domenica 15 febbraio 2009

Please, ricreazione finita!

La grande recessione del ’29 si abbatté come un flagello per quasi tre lunghi anni sull’umanità. Era, comunque, una recessione causata da surplus di eccedenza di prodotti alimentari.

Allora l’economia era prettamente agricola e quella industriale era ancora marginale.

In crisi il settore agricolo/alimentare, la Borsa di New York crollò nell’esplosione della bolla speculativa rialzista.

Si optò nel rintanarsi su sé stessi, perciò nel protezionismo. In verità più che un protezionismo era un’autarchia: il procedere con le proprie forze.

Ciò portò inevitabilmente al rafforzamento delle identità nazionali e, nei paesi con democrazia debole e con debiti ingenti per le guerre affrontate (e perse), ad un populismo rivoluzionario consequenziale. Il colonialismo, infatti, che cosa fu se non un modo di recepire ricchezza a basso costo nell’esaltare la “potenza” nazionale?

La recessione fu il prodromo di una nuova identità e si ebbero i vari fascismi: in Russia, come precursore dei tempi, il comunismo, in Germania il nazismo, in Italia e Spagna il fascismo, in Francia una democrazia debole, malata e in sostanziale dissidio (guerra fredda) civile.

Si salvarono solo la democrazia confederale U.S.A. e l’Inghilterra, grazie alla loro antica tradizione democratica e culturale e alla grande disponibilità di materie prime.

Lo scontro ideologico, e pure economico per il controllo delle materie prime, portò inevitabilmente ad una lotta politica tra nazioni che sugli investimenti keynesiani, perciò sulla giustificazione economica del debito pubblico per rilanciare l’economia, avevano fatto tutte affidamento.

Ciò portò inevitabilmente alla seconda guerra mondiale.

Se sostituiamo i prodotti agricoli del ’29 ai prodotti finanziari odierni otteniamo l’identico risultato.

Non solo! Nel mondo occidentale vi è una “confederazione” amorfa di ben 27 stati senza amalgama, con sostanziali diversità economiche, ideologiche, etniche e culturali, che hanno aggiunto, ai già loro eccessivi sprechi e debiti interni, pure una costosa struttura sovranazionale: l’Europa confederale! La quale è il frutto d’una nuova dirigenza aristocratica fondata sull’oligarchia e sulla plutocrazia, usufruendo della tecnocrazia.

Se si aggiunge la libera circolazione delle persone si addiviene all’incapacità totale del controllo sia della microcriminalità esponenziale, sia di quella ramificata e strutturata, sia della migrazione sistematica di capitali favorita dalla rete informatica e dai mercati mobiliari tra loro connessi.

In Italia si avevano nel secolo scorso: Stato e Comuni, poi le Province, poi le Regioni, poi i vari Comprensori locali … e chi più ne ha più ne metta.

Sicché per creare occupazione si è optato per la via più facile: generare organismi pubblici destinati ad assorbire manodopera (clientelare) e produrre poltrone lautamente retribuite. Il tutto creando debito e sprecando risorse.

Il colpo di grazia l’hanno pure prodotto i Comuni, aggregandosi tra loro nella costituzione di Municipalizzate (S.p.A.); che sono poi sfuggite, nel loro crescere ed acquisirsi/fondersi, al controllo dei soci fondatori spesso per un basilare principio operativo: i dirigenti da società a capitale pubblico le hanno trasformate in aziende private con lucida (interessata) chirurgia finanziaria.

I Comuni sono diventati col tempo soci di minoranza, perciò incapaci sia di ripianare le perdite avute (ove esistenti) sia di immettere nuovi capitali (per assoluta carenza di liquidità), essendo dovuti ricorrere ad indebitamento finanziario esterno e a nuovi soci privati.

Risultato: debiti creati, obiettivi falliti, costi aumentati e … beni alienati.

I tassi erano l’arma impropria convenzionale per controllare l’economia; una volta, ora non più!

Difatti la loro discesa non ha prodotto alcun risultato pratico nel fronteggiare la crisi, se non quello di consentire alle aziende indebitate di ridurre i costi finanziari.

L’esperienza giapponese degli anni ’90 a tassi zero non insegnò nulla.

La BCE[1], con l’avvento di Trichet, ha cercato di “controllare” (eufemismo) l’inflazione alzando i tassi progressivamente; mentre alcuni governi, come quello Prodi, aumentavano le tasse per non ridurre populisticamente le spese (e gli sprechi). Ma l’inflazione non era reale, bensì subordinata ai Future delle materie prime, perciò non dipendente dal processo industriale/commerciale; era dovuta alla speculazione e alla politica.

Il risultato è stato un’incentivazione governativa e silenziosa alle aziende ad emigrare in lidi maggiormente redditizi, perciò a perseguire una “sradicalizzazione[2]” sostanziale del territorio.

Poi, a danno arrecato, i tassi sono scesi e chi aumentò l’imposizione reclama ora politiche di sostegno all’economia.

Basti pensare a “Ciacera[3] e al suo continuo sproloquiare in proposito senza alcun costrutto e linea economica seria, dopo l’ottimo risultato conseguito (si fa per dire) come amministratore di lungo corso.

I governanti puntano più o meno quasi tutti ad un’economia sociale di sostegno alle imprese, perciò al mantenimento dello status quo attuale.

