Da quasi un lustro l’economia occidentale perde colpi, tanto che nell’Ue, ormai, siamo in recessione da un trimestre; altri, purtroppo, ne seguiranno.
La Grecia è stata la prima ad imboccare questa via per vari fattori: Debito sovrano troppo elevato, esagerato clientelismo occupazionale, scarsa redditività, investimenti spropositati – favoriti e spinti anche da contributi Ue a fondo perduto, che però dovevano essere integrati con altri sostanziosi capitali propri -, welfare allegro (pensioni a 52 anni), evasione fiscale elevata, catasto inesistente, apparato statale antiquato … e in ultimo rigorismo esasperato.
L’hanno seguita a ruota il Portogallo (default contabile), l’Irlanda (andata fuori controllo per salvare le proprie banche), la Spagna (che ha spinto la bolla immobiliare oltre la sostenibilità economica e abitativa, compresa quella turistica) e l’Italia (spread e contributi Ue)[1].
L’Italia, specie al Sud, ha troppi punti in comune con la Grecia - per non dire tutti -; anche se fino ad un anno fa, comunque, l’economia nazionale reggeva il passo seppur a fatica. Ciò che l’ha mandata in recessione è stata la dissennata politica rigoristica di tagli e tasse che, come già avvenuto in Grecia, ha drasticamente bloccato l’economia reale che ancora resisteva alla crisi innescata dall’abuso dei prodotti finanziari. Prodotti finanziari che per la speculazione selvaggia e incontrollata sullo spread sono stati la causa principale del tonfo italiano.
Il rigorismo nei bilanci è sempre necessario; però non va praticato unicamente a senso unico.
Dire che il governo Monti ha abusato del rigorismo è corretto, anche se imposto perlopiù da pressioni esterne. Dire che ha sbagliato è un po’ forzato, proprio perché la compagine ministeriale è sorta per l’incapacità politica dei partiti di dare una risposta sensata, plausibile e operativa alla nazione.
Monti ha fatto ciò che ha potuto e ciò che gli era stato chiesto di fare: è il frutto di una corrente di pensiero che si pratica dall’inizio della crisi in Europa, di cui la Merkel è l’alfiere indefesso, nonostante il disastro Grecia.
La colpa di Monti – se così la si può considerare – è quella di non aver saputo fare altro che seguire un’unica via, in ossequio e in obbedienza riconoscente a chi l’aveva imposto e voluto.
Monti, facendo perfettamente il compito affidatogli, ha avuto l’immenso pregio, negativo, di far esplodere tutte le contraddizioni insite nelle teorie economiche neoliberiste, di cui, per anni, è stato tecnocrate presso l’Ue o grandi finanziarie, oppure fedele servitore e docente alla Bocconi.
I freni teorici di contenimento e di bilanciamento debito/sviluppo alla prova dei fatti si sono dimostrati inadeguati e dannosi.
Purtroppo queste grandi contraddizioni ricadono in maniera nefasta su tutto il popolo.
Prodotti finanziari mobiliari a parte, vale soffermarsi sui dettami neoliberisti che alimentavano, fino a non molto tempo fa, l’economia del mondo occidentale, poi soppiantate in toto dalle teorie globalizzate dell’Alta finanza.
Il mantra, con l’avvento della globalizzazione, era: per resistere bisogna diversificare, delocalizzare, ingrandirsi, fondersi, acquisire, consumare, produrre simultaneamente a prezzi sempre minori. Tutto ciò per un unico fine: innalzare costantemente il Pil, perciò la crescita. V’era un circuito chiuso perpetuo tra produzione e consumo che s’alimentava a vicenda in un crescendo parossistico.
Ciò valeva per le aziende e per le nazioni. Era il dogma economico che reggeva il mondo.
Per farlo, bisognava non produrre, o delocalizzare, per poi esportare, ma solo per consumare. Sicché i prodotti sono diventati attrezzi uso e getta per un altro prodotto ben più importante e interessante: l’homo consumens.
A chi metteva in guardia che in questo modo l’economia si sarebbe facilmente strozzata e ingolfata si rispondeva che il mondo non poteva procedere in altro modo. Perciò avanti con capi di stato, premier e ministri che “correvano” nei paesi del sud-est asiatico – il nuovo Eldorado dell’affare -, seguiti da aerei colmi di industriali o finanzieri, per impiantare business in quei luoghi dove gli stati (Cina e India in primis) garantivano stipendi ridicoli, anche se in spregio ai diritti umani.
Chi predicava che, sguarnendo progressivamente il territorio nazionale, si sarebbe a medio e lungo termine creata disoccupazione, e con questa riduzione del reddito, perciò pure dei consumi, lo si guardava come retrogrado.
La crisi attuale, perciò, non è colpa di Monti: era già insita nel sistema neoliberista della forsennata ricerca della crescita infinita. La globalizzazione dell’Alta finanza – evoluzione al quadrato del neoliberismo – l’ha solo anticipata, specie negli ultimi 2 decenni dopo il crollo del Muro di Berlino, fondendo marxismo e liberismo nel nuovo motto: From Marx to Market.
Alla verità della scienza economica si è sostituita, imponendola, quella mediatica, con un battage proprio da lavaggio del cervello. Ciò non solo per modificare usi e costumi, ma soprattutto per dirigere redditi e risparmi verso il consumismo fine a sé stesso.
