venerdì 21 giugno 2013

Parlando di Iva: a proposito e a sproposito.


L’Iva, come tutti sanno, è un’Imposta sul Valore Aggiunto, come indicato dal suo acronimo identificativo. Anche se, in realtà, proprio così non è.
Infatti, l’Iva, è anche una compensazione sul minus valore conseguito, essendo contabilmente una mera partita di giro.
Se acquisto 100+21% di Iva avrò un importo di 121; se poi vendo lo stesso prodotto a 50+21% (sottocosto) incasso solo 60,5. In calcolo di saldo d’imposta mi troverò perciò 10,5 a credito Iva.
Come tassa è strutturata in modo da gravare sul consumatore finale, chiunque questi sia, anche nei vari passaggi. E il consumatore finale deve solo … pagare e non compensare. Perciò: chi più consuma, più paga!
In effetti si dovrebbe chiamarla con un acronimo diverso: Icf – imposta sul consumo finale -. Suona male, ma indicherebbe molto più esattamente la sua vera matrice vessatoria.

Conteggiare l’Iva pare semplice, visto dall’esterno. Un po’ meno lo è se visto dall’interno, per via delle sue differenziazioni che prevedono esenzioni, bonus fiscali finali per certe categorie, oppure forme forfettarie di calcolo per determinate fasce di contribuenti.
Al consumatore, infatti, può anche capitare di recarsi per acquisti in grandi ipermercati e supermercati e vedersi consegnare uno scontrino con scritto: scontrino non fiscale. Ciò significa che quell’esercizio commerciale gode di una facilitazione normativa prevista dalla legge. Dunque che non tutta l’Iva incassata viene versata se è un surplus normativo contrattuale.
Perciò, rettificando l’acronimo, si può tranquillamente affermare che l’Iva è sì un’imposta sul valore aggiunto gravante sul consumatore finale, ma che nelle pieghe di articoli e commi nasconde insidie atte a … favorire qualcuno.

Giampaolino, Presidente della Corte dei conti, ha appena avanzato proposte in merito all’Iva, dove – afferma - vi sono consistenti aeree di evasione.
Secondo i suoi calcoli lo Stato (Pubblica amministrazione) pagherebbe circa 40 mld di € annui di Iva per forniture e servizi ricevuti; però al conteggio finale di saldo ne mancherebbero almeno 10. In pratica sulle sole forniture fatte allo Stato vi sarebbe un’evasione del 25% circa.
Ovviamente non saprei dire se questa sia una sua supposizione suffragata da dati certi, oppure se deduttiva. Ciò che però “parrebbe” interessante sarebbe la sua proposta per impedire che ciò avvenga: lo stato non dovrebbe versare l’Iva ai fornitori, depositandola in un apposito fondo creato ad hoc.
Non discutendo sulla fattibilità di ciò, non credo che ciò eviterebbe l’evasione presunta.

Posto che lo stato non paghi l’Iva ai fornitori si avrebbe in fatturazione un articolo apposito, come ad esempio l’attuale Art. 8 commi A e B per l’esportazione. In questo modo il fornitore non riscuoterebbe l’Iva e lo Stato la potrebbe versare come costo in un apposito conto da compensare alla fine.
Evasione impedita? Non credo proprio, ammesso che ciò sia vero.
Il fornitore, infatti, l’evasione non la può produrre sulla partita di giro, ma generarla ad arte nei passaggi contabili intermedi: o facendo sparire fatture di ricavi, o producendo conti inesistenti. L’evasione, tuttavia, sarebbe facilmente riscontrabile dall’analisi d’incrocio dei dati relativa all’elenco Clienti/Fornitori, che attualmente ogni Partita Iva deve annualmente consegnare.
Diversamente l’Iva non riscossa dal fornitore, sulla fattura fatta alla pubblica amministrazione, percorrerebbe lo stesso iter contabile di quella succitata per l’esportazione, creando, dunque, un probabile credito di imposta finale tra dare ed avere. Da chiedere in rimborso o da compensare in futuro.

