sabato 20 dicembre 2008

I Tassi e il capitalismo infruttifero.

Madoff ha fatto il suo bel buchino (giochino); e anche le banche italiane “qualcosa” ci hanno rimesso.

Il problema non è se sia un criminale finanziario o no, bensì tutti i grandi esperti, compresi i nostri, che gli correvano … dietro.

I buchi, tutto sommato, li hanno prodotti un po’ tutti con la finanza creativa (allegra); e difatti la “diversificazione” degli investimenti se è una regola primaria per l’incompetente (privato) non lo dovrebbe diventare, generalizzata, per le grandi società (banche, finanziarie …), perché queste hanno strumenti e controlli che dovrebbero (è il caso di sottolinearlo) valutare l’utilità dell’investimento nella sicurezza e nella redditività.

Non per nulla l’altro ieri Tremonti, da intelligente[1] furbetto quale è, ha evidenziato che “È demenziale stare ad ascoltare e prendere lezioni da chi non ha capito nulla, o ha capito molto, e ha sbagliato tutto.”, specie se questi alti funzionari (e geni) avevano a loro disposizione tutti gli strumenti per monitorare, comprendere e regolamentare ciò che stava da tempo avvenendo.

Ma il fermarsi a discutere sul latte versato è solo controproducente, anche se non bisogna dimenticare.

La Fed ha appena ridotto il TUS allo 0,25% e la Banca del Giappone allo 0,10%.

Tutto ciò cosa significa?

Che quando i tassi sono così bassi il capitale non rende niente: a) a chi ha investito perché gli è difficile sopravvivere e recuperare l’investimento; b) a chi finanzia (concede) a rischio perché il lume non vale la candela.

Perciò il Capitale è sull’orlo del baratro ed è equiparato, in tale congiuntura, all’investimento (uso destinato) massimalista: un metodo d’economia sociale!

Ecco perché gli Stati e le Banche centrali entrano massicciamente sul mercato con capitali propri, applicando il loro dovere istituzionale.

Negli anni ’90 la Banca del Giappone aveva già ridotto a tale livello il TUS, ma i risultati avuti non erano stati significativi, perciò non esaltanti.

Infatti, quando i tassi scendono a zero, significa che la situazione è tanto grave che si è all’ultima spiaggia. Se si sbaglia il tracollo è garantito.

In pratica più il TUS si avvicina allo zero, più la speranza di farcela scema nei vari soggetti interessati: finanzieri, imprenditori, politici e cittadini. Ed è ciò che sta avvenendo un po’ ovunque nel mondo.

I grandi colossi diventano pupazzi di cartapesta e si afflosciano all’improvviso, sia nel settore economico/finanziario che in quello industriale.

Negli U.S.A., ma anche in Europa e in estremo oriente, tali casi si sono ripetuti, trascinando nel baratro dell’insolvenza pure molti altri soggetti interconnessi e minando alle fondamenta il sistema delle sinergie di partecipazione.

E se l’oro resiste ancora come bene rifugio, il Future sul petrolio traballa a tal punto che solo i falchi Opec premono per ridurne la produzione, nel tentativo di sostenere ad un determinato livello i loro profitti. Infatti, a vendere sono poi quelli che spuntano un prezzo inferiore e quindi non vi è taglio alla produzione che possa reggere, specie se la domanda mondiale crolla a seguito della recessione industriale.

E se uno stato produttore ha in essere impegni gravosi (Iran, Venezuela …), per accrescere la propria potenza economica, è ovvio che tenda a sostenere il prezzo con ogni mezzo, avendo disperato bisogno di capitali.

Chi rischia, infatti, non è solo il sistema produttivo, bensì anche quello estrattivo per una duplice ragione: 1) il non trovare sbocchi sul mercato per la recessione; 2) il pericolo di affossare i propri stessi investimenti nelle società occidentali.

Chi finora ne ha fatto palesemente le spese sono state le società finanziarie e una parte del sistema industriale, specie quello legato al settore automobilistico, sia che siano fallite, come alcune, sia che siano state soccorse dai rispettivi governi, come altre. Le notizie di questi giorni su GM e Chrysler sono emblematiche.

In alcune parti d’Europa, per ora, il cauto ottimismo regna ancora sovrano, anche se le prime crepe vistose si stanno dilatando, paventando il crollo finale. Non per nulla la nostra Fiat ha chiuso i battenti per un mese e poi si … vedrà.

