.
Il contorno dei senatori è stato ovviamente pari all’intonazione del discorso, con un solo vero breve applauso quando Renzi ha citato i 2 marò ancora trattenuti in India. Ovviamente l’applauso era per i marò e non per Renzi.
Alla fine un brevissimo accenno d’applauso di un paio di secondi, fatto per lo più dai deputati renziani.

Al di là delle impressioni che Renzi ha suscitato in questo ultimo periodo, l’uomo – forse sarebbe meglio: ragazzo - un piglio autoritario, con tendenza al dittatoriale, ce l’ha. Come ha tante idee in testa sul fare, quanto la confusa ideologia per realizzarle che manifesta. Ha poco di politico; ha molto di grimpeur partitico.
È un corpo avulso del Pd. Un demone – per prendere in prestito la citazione del tesserato – che si è impossessato del Pd, snaturandone la natura e l’impostazione. Un demone che trae la sua origine politica non a caso dalla Dc. Un fantasma tornato sul luogo del … delitto.
Nel Pd vi sono molti ex Dc. Sono il retaggio della malriuscita fusione voluta da Veltroni nell’intento di formare un grande partito in grado di fronteggiare Berlusconi.  L’Ulivo fu il tentativo maldestro di coalizione/partito, naufragato ben presto nella palude di concezioni e interessi diversi tra mondo cattolico orientato a sinistra e Pci (poi Ds) in lenta disgregazione.  L’Ulivo è l’antesignano amorfo e grezzo del Pd.
Basti citare come origine Dc, in decrescenza d’età: Prodi, Letta, Renzi. Tralasciando gli altri comprimari.

Da esperto simbiologo e da analista sottolineerei il naso particolare di Renzi, assai simile a quello di Pinocchio, per di più accentuato dalla tipologia del suo mento. Oltre all’attaccatura dei capelli sulla fronte, che lo fa apparire più che un bullo di periferia un violento del sottobosco sociale. Non per nulla predilige: le mani in tasca, il presentarsi in maniche di camicia arrotolate, l’aggredire il discorso e l’ascoltatore con quella modalità discorsiva che è sì toscana nella dizione, ma soprattutto bifolca e “bullista” nella terminologia.
Dire che Renzi sia un bugiardo non è esatto. Sta però di fatto che, come il deputato grillino alla Camera ha ben espresso nelle dichiarazioni di voto – citandole tutte esattamente con tanto di data -, la sua coerenza rispetto alle sue dichiarazioni ufficiali con Letta – perciò col Governo precedente, peraltro gestito dal Pd -  sia proprio l’esatto opposto. E non solo per Letta.
Se Pinocchio è stato idealizzato nella testa con una certa somiglianza a Renzi, la fisionomia avrà pure le sue buone ragioni tratte dall’esperienza sapienziale. Per non parlare della simbiologia analogica.
Perciò, come alcuni articoli apparsi sui media hanno evidenziato, le parole di Renzi spesso (sempre) bisogna intenderle l’esatto opposto. Dice bianco? Bene; allora intendiamo tutti nero!

