mercoledì 10 aprile 2013

La crisi della Democrazia rappresentativa.


Il risultato elettorale, com’era prevedibile, non ha risolto l’incertezza politica italiana; semmai l’ha ulteriormente aggrovigliata, frustrando le aspettative di Bersani di raccogliere un consenso di coalizione tale da poter governare da solo.
La sua ignavia mentale gli ha impedito di cogliere finora la gravità della situazione, favorita anche dall’incapacità di Napolitano di agire speditamente dando l’incarico ad altri per un nuovo tentativo.
Ciò, sicuramente, avrebbe creato gravi attriti all’interno del Pd, facendo riemergere quelle lacerazioni interne, solo sopite e mai cancellate, che sono proprie di un partito arlecchino, composto per interessi di schieramento da molte anime diverse e difficilmente amalgamabili.

Analizzando le varie coalizioni si ha la netta percezione che il Sistema Italia non regga più, politicamente, l’esigenza del tempo.
Ciò avviene pure a livello Ue, dove ormai la politica della Democrazia rappresentativa si distanzia notevolmente dalle esigenze del Popolo, spesso anche da quelle dei vari stati aderenti, specie di quelli, di fatto, commissariati.
Vi è uno scollamento profondo tra politica e popolazione; tra l’esigenza della politica, ormai al servizio esclusivo della Finanza, e quella del cittadino. La prima intenta a far quadrare conti e bilanci secondo classiche ampiamente superate dal tempo e dagli avvenimenti, il secondo proteso principalmente a salvaguardare il suo tenore di vita e di lavoro.
Il mandato parlamentare, indipendentemente dalle preferenze concesse o no nell’urna al cittadino, è in pratica un mandato senza vincolo. Per cui, una volta eletto, il parlamentare agisce per vie proprie. Ciò ha permesso e permetterà ancora in futuro – finché le regole resteranno quelle attuali – il noto salto della quaglia.

L’Italia ha bisogno di un Governo almeno capace di compiere l’ordinaria amministrazione; possibilmente idoneo ad agire a medio breve per l’approvazione della Legge di stabilità. Cosa di non poco conto considerato il vincolo del Fiscal compact.
Tuttavia, nonostante il tempo trascorso, il Pd di Bersani traccheggia nel bunker del suo arrogante nominalismo, nonostante una risicata manciata di voti (124.000) lo separi dalla coalizione avversa.
È interessante notare che di fronte alle sollecitazioni da parte di alcune parti del partito, - ormai sempre più numerose e rappresentate idealmente da Renzi - Bersani abbia risposto additandolo con una nomea culturalmente arcaica e propria del suo corto pensare da veterocomunista: leninista. Scordandosi, ovviamente, che essere stalinista, come dimostra il suo comportamento attuale, è ancor più grave.
Chi, infatti, oggi può pretendere di comandare da solo una nazione con meno di 1/4 del voto popolare, infischiandosene degli altri e pretendendo che tutti gli diano carta bianca?
Il CentroSx ha raccolto poco meno del 30% dei suffragi su un elettorato attivo del 75%. Perciò, pur non conteggiando le schede bianche e nulle, detto risultato va scorporato del 25%, toccando circa il 22% del consenso reale. Se poi detto risultato lo si confronta con il solo risultato Pd, il consenso effettivo si riduce addirittura a poco meno del 20%.
Pretendere di comandare da soli con un simile risultato porta in pratica il Pd ad instaurare una potenziale dittatura democratica.
Servirebbero larghe intese – anche se per poche cose – per eleggere almeno in modo condiviso il nuovo Presidente della Repubblica e per un governo di scopo. Tuttavia l’impressione generale è che Bersani voglia accaparrarsi anche questa carica istituzionale con il rischio di spaccare la nazione.
Le cariche istituzionali è ovvio che entrino nel computo della democrazia bilanciata. Chi non ne tiene conto, pensando solo al proprio interesse di bottega, non è nella logica parlamentare, bensì solo in quella di un regime apparentemente democratico e incanalato verso un regime dittatoriale.
Perciò il confronto di ieri positivo (all’apparenza) tra Bersani e Berlusconi, pare incanalare lo stallo verso qualche possibile via  d’uscita condivisa.