Chi si ricorda i trionfalismi di Zapatero, sul nuovo miracolo economico spagnolo di soli pochi mesi fa, non può far a meno di notare che la Spagna è una delle nazioni più inguaiate del vecchio continente, con picchi del 50% in meno in vari settori. Ma era una debacle annunciata e basta andarsi a rivedere alcune mie precise annotazioni[2], a ciò relative, e l’espansione immobiliare abnorme degli anni scorsi.

Il 2009, a detta di tutti, sarà l’hanno cruciale: quello che ci dirà se i nostri politicanti saranno in grado di far reggere il sistema, oppure se tutto andrà a catafascio. Perché è ovvio che se il crollo inizia da una parte si ripercuote a catena ovunque.

Quello che pochi[3] sperano realmente è che nel prossimo anno si tocchi il fondo; diversamente saranno guai seri.

La Fed, in sostanza, non ha altri spazi di manovra correttiva sui tassi. Teoricamente, d’ora in avanti, li può solo alzare, essendo a zero.

Rinuncia in pratica ad una politica monetaria, addossando alla politica nazionale, perciò al Tesoro U.S.A., l’incombenza di procedere. Si riserva, unicamente, la prerogativa di concedere prestiti, di fissarne la scadenza e, in questo modo, di immettere liquidità nel sistema, conscia che ha usato tutto il suo potere (mezzi) per contrastare la congiuntura negativa.

Ora bisognerà vedere quanto l’apparato americano potrà permettersi il rischio inflattivo, giacché nel liberismo democratico l’operatività del sistema è prioritaria all’inflazione stessa potenziale.

Molte altre Banche centrali sono nella stessa situazione, mentre l’Europa ha dei leggeri margini di manovra.

I tassi sono comunque ad un livello tale che il non abbassarli ulteriormente sotto il 2% non implica l’impossibilità d’investire, sempre che le singole banche si adeguino conformando il costo del danaro. Ma se non vorranno strozzare il pollo (cliente), rischiando di rimanere con una manciata di mosche (crediti inesigibili) in mano, dovranno adeguarsi.

La BCE, nel proprio statuto, ha come priorità la difesa del sistema economico comunitario dall’inflazione, ma ultimamente sembra che si stia optando per altre priorità.

Perciò che farà? Una politica di comodo e di opportunità, seguendo la Fed al ribasso, oppure di rigore e di sacrifici tesa a sanare il sistema? Mi auguro la seconda, anche se procederà con la prima.

Da alcuni mesi sta immettendo enorme liquidità nel sistema, anche se perlopiù nel tentativo, finora, di sorreggere le grandi banche.

Ma questa liquidità, che sono poi altri debiti fondati non sulla consistenza, ma unicamente sulla cartolarizzazione, ha bisogno d’essere piazzata, come i bonds dei vari debiti statali, sul mercato.

Il debito americano, per quanto mi risulta, è classato principalmente nei Paesi arabi produttori di petrolio e nei grandi Paesi emergenti dell’estremo oriente, specie la Cina. E ciò non potrà che condizionare la politica estera americana ed emarginare sullo scacchiere internazionale l’Europa.

Il $, di conseguenza, perde la sua importanza quale moneta di scambio e la volatilità, di questi giorni, rispetto all’, con forbice oscillante tra 1,26 e 1,42, indica non una chiara ragione economica, ma solo l’isteria dei singoli operatori. Non è basata sui fondamentali economici! E questa volatilità accentuata (perdita di stabilità di cambio) si traduce pure nell’ampia fluttuazione isterica delle materie prime.

E la stessa isteria e volatilità la ritroviamo nelle Borse, che continuano gradualmente a scendere; e scenderanno ancora se altre importanti società, o personaggi, faranno default.

Siamo in un periodo in cui i fondamentali di macroeconomia e le capitalizzazioni aziendali vengono in pratica ignorati!

L’Italia ha un handicap notevole strutturale: la debolezza nella competitività internazionale, ulteriormente accentuata dall’enorme debito pubblico accumulato.

Ha, tuttavia, la fortuna di basare il suo impianto industriale e bancario su poche grandi aziende e su moltissime piccole e medie imprese. È ciò consente una flessibilità operativa maggiore e una distribuzione del capitale più omogenea, oltre che con minor esposizione.