Prendendo lo spunto dal suo discorso al Senato intendo ricordare la sua giustificazione alla “presa del potere” nelle Idi di febbraio ai danni di Letta.
Lui afferma che questo è l’ultima chance che rimane all’Italia per non sprofondare e per riformarsi in tutto. E appunto per questo il “suo” governo è nato. Con lui mai più vi saranno larghe intese. Ragion per cui si propone di governare fino al 2018 (Sic!) proprio grazie alle larghe intese.
Degni di sottolineatura sono i suoi lapsus/gaffe, inserti subliminali del suo incontrollabile inconscio.
Il primo lo pronuncia poco dopo aver ottenuto la nomina ufficiale a premier, nella conferenza stampa al Quirinale.
Dilungandosi sui pregi della sua età e delle nuove generazioni, dice che ciò è di incentivo alla politica per tutti i giovani, perché se uno come me può in questo paese diventare premier, allora lo possono fare tutti (i giovani).
Sicché se ne deduce, secondo logica, che l’Italia debba essere per lui il paese dei gonzi, dove tutti, basta che siano giovani arrembanti, possono fare il Capo del governo. Nel suo falso perbenismo Renzi con “uno come me”, che intende forse la normalità sua anziché l’eccellenza delle capacità?
Il secondo, ancor più significativo, lo esterna alla fine del suo discorso programmatico quando afferma che Questa è l’ultima chance che abbiamo. Non vi sono più alibi. Se falliamo la colpa e mia.
Già! Perché il fallimento (preannunciato di questo esuberante rampollo) sarà la fine della sua carriera politica. Non per nulla le opposizioni minoritarie interne lo hanno incitato a entrare nella mischia, per bruciarlo facilmente, togliendoselo definitivamente di torno.
Ma se la colpa per tanto audace orgoglio di Renzi sarà solo sua per molteplici ragioni – arroganza, protervia, presunzione, supponenza, iattanza del potere, … - c’è di sicuro che il conto assai salato dei guasti sarà quello degli italiani.
Infatti non basta attorniarsi di “squinzie e di squinzi” – per usare un’espressione toscana – per garantirsi il successo. Perché le pari opportunità vanno bene, ma in un governo nazionale sarebbe meglio preferire la capacità, l’esperienza e la competenza nella … pari opportunità.

Alibi non ce ne sono più, ma l’inesperienza avanza e pretende giustificazioni populiste d’ammansire ai golosi media. Il caso sul Decreto Roma capitale ha già posto in essere il violento contrasto nel Pd tra le varie correnti. Non per nulla Marino fu a suo tempo, prima di diventare sindaco della capitale, un diretto concorrente di Renzi alla segreteria. Sicché Palazzo Chigi l’alibi lo prende subito al volo, ripetendo lo scaricabarile consueto: il pasticcio non lo abbiamo fatto noi. Vero, quello ha molti padri; però ora lo ha “cucinato” Renzi & C.
Il suo discorso programmatico è un populismo da piazza, dove parole chiave come coraggio, sogno, visione, audacia, velocità e innovazione ridondano continuamente ad ogni frase. Il discorso ha messo in risalto che Renzi è un affabulatore scontroso, non un oratore.
Quando fu eletto segretario dichiarò che nella prima settimana dell’anno si sarebbe chiuso con la nuova Legge elettorale. Poi, con l’investitura a Premier, che questa sarebbe diventata operativa entro la fine di febbraio. Per cui ora ci si aspetta che il 28 venga approvata a tempo di record … mondiale.
La realtà, tuttavia, è molto diversa, perché Renzi a parole promette ciò che poi non può mantenere. E questo non può essere catalogato come una semplice ragazzata, ma la dichiarazione inconscia della propria incapacità ad operare.

Gli ultimi discorsi programmatici, dei vari governi succedutisi, sono stati tanto ariosi quanto imponenti. Quasi secolari nella tempistica necessaria all’attuazione, come lo erano quelli dei governi Dc, che duravano così tanto d’essere spesso definiti balneari. Non sfugge a questo andazzo pure il discorso di Renzi.
Letta promise un governo fino al 2018; e nonostante le sue continue dichiarazioni di grande compattezza e solidità abbiamo visto come sia finito per una congiura da palazzo. Prodi fece lo stesso, anche se aveva una maggioranza striminzita e risicata.
Monti l’ebbe più ampia, ma nonostante la spocchia finì soprattutto per la propria insipienza.
Tutti “promettevano” cambiamenti e sanificazione dai mali nazionali, senza però fare il conto con l’oste. Oste che sarebbe poi  l’Ue e, soprattutto, la capacità di saper leggere e risolvere la crisi economica, derivata da quella finanziaria.
Renzi, con la baldanza, l’entusiasmo e la vitalità propria dei giovani potrebbe essere una risorsa per la nazione. Potrebbe esserlo se avesse maggiore rispetto della democrazia e delle istituzioni, maggiore sagacia, maggiore educazione e predisposizione a imparare e a capire dove non funziona la macchina statale. Oltre, ovviamente, a maggiore preparazione e cultura.
Potrebbe esserlo se abbandonerà quell’insipienza culturale che lo ha spinto ad andare in Senato a tenere una Lectio magistralis a quelli che nella realtà politica e istituzionale ne sanno molto più di lui.
Capire e vedere i guai nostri è cosa ovvia per tutti. Il correggerli e saper far funzionare ciò che è inceppato da decenni è solo per pochissimi.