Ovviamente tutto ciò è avvenuto anche in politica. Basti ricordare le pesate e studiate parole di Monti in Parlamento: In cassa non vi è più neppure un € per pagare gli stipendi … – pausa di suspense – e neppure le pensioni!
Ovviamente senza spiegare a cosa fossero servite la Legge di stabilità dell’anno precedente - per quello ch’era in corso e ormai alla fine - oltre a quella dell’anno già approvata prima del suo avvento – e da lui fatta propria – che dava copertura alle spese dell’anno seguente.
Questa manipolazione della realtà viene conclamata pure ora da diversi politici, specie da quelli che non badano tanto al sottile pur di affermare la “loro” inconfutabile verità demagogica; salvo cambiarla magari poco dopo quando non è più utile al loro interesse (es. Casini) per dimostrarsi qual sono: le sagaci mosche cocchiere della politica italiana.
Si è cambiata l’impostazione economica del vivere dell’uomo: produrre reddito per migliorare, vivere meglio e svilupparsi.
La si è sostituita con: consumare per crescere.
Il consumismo cosa ha creato? La dissoluzione del risparmio pubblico e privato, necessario a finanziare il potenziamento delle attività tecnologiche e produttive per reggere la concorrenza. In pratica ha bruciato il risparmio nell’assioma: lavorare per guadagnare, guadagnare per consumare, consumare per crescere.
Shopping! Parola magica che crea diletto e potenzialità sociale, dando all’individuo che la coltiva la sensazione d’essere il re dell’universo nel permettersi non il necessario, bensì il voluttuario. Un divertimento nella realtà non fine a sé stesso, ma delle grandi aziende che, imponendolo, ne traevano grandi profitti.
L’uso e getta ha ridotto il costo dei prodotti, li ha resi gadget mediatici di successo ed emancipazione; ma, nello stesso tempo, ha distrutto il risparmio precedente. Non più oggetti necessari per la vita ordinaria, quindi beni durevoli, ma oggetti trendy – status symbol - che bisognava possedere per essere alla pari, spesso inutili o superflui, doppioni di altri che assolvevano lo stesso compito (auto, elettrodomestici …).
Tendenza mediatica e nazionalpopolare peggiorata dal fatto che a trarne beneficio non erano il cittadino e la nazione, ma solo l’azienda globalizzata che sfruttava il territorio non per produrre e arricchire, ma solo per guadagnare e impoverire, essendo da tempo non radicata sul territorio e de localizzata dove l’utilità contingente permetteva costi assai minori e quindi guadagni assai maggiori.
Il Pil cresceva in modo effimero solo come volume complessivo di scambi. Il risparmio e i redditi decrescevano perché bruciavano ricchezza nel consumismo, spalmandola non più sul territorio d’appartenenza, ma solo nelle casse delle aziende produttrici.
Nulla di nuovo, quindi, che quando il risparmio decresce anche l’occupazione sia costretta a ridursi drasticamente nel medio lungo termine, accelerando il picco negativo quando la macchina statale, per reggere le spese, è costretta ad aumentare la pressione fiscale.
Non per nulla la povertà è dilagata e la ricchezza si è concentrata in un esiguo gruppo di persone.
Il rigorismo è nato come tentativo – soprattutto Ue – di correggere la caduta del Pil (privato dei guadagni) e l’aumento dei Debiti sovrani (dilatati dalle costanti spese e da minori entrate). Formula che ha solo peggiorato la situazione.
Per tornare alla produttività e al benessere precedente ci vorrà molto tempo, perché bisognerà ricostruire tutto l’apparato strutturale produttivo che è stato smantellato con la globalizzazione.
Per farlo sarà necessario anche cambiare sostanzialmente abitudini e consumi, oltre a creare un nuovo assetto sociale in grado di radicare le aziende sul territorio, per farle diventare soggetto giuridico produttivo e non solo commerciale.
Ciò implicherà il passare dalla crescita infinita del Pil ad una decrescita sostenibile, soprattutto basata sulla filiera corta, sul distretto industriale, sul prodotto a impatto ambientale zero, sulla predisposizione al risparmio rendendo il prodotto nuovamente bene durevole e non uso e getta.
Per fare ciò ci vogliono idee e convergenze politiche, coraggio nell’investire, parsimonia nel tassare e oculatezza nel programmare.
Decrescita sostenibile non è il tornare forzatamente al benessere e al welfare di decenni fa, né il ridurre costantemente il Pil; è solo il pianificare la politica economica del paese in modo che si riducano al minimo i riflessi negativi della recessione e si operi per tornare a livelli compatibili di sviluppo sostenibile reale, basato sia sull’esportazione che sul risparmio.
Ridurre i costi non è solo aumentare le tasse e contenere il Debito sovrano. È predisporre le basi per un consumo – non consumismo – consapevole di beni e servizi.
Perché è ovvio che non servano 10 cellulari e 3 automobili procapite, o televisori in ogni stanza, per aumentare il Pil, specie se tutti questi prodotti sono il frutto dell’importazione o solo – come il caso Fiat insegna – del solo assemblaggio di componenti prodotti all’estero.
Lo sviluppo ha basi solide utili a perpetuarsi nel tempo e è basato soprattutto su agricoltura e manifatturiero. Non è mai il Pil che cresce per il terziario o per il consumismo commerciale.
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