Quello che invece preoccupa è che tali aziende sono spesso a conduzione familiare, perciò in grado di resistere, da una parte, per i minori costi sostenuti, ma, dall’altra, di non avere quell’interesse sociale specifico di vedere l’utilità d’investire ulteriormente anche in perdita o a guadagno zero. La loro flessibilità ha una stretta correlazione con l’opportunità.

Le migliaia di aziende che in questi ultimi mesi hanno chiuso i battenti sono appunto della piccola e media impresa, creando nel mercato del lavoro un’emorragia costante a cascata, all’apparenza poco visibile.

Se chiude un mese la Fiat, la notizia va su tutti i quotidiani; se chiude un’azienda con 10 dipendenti non ci fa caso nessuno se non l’operatore del settore; ma appunto per questa progressiva e incessante moria la percentuale dei disoccupati diventa consistente.

Non molti giorni fa ebbi un lungo incontro privato con un parlamentare, il cui intendimento e auspicio era di stare a vedere cosa combinavano gli americani. Il suo pensiero era che, se ripartiva l’economia americana con Obama, i nostri problemi si sarebbero risolti da sé.

Chiesi se questa idea fosse unicamente sua, oppure del suo partito o di tutto il Parlamento. Mi confidò candidamente che tutti stavano a guardare oltreoceano e non avevano valide strategie alternative.

La cosa mi incuriosì e approfondii il problema con alcuni input economici e compresi che non si era in grado, tra la stragrande maggioranza dei politici, di ipotizzare non solo un contrasto positivo alla recessione e allo sconquasso finanziario, ma anche di comprenderne la gravità.

Alla fine mi disse candidamente: “Di queste cose non ci capisco niente!”. Beata … innocenza!

E se una situazione, pur essendo drammatica, non viene concepita perfettamente in alto da chi dovrebbe porvi rimedio, appare chiaro che anche il solo assumersi la responsabilità di comunicare al popolo lo stato effettivo della situazione diventa improbo.

Abbiamo comunque un uomo, Tremonti, che sta battagliando caparbiamente in Europa per imporre una certa linea economica.

Pone, nel suo procedere, valide ragioni analitiche e sociali basate sui fondamentali e sulla fattibilità operativa.

Credo che il suo operare sarebbe maggiormente produttivo se riuscisse ad imporre, in tempi brevi, una regolamentazione delle attività borsistiche e finanziarie, destinando il loro uso unicamente all’investimento a medio/lungo termine, togliendo (impedendo) di fatto allo speculatore quell’incauto incedere che crea solo volatilità nei titoli, isteria di capitalizzazione nelle società per i bilanci e grave sconcerto (perdita di fiducia) nel cittadino.

Abbiamo avuto una Finanziaria anticipata (rispetto al solito), non è stata variata nonostante il crollo dei mercati internazionali e si procede in campo politico con il sostegno della nazione, ulteriormente avvalorato dall’esito elettorale di questi giorni.

La fiducia nel futuro latita un po’ ovunque, ma un moderato e sano ottimismo non langue.

Per farcela abbiamo bisogno di tre cose:

a) L’essere tutti uniti nell’obiettivo di vincere la recessione.

b) Il concepire l’uso del capitale anche ad uso sociale e non solo individuale.

c) Il renderci conto che i debiti vanno comunque saldati e che, di conseguenza, dobbiamo ridurre in parte il nostro tenore di vita.

E se ciò avverrà l’uscita dal tunnel recessivo sarà più vicina di quanto possa sembrare.

Se poi, pure i politici, sapranno destreggiarsi nel concepire esattamente lo realtà macroeconomica e i fondamentali, allora saremo sulla buona strada. Perché va bene declamare il Bene comune, i grandi Valori e Principi, ma se questi non sono correlati all’economia è ovvio che vadano ognuno per la loro strada.

Il capitale e il sistema liberista democratico vanno salvaguardati perché il primo è essenziale per procedere e il secondo è di stimolo alla crescita individuale e sociale.

Il socialismo è crollato anni fa; facciamo in modo che non crolli anche il capitalismo.

I tassi a zero sono l’ultimo rimedio possibile, la mossa estrema che resta ai dirigenti monetari. Dopo di che vi è solo lo stato: e lo stato siamo noi.

È nostro compito (politici, imprenditori e cittadini) fare si che il loro ribasso sia fruttifero al sistema e alla società, scorporandolo dell’attesa americana.