Renzi con questo governo promette sfracelli. Ma se le sue baldanzose promesse non avranno un riscontro immediato e positivo, il suo durare dipenderà solo dal tempo di approvazione della legge elettorale e dalla paura di Alfano di subire la stessa sorte di Fini. Oltre, per di più, alla possibile disgregazione del Pd.
Come Letta e Monti avrà, subito, un tracollo di consenso nel popolo; consenso che pure ora non è alto nella società civile e neanche nel partito.
Personalmente credo che l’assetto istituzionale vada variato gradualmente e con ponderazione, perché al Paese non serve alcuna dittatura finanziaria o politica, pur se ammantate dalla patina istituzionale di democrazia. Meno che meno quella di un nuovo “ducetto”, intento solo a fare di testa sua fregandosene sia del partito, sia della maggioranza, sia dell’opposizione.
Perché, se alla fine la colpa – ma ne dubito assai – se l’accollerà Renzi, i guasti all’istituzione e i danni economici alla nazione li dovranno subire e pagare i cittadini.

Un ultimo accenno alla promessa riduzione a 2 cifre del costo del lavoro, intesa come tassazione del lavoro. Fermo restando che per 2 cifre si possono intendere sia il 10% che il 99%.
Tutti la vogliono realizzare, ma ciò imporrà per il Fiscal compact il dover reperire tali risorse altrove. Il che significherà … nuove tasse.
Renzi non ha la bacchetta magica per risolvere d’incanto i problemi italiani; e neppure è Dio da poter fare miracoli. In compenso è un cattolico praticante “sui generis”, considerato cosa dice e cosa fa.
Miracolo non è che lo Stato paghi i propri debiti dovuti alle imprese, cifra che comunque già di per sé e rilevantissima (quasi 100 mld). Il fare ricorso alla Cassa depositi e prestiti non è altro che un giroconto interno che sposta il debito da un cassetto all’altro dei contenitori. I debiti, oltre ad esserci, resteranno attivi sul groppone di tutti.
Altri, più titolati e preparati di lui, hanno fallito in precedenza. Pare improbabile che lui ci riesca; anche se certi tecnici si sono rivelati tali solo nella nomea, risultando rettori solo per lignaggio.

Voglio chiudere con una vignetta umoristica.
Mi immagino Renzi recarsi al prossimo convegno Ue per “istruire” la Merkel, come ha fatto con i senatori.
Me lo immagino con le braghette corte di boy scout, con il fazzoletto al collo e il gagliardetto in mano.
Su questo, ovviamente, vi sarà l’effigie della … giovane marmotta.
Dietro a lui il codazzo ossequente e pimpante delle altre … giovani marmotte.

Per il bene dell’Italia mi auguro di aver sbagliato totalmente analisi e studio.

 

giovedì 6 febbraio 2014

Viaggiando in sociologia tra l’applaudire e il contestare.