Alcuni hanno avanzato l’idea di eliminare i passaggi intermedi Iva nella fatturazione, lasciando il venditore finale come impositore e esattore dell’imposta. Costui aggiungerebbe l’Iva sul prodotto finito, la riscuoterebbe e la verserebbe tutta allo Stato.
Ciò che parrebbe una gran trovata, riducendo e semplificando i controlli, sarebbe comunque una gran boiata, in quanto difficilmente praticabile se non con una burocratizzazione contabile mastodontica.
Ciò potrebbe essere praticabile solo su quei beni che coinvolgono il dettaglio, ma non quei prodotti di costo che coinvolgono produzione e distribuzione.
Per semplificare citerò i carburanti, che, come si sa, non solo vengono usati dal consumatore finale (privato), ma pure da quello intermedio (produttore, distributore, servizi).
Che succederebbe?
Poniamo come esempio un costo litro del carburante di 1,50+21% di Iva, con prodotto finale alla pompa di 1,815. Perciò con un’imposta di 0,315.
Secondo tale ipotesi la casa petrolifera non incasserebbe l’Iva, il benzinaio la conteggerebbe e la verserebbe, e l’automobilista la pagherebbe.
Il problema sorge in altro modo, perché il carburante – come qualsiasi altro prodotto – non serve solo il consumatore finale, ma pure la produzione, la trasformazione e i trasporti.
Ora se queste categorie pagassero l’Iva, come il consumatore finale, avrebbero una contabilità che creerebbe un determinato credito (esenzione da recuperare), non eliminando di fatto né l’evasione, né la semplificazione contabile.
Diversamente, senza una contabilizzazione, l’Iva pagata sarebbe un costo aggiuntivo che innescherebbe un circolo vizioso di costo sul prodotto finito, aggiungendo l’imposta non detraibile all’imposta poi da pagare alla fine sulla stessa imposta già assolta alla fonte. In pratica una doppia o plurima – secondo il numero dei passaggi intermedi - relativa imposizione.

L’aumento dell’Iva programmato a giorni (01-07-2013) è più probabile che slitti di un trimestre piuttosto che venga abrogato. Ciò non tanto per un mancato accordo tra Governo Letta e i partiti che lo appoggiano, bensì per il nulla osta dell’Ue. Ecco perché si tergiverserà fino all’ultimo giorno utile, dopo i riscontri avuti nella prossima riunione del 27/28 giugno, che sarà basilare per capire le concessioni o le imposizioni a cui dovremo sottostare.

L’aumento dell’Iva in forma lineare era già inserito nell’ultima manovra del Governo Berlusconi, però solo come extrema ratio ad un totale andamento negativo del mercato. Era una misura preventiva utile per mettere in sicurezza il Bilancio per il possibile andamento negativo dello spread.
Il Governo Monti ha poi prorogato l’aumento, poi slittato alla data attuale.
Un punto in percentuale significano circa 4 mld annui di ulteriore imposta. Slittando di un trimestre si perderebbe solo 1 mld, avendo però del tempo aggiuntivo per trovare le coperture adatte.
L’ultimo aumento dell’1% applicato da Monti ha evidenziato un calo di 1 mld di entrate annue, per il conseguente crollo dei consumi in seguito all’aumento. Perciò, ad opera finita, la copertura finanziaria da trovare per evitarne l’aumento sarebbe solo di 3 mld.

Come già il G8 ha dimostrato Letta non è colui che può risolvere i problemi dell’Italia, ma solo colui che attualmente è demandato a farli comprendere per un avallo agli altri partner europei.
Ovviamente dopo i disastri di Grecia, Spagna e Italia per le manovre restrittive imposte, pure l’Ue ha capito che in questo modo più che ridurre in povertà le nazioni in difficoltà finirà per affossare l’ e la stessa Ue.
Specie se i Mercati finanziari (Borse) continueranno a flettere sotto la spinta speculativa, innalzando gli spread sovrani e rendendo probabile il salvataggio di altre banche Ue per troppo stress.
I crolli di questi giorni non sono un caso isolato e neppure un monito. È l’esempio pratico di ciò che potrebbe accadere se Finanza, Economia e Bilanci sovrani continuassero ad andare per conto loro senza alcun controllo.


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