venerdì 28 dicembre 2012

Fiscal cliff.


Benché manchino solo 4 giorni alla fine dell’anno il tormentone Fiscal cliff non è ancora stato dipanato.
Per cui il braccio di ferro tra il presidente Obama e i Repubblicani, vede il primo aggiustare continuamente al ribasso le proprie richieste e i secondi a tener duro, considerato che senza il loro voto favorevole il Presidente dovrà battere per Legge … in ritirata.
Ne consegue che all’1 Gennaio 2013 scatteranno molto probabilmente dei tagli lineari e un aumento della pressione fiscale di circa 2 pt, salvo possibili colpi di scena sul filo di lana. Pur se è probabile che i Ministeri interessati possano procedere nel breve periodo ad aggiustamenti procedurali, in attesa che a Gennaio si possa concludere la trattativa.
Gli USA registrerebbero così il primo default[1] della loro lunga storia, anche se questo è un default legislativo più che contabile.

Per comprendere questa trattativa, che ha reso, di fatto, Obama un presidente azzoppato, bisogna riandare alla sua elezione, non tanto nell’analisi della sua vittoria netta su Romney, quanto sui risvolti che l’hanno prodotta: il caso Petraeus[2], esploso solo 2 giorni dopo le elezioni presidenziali dopo mesi di attenta incubazione.
Fatto che, se reso pubblico prima del voto, molto probabilmente avrebbe capovolto il risultato elettorale.

Nel frattempo bisogna pur considerare che il Debito sovrano USA raggiungerà al 31/12/2012 la pregevole somma di ben 16.394 mld di $, contro un Pil calcolato – secondo le 3 principali modalità di calcolo: Fmi, Banca Mondiale, Cia – intorno ai 14.600 mld.
Uno sbilancio che porterà il rapporto Debito/Pil americano al 123%.
Se si considera che all’insediamento dell’amministrazione Obama questo rapporto fosse del 75% circa, ben si capisce quali risultati economici e finanziari abbia raggiunto la crisi americana; e con questa anche quella mondiale.
Infatti, neppure l’Ue, pur con politiche economico-finanziarie diverse – il rigorismo -, ha saputo fare molto meglio, anche se bisogna precisare che il debito complessivo Ue è intorno al 100% del Pil proprio, attestato secondo gli ultimi calcoli sui 16.250 mld di $.

Il Pil americano è tuttavia cresciuto di circa il 2% quest’anno. Una crescita dovuta più alla tenuta dei consumi che a quello produttivo e industriale.
Mentre quello Ue è andato in stagnazione, con molti Stati che hanno avuto recessione.
Ne consegue che essendo ormai un lustro che la crisi si aggrava, il mondo occidentale debba trovare un nuovo sistema di sviluppo sostenibile, non essendo pensabile che né con manovre di solo monetarismo (quantitative easing), né di solo rigorismo, si possa uscire dalla crisi. Entrambe le ricette, infatti, hanno fallito la cura della crisi.
La partita USA non si gioca pertanto su una semplice contrapposizione tra Repubblicani e Democratici, ma su linee economiche sociali quasi opposte; che, comunque, da sole non saranno mai capaci di risolvere la crisi.
Una (Obama) implementata sul sociale, la seconda (Repubblicani) sulla difesa del capitale. Uno scontro pratico tra chi detiene la ricchezza e chi invece deve produrla.
Non a caso – pur in modo diverso – è ciò che succede in ambito Ue, dove gli Stati ricchi, con la scusa del Fiscal compact, tendono a far pagare con il rigorismo penitenziale luterano il loro benessere a quelli poveri.
Un po’ lo stesso discorso che avverrebbe negli Usa con i tagli lineari e l’inasprimento fiscale.