Mi sono spesso chiesto, da analista, quale sia la molla che fa scattare in un individuo l’applauso. Ovviamente non quello che nasce spontaneo nel cuore improvviso, ma quello che contagia la folla in certi eventi.
Sincerità, contagio emozionale, paura d’essere  additati  o riconosciuti come diversi?
Di certo vi è che spesso ciò avviene anche senza ragione; o almeno non è  percepita nel conscio dall’individuo che esegue l’applauso, trascinato nel gorgo dal comportamento della massa.
La contestazione spesso segue cliché diversi da quello dell’applauso e di norma non è così trascinante psicologicamente, o contagiante.
L’applauso è empatico; la contestazione è motivata: è una dissociazione.
Ciò per un semplice motivo: ci vuole maggior coraggio a contestare, perciò a rischiare, che non con il semplice applaudire. La contestazione ha stimoli di molto maggiori a quelli dell’applauso e di norma non è di una maggioranza, bensì di una minoranza. È un applauso … rovesciato molto più intenso.
L’applaudire è restrittivo, momentaneo e non vincolante. La contestazione, invece, è profonda, causata e quasi sempre progressiva; non è mai subitanea o improvvisa, a meno che la si scambi per un moto fulmineo di ribellione.
E come applaudire non vuol dire condividere tutto, così contestare non significa essere in guerra con tutti.

L’applauso può essere quasi sempre un moto provvisorio interiore, sia che sia forzato sia che sia spontaneo. È un assenso parziale più o meno giustificato. Assai spesso, nei convegni o nelle conferenze, un atto di cortesia: un modo per ringraziare il relatore.
La contestazione, invece, è prodotta da una coercizione sociale che  almeno è tale nell’individuo; il soggetto vi è quasi costretto da eventi o atti che restringono il suo campo operativo fisico, sociale o intellettuale.
Nella contestazione l’individuo esprime il dissenso e spesso pure la rabbia, sentendosi vincolato nel proprio diritto, o molto limitato.           

Il discorso di Napolitano al Parlamento Ue ha avuto entrambe le tematiche in oggetto: applausi a gogò – quasi formali e ritmati da un copione ormai istituzionalizzato – e la contestazione dei Leghisti. Tant’è che sono stati espulsi dall’aula Borghezio e Castelli – (a detta del cronista Rai)   -; ma se Borghezio è incline ad essere protagonista folcloristico, oltre che rozzo come la sua mole, ben diverso è Castelli in ponderazione, tra l’altro in passato anche valido ministro della Repubblica.
La politica ha i suoi ritmati momenti. E la contestazione a Napolitano può essere anche giustificata in modo semplicistico col fatto che contestare il suo discorso equivaleva a contestare l’Ue e l’.
Tuttavia credo che ciò sia abbastanza riduttivo, considerato che la contestazione è avvenuta proprio nel momento più significativo, patriottico e nazionalista di Napolitano, mentre si batteva con veemenza contro l’austerità imposta ai paesi deboli, foriera di povertà, di disoccupazione e di crollo del Pil. Pur se il momento esatto in cui esplode è quando accenna ai vari populismi nazionali.
Perciò, andando oltre il semplice fattore di opportunismo politico leghista, la motivazione reale potrebbe essere recepita nell’avallo, da parte di Napolitano, di precise scelte politiche (sicuramente) piovute dall’alto, compreso l’affossamento da parte dell’Alta Finanza, con l’attacco allo spread italiano, del governo Berlusconi, nel quale la Lega era forza significativa di maggioranza e di governo.
Napolitano bene a fatto a fare quel discorso, pur se già ufficiosamente annunciato nel contenuto generale.
Tuttavia questo discorso appare tardivo, perché da un Capo di Stato mi sarei aspettato più lungimiranza e sagacia nel comprendere i danni che la politica del rigorismo avrebbe fatto sulla Nazione. E, di seguito, aggiungerei pure le firme di avallo su tutti i decreti capestro del governo Monti e, non ultimi, pure alcuni di quello Letta.
Analogo discorso potrebbe essere fatto agli applausi rivolti a Napolitano dai parlamentari europei, con in prima fila il Presidente del Parlamento Ue Martin Schulz. Di costui sarebbe bene pure ricordare la contestazione, che era poi un insulto, ad un Presidente del Consiglio italiano nel 2003.
Sono le stesse persone, comunque, che nel passato, remoto e recente, hanno approvato tutte quelle direttive d’austerità che hanno affossato completamente l’economia italiana.