Perché in sintesi il vero Obama non ha ancora iniziato il suo mandato; ma il nostro “casereccio” sappiamo che fine ha fatto.

La storia non si fa con i se e con i ma, e neppure con le chiacchiere e le promesse.

Non ho mai strabiliato per l’afroamericano, ma non mi pare che stia facendo sfracelli, pur non avendo ancora materialmente il timone tra le mani.

Va comunque ricordato che già prima delle elezioni i due candidati avevano concordato e sottoscritto la politica economica di Bush; e questa, resta, tuttora, la sola operativa.

E se non fosse per lui il salvataggio momentaneo di GM e Chrysler sarebbe già naufragato ed oggi avremmo un altro gravissimo tracollo sui mercati. Questo, tuttavia, è solo momentaneamente scongiurato, perché le aziende interessate hanno solo tre mesi di tempo per programmare una strategica ristrutturazione o fallire.

Ciò ci conduce ad una sola trista realtà nazionale: dobbiamo fare affidamento sulle nostre forze e sulle nostre capacità e non sulle aspettative basate su “arrivano i nostri”.

Perché se il debito pubblico americano è classato principalmente in una parte del globo è ovvio che la politica sarà condizionata da ciò e dal rapporto preferenziale con quelle nazioni.

E non è detto che il grande taumaturgo abbia successo!

Mi pare assai stupefacente che, nonostante ciò che è successo, non si sia posto mano alla riforma del meccanismo di governo dei mercati; come, d’altro canto, latita un organismo di controllo sovrannazionale in grado di verificare i vari distaccamenti bancari posti oltre i confini nazionali.

Va sottolineato che, sulla base di Basilea 2, il disciplinamento di controllo viene affidato all’autoregolamentazione aziendale.

A ciò si deve aggiungere la revisione dei bonus remunerativi[4] per i manager, basato oggi per lo più sui risultati trimestrali, diventati ormai un rito sovrannazionale.

I quali dovrebbero essere ancorati al medio lungo periodo, onde consentire un monitoraggio preciso dei risultati ottenuti, oltre ad essere affiancati da penali[5] in caso di gestione deficitaria o fallimentare.

I bonus a breve termine sono la causa principale della propensione eccessiva al rischio, perciò del superamento di tutti quegli steccati etici e procedurali che mostrano la via della ragione e della cautela.

Ad inizio anno nel mondo vi erano 5 grandi Banche d’affari; ora solo 2 e non nuotano in buone acque neppure queste essendo quotate tra i Credit default swap. Le altre sono o fallite, o inglobate (salvate) da altre.

Il loro crollo è principalmente dovuto ai buchi finanziari creati non tanto da veri investimenti errati, bensì da quelli fondati sulla speculazione selvaggia fine a sé stessa.

E forse non è un caso che le bolle speculative al rialzo siano cessate quando tali soggetti (e non solo le banche americane fallite o inglobate) sono scomparsi dal mercato per crack.

Tante sono le cose a cui porre mano e da riformare, comprese le retribuzioni nel mercato del lavoro. Perché appare inconcepibile che vi sia una forbice salariale stratosferica, in certi casi di mille[6] volte superiore, tra l’operaio e il manager aziendale.

Infatti, guardando bene, chi ora sta pagando[7] gli ingenti danni del dissesto finanziario e della conseguente recessione non sono i grandi manager ultra remunerati che crearono il buco, ma il semplice cittadino che rimane senza lavoro e perciò anche senza reddito.

E questo non è più capitalismo, né liberismo democratico, bensì solo plutocrazia spiccia.




[1] - Sottolineo la positività di questo mio aggettivo, espresso con convinzione e rispetto e non con ironia!

[3] - Pochi, perché la loro “speranza” è che il sistema si assesti, anche se le premesse vanno ben oltre la speranza; perciò in un tempo più lungo che reclami un cambiamento sostanziale del sistema, finora trascurato e a cui nessuno ha messo mano, specie nella regolamentazione della globalizzazione finanziaria selvaggia e della speculazione fine a sé stessa.

[4] - A mio modesto parere eccessivi.

[5] - Interessante, a proposito, è l’iniziativa adottata dal Credit Suisse, dove l’azionariato ha deciso di retribuire i propri manager per il 30% in contante e per il 70% in “titoli spazzatura”, presenti in portafoglio, che hanno arrecato danno all’istituto.

[6] - E in certi casi anche maggiore.

[7] - Economicamente e a latere penalmente.

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