La Democrazia diretta di norma elegge i suoi rappresentanti col voto popolare. Perciò oltre ai parlamentari anche le cariche istituzionali di vertice. In alcuni stati perfino i giudici.
Ciò non avviene in Italia, dove il cittadino elegge a livello nazionale solo il parlamentare; che a sua volta elegge in apposita assemblea il Capo dello Stato e i Presidenti di Camera e Senato. Si crea perciò, dopo il voto, un circuito autoreferenziale dove le logiche di partito spesso si scontrano con quelle del popolo.
Un esempio diretto di questo tipo di democrazia è il Governo Monti, “imposto” da Napolitano – e probabilmente da pressioni esterne – sostenuto dai partiti e, nella realtà, inviso al Popolo.

Il parlamentare dovrebbe rappresentare le istanze del cittadino, mentre, in effetti, rappresenta spesso solo il suo personale interesse, o della lobby che lo ha finanziato. Di norma non sempre neppure l’interesse di partito.
Ciò, ovviamente, può avvenire anche nella Democrazia diretta, pur se in questo caso  il parlamentare è privato di quella autoreferenzialità atta a nominare le cariche superiori dello stato.
In teoria non vi è una supremazia tra democrazia rappresentativa e diretta, perché le aberrazioni possono esistere in entrambi i sistemi. Pur se, nella seconda, il potere dell’eletto è maggiormente limitato dalle norme costituzionali.

È convinzione di molti che se la democrazia non funziona in Italia, questa sia dovuta alla legge elettorale attuale: il noto Porcellum.
Questo, infatti, assegna al vincitore una netta maggioranza alla Camera, ma in modo diverso al Senato, dove teoricamente la maggioranza può essere talora solo maggioranza relativa, perciò minoranza. Come è avvenuto in quest’ultima consultazione elettorale.
Tuttavia l’affidare una netta maggioranza con un premio al teorico vincitore sia alla Camera che al Senato diventa pericoloso se il consenso elettorale risultasse minimo, come avvenuto ora dove il CentroSx non ha raggiunto il 30% del suffragio.
A tal proposito basti ricordare che la famigerata legge truffa, tanto osteggiata a suo tempo dalla Sx e voluta da De Gasperi, concedeva un premio di maggioranza solo a chi fosse riuscito ad ottenere il 50%+1 dei voti.

Prima dello scioglimento delle Camere i partiti hanno tentato di modificare l’attuale legge, non riuscendovi per opposti interessi di bottega. Da una parte vi era chi intendeva usare il premio in modo graduale, rapportandolo al consenso raggiunto in modo esponenziale; dall’altra vi era addirittura chi puntava al proporzionale puro per opposti scopi.
Ne consegue che, comunque si fosse operato, il CentroSx ora avrebbe meno parlamentari di quelli attuali. Perciò la legge elettorale è solo la foglia di fico atta a coprire le magagne della nostra democrazia rappresentativa.

Nel mondo vi sono vari sistemi di legge elettorale; che però non danno una garanzia totale di un governo stabile e forte in presenza di consenso elettorale debole.
Ciò avviene negli Usa dove Camera e Senato contano maggioranze diverse, come in Germania dove dopo il voto si è ricorso ad un governo di larghe intese per l’inesistenza di una maggioranza.
La strada italiana che Bersani – o chi per lui – dovrà percorrere, se non si vorrà andare nuovamente al voto con il Paese spaccato e contrapposto in una guerra sorda, è proprio quella basata su un governo di larghe intese, utile a fare le cose necessarie e condivise dai partiti che ne vorranno fare parte.

La Democrazia non è una semplice questione di maggioranza e opposizione, specie quando il consenso avuto non ratifica un vero vincitore. La Democrazia è il prendere atto che in assenza di una maggioranza forte il governo va condiviso con altri, nell’interesse di tutti, specie dell’economia nazionale, ricercando perciò quelle strade possibili in grado di portare la nazione fuori dalle secche dell’impasse istituzionale.
La Democrazia, in ultima analisi, è una concezione culturale che consente eventuali opposte opinioni politiche ed economiche, tese a bilanciarsi nel confronto diretto onde ottenere il meglio possibile per il bene dello stato.
Democrazia significa anche Libertà, quando la propria – o di partito – finisce dove comincia quella altrui.
Non è mai odio o maggioranza utile ad abbattere e ad annientare l’avversario.
La Democrazia senza un’opposizione non esiste! In quel caso diventa solo Regime o Dittatura.
Ciò, ovviamente, non è valido solo in una nazione, ma anche in un partito variegato composto da diverse anime come può essere oggi il Pd.

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