Un antico detto sapienziale popolare dice: solo gli asini non cambiano mai.
Perciò ben venga il ravvedimento (eufemismo) sia del Presidente del Parlamento Ue, sia di Napolitano, sia di tutti gli eurodeputati che hanno condiviso l’austerità. Meglio capire tardi gli errori fatti piuttosto che mai, pur a frittata non solo cotta, ma del tutto … carbonizzata.
Il problema però è: applaudivano il discorso perché convinti delle parole contro l’austerità, oppure applaudivano come i farisei, secondo il detto “passatu lu giorno, gabbatu lu santo”?

Un’analoga riflessione, assai più significativa, può essere fatta al discorso di Napolitano al Parlamento italiano subito dopo la sua rielezione.
In quel forte e motivato discorso Napolitano strigliò a dovere deputati e senatori, rei in realtà d’avergli sottratto il piacere d’essere nonno a tempo pieno, come s’era ripromesso di fare.
Ricordo perfettamente quel discorso e i tanti entusiastici applausi che i parlamentari gli riservarono quasi ad ogni paragrafo.
Tuttavia le sue parole erano una continua  accusa non solo alla loro inefficienza costituzionale, ma soprattutto alla faida interna che aveva dilaniato il Pd, nello scontro aperto tra renziani e bersaniani.
Come si sa, infatti , la guerra tribale nel partito di Sx non aveva consentito né di formare un nuovo governo, né di eleggere in sequenza  – nonostante i grandi numeri a loro disposizione – 2 loro uomini alla successione di Napolitano: Marini prima e Prodi poi.
A molti, vedendo quegli applausi, sorse spontanea questa riflessione: applaudono la loro ignavia e la loro incapacità di fare.

In politica, specie nelle sedi istituzionali, l’applauso è un cliché tanto abusato da renderlo addirittura anacronistico. Fa parte del protocollo come il vestito con giacca e cravatta.
Proprio come la contestazione è spesso strumentalizzata, sia da chi la fa che da chi la subisce, in un rimbalzarsi le colpe reciprocamente. Perciò basti citare solo l’ancora attuale querelle per la contestazione plateale dei deputati di M5S alla Boldrini e alla maggioranza tutta per l’uso – o abuso - della tagliola/ ghigliottina sul Decreto Bankitakia.

Di certo vi è che pure l’applauso oggi cela nella gestualità molti modi di dire e di fare; proprio come la contestazione, quando è ideologicamente strumentalizzata, diventa un atto qualunquistico destinato ad intorbidire le acque della ragione del semplice cittadino.
Perché se si applaude un discorso contro il rigorismo e l’austerità, dopo averli avallati a lungo, è ovvio che i casi siano due, parafrasando umoristicamente il detto, citato innanzi, solo gli asini non cambiano mai.

a)      o chi applaude è tanto asino che non sa neppure d’esserlo, pur restando sempre tale perché non cambia mai
b)      oppure è tanto asino che non si accorge neppure d’essere cambiato nelle proprie idee, non avendo neppure il pudore di comprenderlo dentro di sé.



domenica 2 febbraio 2014

Viaggiando tra parole, concetti, zuffe e baruffe.


