mercoledì 7 novembre 2012

Obama, Romney o mercatismo?


Credo che mai come in queste elezioni USA non conti il nome del vincitore - se non per lo spettacolo contingente dei Media - indipendentemente da chi, a ore, risulterà l’eletto.
Entrambi i candidati, infatti, sono la palese degenerazione della Democrazia. E, pur parendo assurdo, il fatto che a contendersi la presidenza siano non 2 teste d’uovo, ma solo 2 teste vuote, per di più assai anonime culturalmente e umanamente, ne è la riprova migliore.
Spiace dirlo, ma pare improbabile che le Primarie in entrambi i partiti non abbiano saputo esprimere nella maggiore democrazia del globo un vero leader migliore di questi 2.
Se il meglio degli USA sono questi, allora la democrazia deve essere proprio allo sbando finale. Non per nulla pure in Europa in ciò non siamo affatto messi bene visto chi ufficialmente governa, ma in realtà visto chi trae le decisioni finanziarie degli stati a scapito della volontà popolare.

Obama nel suo mandato ha combinato gran poco, se non proprio nulla. I problemi americani restano esattamente quelli di 4 anni fa, ulteriormente dilatati dall’esplosione del Debito sovrano. Nel 2008 – se i dati giuntimi non sono errati, ma non credo – il Debito americano era il 3/4 del Pil, mentre oggi supera, seppur di poco, il 140% del Pil.
E non è stata certo la tanto declamata riforma sanitaria – peraltro utile solo ad una minima percentuale di cittadini – a farlo esplodere.
Gli USA, facendo del monetarismo continuo con la Fed, hanno inondato il mercato interno di mld di $ con ben 3 massicce operazioni di quantitative easing; l’ultima delle quali, assai sospetta, fu lanciata pochi mesi fa all’inizio della campagna elettorale.
A che serviva? A cercare di spingere all’insù i dati macroeconomici, onde dare spunti significativi mediatici alla campagna elettorale del presidente uscente.
Ciononostante i dati trimestrali delle maggiori società americane sono stati in media assai deludenti, la disoccupazione permane stabile a valori elevati, la svalutazione strisciante della moneta – per favorire le esportazioni – assai forte, e, infine, la precarietà del sistema finanziario  delle grandi società inalterato.

Questa campagna elettorale è stata la più costosa di tutte, bruciando ben 6 mld di $ con stima prudenziale.
Ovviamente cambierà di pochissimo il corso dei Mercati, intenti in questi mesi a laterizzare per ben altri motivi.

Una vittoria di Obama permetterebbe di procedere con il monetarismo Fed di Bernanke – il vero presidente operativo USA -, perciò con l’ulteriore dilatazione del Debito sovrano e con il TUS ai minimi storici per altri anni. Ciò permetterebbe da una parte di sostenere i consumi interni, creando però ulteriore disavanzo.
Obama ha in parte ammesso la sua inefficacia operativa, pur con la scusante della crisi globalizzata. Crisi, creata però dalla speculazione selvaggia della finanza americana, a cui nessuno finora ha saputo mettere mano per una rigida regolamentazione e ristrutturazione. Per cui è probabile che altri sconquassi dei mercati possano innescare altri fallimenti a catena, come lo fu a suo tempo con la Lehman Brothers e con i Sub prime.
Obama è la faccia del socialismo americano, nato per assurdo nel paese più liberista del globo dopo il crollo del Muro di Berlino del ’89.
Lo è nella dietrologia dialettica, anche se ultimamente assai indebolita nella verve comunicativa; lo è nell’operatività, che dà assoluta priorità al mercato interno; lo è nel sostegno alle maggiori aziende manifatturiere e finanziarie, onde sostenere a spese dello stato la Federazione.