Lo scontro tra Obama e i Repubblicani non è però solo di impostazione economica, ma pure a carattere politico.
Obama, ovviamente, sta spendendo da anni più del dovuto, sia per concedersi la rielezione presidenziale, sia per corrispondere alle promesse elettorali fatte a suo tempo, anche se per buona parte disattese. Tuttavia pure con Bush junior il bilancio s’era dilatato, anche se giustificato e previsto per le costose spese militari delle guerre in corso.
Abbiamo perciò uno scontro reale tra Democrazia e  Capitale, che tradotto in poche parole ci dà: tra poveri e ricchi.
I meno abbienti possono agire sull’uso del voto per raggiungere i propri interessi, i ricchi con il capitale. I primi sono molti, i secondi pochi. Però detengono la quasi totalità della ricchezza disponibile.

Negli ultimi decenni la ricchezza è passata di mano per ragioni varie, soprattutto a carattere giuridico e fiscale, sull’onda delle idee economiche neoliberiste.
Ne consegue che il capitale ha messo in atto, con la globalizzazione, una strategia particolare, onde innescare con dell’altro capitale una guerra finanziaria tesa ad assoggettare il più debole.
Il capitale, perciò, ha esaurito il suo fine economico di propulsore dell’economia, trasformandosi in Alta finanza, onde essere maggiormente “mobile” e migrare velocemente dove la convenienza sia maggiore.
L’informatica e la rete telematica hanno favorito questo processo, collegando in tempo reale mercati e investimenti. Per cui pure la finanza si è trasformata da entità quasi individuale e locale a gruppo giuridico internazionale, quasi anonimo e più potente degli stessi grandi stati.
Pure il “prodotto” si è evoluto, diventando da materiale a virtuale.
Questo processo ha quasi estinto la radicazione dell’azienda/individuo sul territorio, creando di conseguenza un distacco tra la democrazia e il capitale.
Portando il tutto al paradosso si potrebbe dire che il detto di Marxla proprietà è un furto” s’è evoluto in “la finanza è un abuso e crea schiavitù”.

L’Alta finanza, non essendo più produttiva, è diventata essenzialmente speculativa. E siccome la lotta speculativa non avviene con la concorrenza sul prodotto materiale, bensì su quello finanziario, è ovvio che  quella più potente sia in grado di investire più risorse per assoggettare quella più debole.
Da questa lotta tra grandi finanziarie ne sortiscono vinti e vincitori, di cui la Lehman Brothers fu la prima vittima illustre sacrificale. Ma, come tutte le guerre, tutti hanno dei costi tali che l’assoggettare produca necessariamente grosse perdite ovunque.

Monetarismo e rigorismo hanno in sé il seme pernicioso del circolo vizioso. Questo circolo vizioso è il corto circuito che si crea tra stati e finanziarie.
Sicché i primi emettono titoli per finanziarsi, sottoscritti dalle seconde; le quali quando sono in difficoltà ricorrono  al primo per farsi finanziare o essere salvate.
Chi paga i danni di questo mal’affare? Il contribuente/cittadino, ovviamente, che per somma ironia ne è pure scavalcato democraticamente, perché le esigenze della finanza sono ritenute preminenti a quelle del singolo.

Rigorismo e monetarismo, neppure abbinati saggiamente tra loro, potranno risolvere la crisi attuale se non si riuscirà a regolamentare in modo diverso il mercato, sottoponendolo a regole precise che facciano diventare il capitale un investimento e non un degenerante mezzo di speculazione.
Perché è ovvio che l’Alta finanza non sia contro gli Stati, ma che si avventa su di questi con la speculazione per svuotarli delle loro ricchezze.
Per cui, privandoli delle ricchezze, li prona alle sue esigenze.
Ne consegue che la Democrazia diventa un elemento manipolato dai media, braccio armato dell’Alta finanza, che con il terrorismo finanziario mediatico prona il popolo alle sue scelte.
La lotta sul Fiscal cliff è solo un intermezzo di questa guerra, anche se gli attori che la combattono non se ne rendono completamente conto. Sono, tuttavia, uomini di quel sistema che là li ha imposti, finanziandone la loro ascesa politica. Non solo negli USA, ma pure nell’Ue.



[2] - Per approfondimenti vedere: Obama, Petraeus e il Fiscal cliff.

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