Gli scontri alla Camera sono il termometro di una degradata situazione generale della società italiana. Nulla di strano, dunque, se pure i suoi rappresentanti ogni tanto si azzuffino davanti a telecamere pronte a riprendere parole e gesti per fare scoop e audience, più che informazione corretta e ponderata oltre che meditata.
Il Parlamento dovrebbe essere il luogo del parlamentare, perciò del termine latino parabolare, che sostituì nell’uso comune - con la contaminazione ellenistica, ma non solo quella - il verbo loqui: parlare. L’accostamento parabolare, parabola e parlamentare è noto e comprensibile a tutti. Non per nulla i Vangeli sono lo scrigno della parabola.
Nell’antichità il parlamentare era l’inviare propri addetti alla controparte per esporre le proprie ragioni, sentire quelle altrui e vedere se si poteva trovare un accordo transazionale che salvasse capra e cavoli, oppure per costruire alleanze o progetti comuni.
Spesso prima di iniziare una battaglia era quasi abituale che le due parti tentassero un conciliabolo per vedere se si poteva evitare lo spargimento di sangue, oppure per stabilire delle regole minime sull’aiuto a feriti e sul trattamento futuro riservato ai prigionieri della parte sconfitta.

Il Parlamento dovrebbe essere il luogo della “parola”, quindi il luogo di incontro delle idee: la fucina di come modificare e migliorare la società. Perciò il “parlamentare” (dialogare, comunicare) per trovare un modo migliore di procedere, offrendo ognuno le proprie idee all’altro, confrontandole e cercando dal tutto la sintesi della miglior soluzione.
Invece talora diventa un luogo di scontro, di invettive, di violenza verbale e fisica, dove l’insulto e la violenza sostituiscono il dialogo. Violenza e scontro tra “parlamentari” (deputati) che vengono alle mai – più o meno realmente – invece di parlamentare.
Ed è interessante vedere come persone in giacca, camicia e cravatta si azzuffino in tal modo. Proprio perché il fatto d’essere vestiti con giacca, camicia e cravatta è indice di predisposizione ad un livello superiore del vivere civile: quello della festa e della gioia di vivere nella condivisione.
Un livello che, ovviamente, non è di tutti i giorni, perché poi vi sono le mansioni del vivere quotidiano, quindi del lavoro, che impongono ben altro abbigliamento. Gli eserciti non vanno in giacca, camicia e cravatta.

Davanti a tali fatti alcuni si scandalizzano, altri si arrabbiano, altri ancora sorridono divertiti, altri, infine, usano il “fatto” stesso come arma per far valere la propria “ragione”, addossando il torto all’altro.
Criminalizzare un comportamento è facile. Capirne gli antefatti e le cause un po’ più difficile. Proprio perché se uno decade nella violenza fisica e verbale ciò succede perché qualcosa o qualcuno lo ha indotto a ciò, perciò all’esasperazione. In pratica relegandolo o alla soggezione nichilista, oppure alla rivolta plateale.
Ne consegue che, come diceva il Manzoni, la ragione e il torto non stanno mai da una parte sola. Anche se oggi è uso comune cercare di mettersi dalla parte della ragione per addossare all’altro il torto, come se le due cose fossero sempre distinte in modo netto.
Ovviamente per litigare bisogna almeno essere in 2 disposti a farlo.
Pure la religione con le sue regole prospetta una parte di ragione (santità, perfezione) e di torto (peccato, dannazione), come se il passaggio tra le 2 parti fosse una cosa semplice e non complessa.
Emblematica, in proposito, la frase di Papa Francesco in una delle sue quotidiane omelie mattutine a Santa Marta: Siamo tutti peccatori! Se uno dice che non ha tentazioni o è un cretino o è tutto scemo.[1]
Ne consegue che non ritenendomi uno in tentazione, debba essere un cretino o tutto scemo. Viva la Carità cristiana della sublimità della parabola!  