Romney vincitore silurerebbe subito Bernake, perciò tutta la politica monetaria sinora perseguita. Ciò porterebbe a fermare l’espansione del Debito con una maggiore attenzione allo sviluppo industriale. In pratica si duplicherebbe con alcune varianti di sostanza l’attuale rigorismo Ue, però basato solo sui tagli onde ottenere il pareggio di bilancio.
I Mercati non subirebbero grossi contraccolpi, mentre il $ si rafforzerebbe ovunque riducendo di conseguenza il costo americano sulle materie prime.
Il cambio di politica imposto alla Fed porterebbe quasi sicuramente in poco tempo il TUS almeno al 2%, selezionando quindi il finanziamento degli investimenti produttivi.
Ciò porterebbe ad una graduale riduzione dei consumi, perciò pure ad un ridimensionamento del debito delle famiglie americane, assai più imponente attualmente di quello del Debito sovrano.
Sarebbe, intenzionalmente, la rivincita del valore egemonico del $ sulle materie prime.

Entrambe le linee di politica economica non cambierebbero però il corso dei mercati, proprio perché il liberismo americano si è trasformato gradualmente in mercatismo, perciò nella preminenza delle quotazioni finanziarie – sia sui titoli che sulle materie prime – sull’economia reale. Un mercatismo che si è dilatato a macchia d’olio ovunque per la globalizzazione.
La crisi dura ormai da troppo tempo e le politiche economiche perseguite sui due lati opposti dell’oceano non hanno sortito alcun risultato, anche se negli USA hanno permesso di mantenere un certo livello di benessere con un Pil positivo.
La crisi comincia a farsi sentire anche nei paesi emergenti, soprattutto perché ridimensiona il consumismo occidentale, sbocco naturale dei vantaggiosi prodotti di questi paesi.
Il mercatismo è quello che detta le esigenze di politica economica dei vari stati. Lo è per gli USA, per l’Ue e anche per la Cina, l’India o per tutti gli altri paesi emergenti.
Si basa soprattutto sull’andamento dei mercati mobiliari, condizionati soprattutto dall’espansione abnorme dei Derivati.
Chi comanda i mercati è la finanza globalizzata, capace di dettare legge ovunque pure ai grandi stati.
Perciò la politica monetaria delle Fed di Bernanke/Obama è solo la conseguenza diretta dei danni che il mercatismo – o finanza selvaggia globalizzata – ha generato nel tempo, col gioco assurdo di chi sa perdere di più per assoggettare chi per “giocare” al guadagno facile ha bruciato tutto.

Il mercatismo con l’andamento dei corsi non solo ha dilapidato ingenti risorse, ma ha reso l’economia reale strutturale -  industriale e del Pil – un puro inutile surrogato: l’economia è stata soggiogata dalla finanza.
L’andamento dello spread, specie nelle nazioni deboli, non rispecchia i dati macroeconomici, ma solo quelli speculativi. Tra i due dati – macroeconomici e speculativi - spesso vi è una differenza abissale che non tiene in alcun conto né il Debito sovrano reale, né la potenzialità produttiva, né la capacità vera del risparmio privato.
Questi tre fattori sono comunque l’oggetto del desiderio del mercatismo, teso a rendere l’uomo risparmiatore un uomo consumatore.
La finanza globalizzata è più potente della somma dei maggiori stati occidentali ed emergenti, soprattutto perché questi non hanno la forza di regolamentare e ristrutturare i mercati, onde porli al servizio delle singole nazioni come luoghi di investimento produttivo.
I costi abnormi della politica in generale e di queste elezioni americane ne sono la prova inoppugnabile.
Chi, infatti, è in grado di spendere ingenti cifre senza finanziatori esterni? E chi, oggi, è in grado di finanziare dei candidati? L’alta finanza che già ovunque ha piazzato nei principali posti di comando dei propri uomini fidati a scapito della democrazia (volontà popolare).
La vittoria di Obama o di Romney non sarà pertanto la vittoria dell’uno o dell’altro per volontà popolare, ma solo il risultato della lotta tra 2 gruppi finanziari in grado di condizionare, per guadagnare, l’esito di qualsiasi elezione.
Il cittadino eleggerà il proprio candidato; candidato che sarà comunque sempre condizionato e manovrato da chi lo ha finanziato per metterlo in quel luogo chiave.
Fino a quando? Fin quando la speculazione selvaggia dopo aver divorato tutto il possibile, compresi stati e popoli, non avendo altro su cui avventarsi cannibalizzerà sé stessa.
A meno che i Popoli non abbiano la forza di ribellarsi e di renderla prona al proprio volere, dando priorità al risparmio e all’investimento produttivo.

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