Lo scontro in Parlamento ha degli antefatti, anche se il “quid” scatenante è il Decreto d’urgenza sulla privatizzazione della nostra banca centrale: Bankitalia. Vi era proprio assoluta urgenza o serviva maggiore ponderazione, quindi un parlamentare maggiore. Quali interessi lobbistici nasconde questo decreto?
E una maggioranza tanto solida – come sostiene Letta – con l’uso della tagliola/ghigliottina  - peraltro usata ora per la prima volta nella storia parlamentare italiana – non nasconde forse dei ritardi nella votazione finale per sicuri contrasti in materia all’interno della stessa maggioranza? Perché non è stata calendarizzata prima in modo che il pericolo di decadenza non sussistesse?
Perché - me lo si lasci dire - i deputati di M5S, iscrivendosi in massa a parlare anche solo per i 10 minuti ciascuno stabiliti dalle regole, non rispettavano forse i dettami costituzionali e parlamentari che concedono all’opposizione la possibilità tecnica e legale (ostruzionismo) di far decadere un provvedimento (decreto)? Perciò, l’uso della tagliola/ghigliottina, non può essere considerata già di per sé stessa una violenza coercitiva?
In realtà la decisione del Governo, perciò della Boldrini, è già un abuso di potere: una violenza istituzionale atta a nascondere le magagne all’interno della maggioranza. È la negazione del concetto di parlamentare (verbo e non persona).

Si è detto che la decadenza di tale decreto avrebbe portato milioni di italiani a pagare la seconda rata dell’Imu. Perciò – è il ragionamento della maggioranza – la colpa sarebbe stata di chi si serviva “costituzionalmente” del proprio “diritto” di fare ostruzionismo.
Ovviamente dopo le tante tasse, imposte e programmate, da parte di Letta, questo ragionamento (Speranza) mi pare la foglia di fico – neppure valido secondo la logica sofista - per coprire la vergogna del proprio operato governativo, istituzionale, parlamentare e programmatico.

Lo scontro in verità non è da oggi. È quello tra un vecchio modo di vedere la società (vecchi partiti) e quello tra una “rivoluzione” (M5S) non violenta basata sul consenso elettorale. Rivoluzione (assetto istituzionale e modo di fare politica) che, volenti o nolenti, nasce dal profondo delle istanze di una parte della società. Quella del Popolo che è poi maggioranza nella nazione.
Perché proprio in ciò sta non solo il nocciolo della questione, ma pure il nuovo Italicum, figlio legittimo del Porcellum con lievi differenze somatiche per aggirare la sentenza della Corte costituzionale. Progetto – per ora – di Legge elettorale fatta su misura per mantenere il potere ai vecchi partiti.
Le leggi elettorali in Italia sono sempre state fatte contro qualcuno. Pure Mussolini ci pensò a suo tempo, anche se poi non ne ebbe bisogno perché vinse alla grande ovunque. Solo quella che in un certo senso doveva dare stabilità al paese e voluta da De Gasperi – con premio di maggioranza solo al 50%+1 dei voti - fu considerata Legge truffa.
L’attuale, al confronto, è una legge … ladrocinio legalizzato: la negazione della democrazia rappresentativa.
E a poco vale il confronto con quella francese, grazie alla quale Hollande ha vinto con solo il 29% dei voti, ottenendo in compenso il 54% dei seggi; proprio come la coalizione di Sx ha vinto con la stessa percentuale le ultime politiche, portando però il Pd ad avere alla Camera il 55% dei seggi.
È forse un caso che l’accordo sulla legge elettorale Italicum non sia nato nelle aule parlamentari, ma solo da incontri privati tra 2 “ducettari” che vogliono essere nei propri partiti i soli al comando?

Le parole nella società hanno un senso quando queste sono condivise nei concetti.
I Padri della Costituzione, reduci dai disastri dell’uomo solo – e dal partito solo – al comando, puntarono sul Bicameralismo perfetto, onde evitare che un Governo facesse a memo del Parlamento, assumendo troppo potere.
Ora questo modo di vedere le cose - secondo quegli stessi partiti figli di quella costituzione – non è più attuale e lo si vuole cambiare con intese bicefale, onde perpetuare sé stessi anche a costo di liquidare il parlamentarismo.
Ne consegue che il Senato non sia più necessario, perché diventa un bastone tra le ruote del vincitore che, secondo il Porcellum o l’Italicum, magari con meno di 1/3 dei voti espressi[2] ottiene col premio di maggioranza il 53/55% dei seggi, perciò la maggioranza assoluta.

A mio modesto parere già la politica è comandata ovunque e retta dalle potenti lobby finanziarie che intendono fare i propri interessi a scapito del voto procapite e della maggioranza proporzionale.
Non è, infatti, un mistero che chi controlla le maggiori società del globo lo faccia con risicate partecipazioni comprese tra un 10% e un 30% massimo.
Emblematica è a proposito la cronaca di questi giorni sugli avvenimenti in casa Fiat, dove non desta tanto scalpore lo spostamento della sede legale e fiscale[3], ma il bonus che l’azionista di riferimento (Famiglia Agnelli) si è dato in assemblea per fare con partecipazioni minoritaria il bello e il cattivo tempo in azienda.
In che consiste? Nel dare all’azionista stabile – colui che detiene da tempo il pacchetto azionario, perciò la finanziaria di famiglia Exor – il voto doppio. Ciò significherà avere con un 30% totale di partecipazione azionaria in Fiat il 60% di voti decisionali, a scapito, ovviamente, dell’eventuale voto contrario del rimanente 70% dell’azionariato, che si vedrebbe ridurre il proprio voto maggioritario a solo il 40% effettivo decisionale.
Se si considera poi che Exor sia una società quotata al Listino e che quindi buona parte degli azionisti non sono gli Agnelli, ne consegue che costoro, detenendo il controllo di Exor, con un 10/15% di partecipazione in Fiat controllino, di fatto, in modo assoluto tutto il sistema.
È il loro “Italicum porcellum”!

La maggior parte della ricchezza in Italia è controllata da circa il 10% delle persone. E, a ben guardare, sono quelle stesse persone che hanno in mano non solo la leva del potere finanziario, ma pure di quello politico.
Ovviamente se non lo fanno in prima persona trovano i “polli” adatti al … mercato delle vacche grasse. Non per nulla l’attuale Governo non ha mosso un dito nella lunga sequela Fiat.
Il problema vero, tuttavia, non è quello che si arricchiscano continuamente a scapito del restante 90% della popolazione, destinata ad impoverirsi sempre più, ma che, con gli stessi stratagemmi regolamentari applicati nelle aziende, intendano pure assumere il potere politico senza alcun intralcio costituzionale. Vi è la tendenza (strategia) a rendere la società civile come una società privata.
Le multinazionali stanno già riducendo i salari dei lavoratori, privandoli pure di ore lavorative.
L’intento è chiaro: equiparare nel tempo i salari dei paesi industrializzati a quelli dei paesi emergenti. Ovviamente non innalzando questi, ma riducendo i nostri. Ciò, tuttavia, è difficile farlo senza detenere anche la leva del potere.
Potere (Governo) che deve dare una parvenza di democrazia popolare; ma che, con gli stratagemmi costituzionali, diventi, di fatto, una dittatura finanziaria istituzionalizzata. Non per nulla l’arma dello spread oggi è il terrore d’ogni nazione in crisi.
Nel secolo scorso con i fascismi (fascismo, nazismo, comunismo) si detenne il potere. Ora che con questo modo non lo si può più fare per non essere fatti letteralmente a pezzi con la violenza della rivoluzione sanguinaria, si sta cercando il modo di perpetuarlo in maniera “costituzionale”.





[1] - Mi perdoni il lettore se la citazione non è per caso esatta nelle parole, anche se lo è nel concetto. Stavo viaggiando e non ho potuto annotarmi subito la frase pronunciata.
[2] - Dai quali andrebbe poi dedotto il forte astensionismo per ottenere il reale consenso del partito vincente, o della coalizione, nel Paese.
[3] - Già di per sé chiaro indice di sano amor patrio.