Non condivido questa semplicistica politica finanziaria per diversi motivi:

a) La costituzione di una o più “bad bank” per spurgare il mercato dai titoli tossici è eticamente amorale, specie se l’ingentissimo importo di tali titoli verrà addossato alla comunità intera anziché a chi per anni ha speculato nello spregio totale delle regole.

b) Il sostegno alle aziende sull’orlo del collasso finanziario è un bene, però se parificato a nuove regole di controllo e di gestione delle stesse. Diversamente sarà un buco nell’acqua: uno spreco di risorse.

c) L’economia e la finanza attuale hanno bisogno di un nuovo progetto esistenziale proprio, quindi di nuove regole e, soprattutto, di nuovi uomini capaci di interpretarle e farle proprie.

La crisi vera comincia proprio ora e siamo solo agli albori. Vorrei essere smentito dai fatti, ma credo che andrà ben oltre il prossimo anno e per un semplice motivo: è globale e non ancora in piena virulenza!

Pure i politici ora cominciano a rendersene conto e temono, Obama in testa, di non poterla contrastare, anche perché sono impreparati ad affrontarla e non la sanno quantificare.

Ritengo che sarà minimo di durata uguale, se non più lunga, della recessione del ’29. E quella durò 11 trimestri prima di mostrare una nuova alba.

Se ne uscirà solo con un nuovo modello di società che preveda:

1) Un nuovo impianto industriale ramificato e radicalizzato sui vari territori nazionali pur senza essere protezionistico: il distretto industriale che fa “sistema” col cittadino.

2) Nuove regole economiche e finanziarie sia nella gestione delle grandi aziende, sia delle multinazionali, sia dei bilanci e delle spese statali, basando tutto su un’economia sostenibile.

3) Una Borsa che sia un luogo per investire e non per speculare, basando il suo incedere sui fondamentali e sui dati macroeconomici.

4) Una politica dei salari che operi una redistribuzione del reddito da lavoro (non da capitale) con un rapporto dirigenza/base teso ad eliminare le enormi disuguaglianze sociali.

5) Un nuovo assetto sociale aggregato su interessi che facciano riferimento ai valori, specie quelli relativi alla priorità di ogni regola economica da subordinare all’essenza di persona.

6) Il pianificare una crescita sostenibile (lenta ed omogenea) basata sul rispetto del sociale e della vera democrazia.

7) Il tornare a bilanci nazionali ( e degli enti statali) sani abbandonando le politiche keynesiane.

La politica nostrana degli ultimi decenni è stata deleteria e preparatoria alla crisi attuale.

Se non si vorrà uscirne provvisoriamente, per poi ritrovarsi tra poco con un’altra ben maggiore, bisognerà eliminare le storture del passato in ogni campo.

Che serve? Il bipolarismo, o il leaderismo o il consociativismo dei governi di centrosinistra?

Serve una democrazia matura dove tutti tendono a costruire nel rispetto delle regole: chi ha la maggioranza governa e chi è all’opposizione si prepara per farlo. Servono, pure, nuove regole, perciò una nuova Costituzione moderna ed adatta ai tempi.

In questi giorni si è discusso molto di attriti tra poteri dello stato anche se tali attriti proprio non ho visto. Al massimo ho notato l’incapacità (con tutto il rispetto delle istituzioni) di saper leggere la realtà nello scorrere[4] del tempo.

Perché quando si sancisce (tipo ex cathedra) che la magistratura può sostituirsi al legiferare e stabilire nel dettaglio come una persona debba finire i suoi giorni, comprendo solo, nella mia grande ignoranza di semplice cittadino, che si sono invertiti i ruoli.

E non entro nel merito del conflitto di competenze tra i vari organi dello Stato, ma sottolineo solo che la Costituzione attuale dà il potere al Capo dello stato di concedere la “grazia” al “condannato”. E se ciò non avviene la responsabilità cade solo sulla coscienza degli interessati, tanto nel bene che nel male, specie se un’apposita legge è in dirittura d’arrivo col consenso di un’ampia maggioranza trasversale parlamentare che va ben oltre gli opposti schieramenti politici.

Decidere se sia bene o male non è semplice, specie se la cultura di partenza è relazionata ad una determinata ideologia; come non lo è stabilire che una costituzione sia immodificabile e immutabile. Tutto va rapportato ai tempi!

Il problema morale è cavalcato da tutti e da alcuni in particolare.

Personalmente ritengo che come è oggi concepito sia un falso problema.

Quello vero è il non fare della politica una professione, perciò una fonte di guadagno, perché in questo modo il concetto di bene comune, quindi di dedizione alla causa, va correlato alla continuità del solo interesse individuale o lobbistico.

Esiste poi il problema del concetto di capitale che va riportato alla persona e non alla sola finanza ed economia.

Troppi industriali e finanzieri, oltre che i politici, lo intendono come valore a sé stante a cui relazionare il comportamento dell’individuo; ma in questo modo l’oggetto diventa soggetto: un soggetto totalmente astratto e asservente.

Chi oggi riuscirà a concepire esattamente il valore del problema morale sarà il governante del futuro; ovviamente pure se saprà comunicarlo al popolo.

Perché, in sostanza, tale problema coinvolge ogni stadio della vita sociale: il cittadino, la religione, l’ideologia, la cultura, il lavoro, l’economia, la scuola e la politica. E tutto non può che prescindere da un passaggio necessario: il proporlo come valore inalienabile e non negoziabile.

Non si possono creare regole nuove e farle rispettare senza che queste siano basate su un valore morale condiviso da tutti.

E la Democrazia si basa proprio su questo: il concepire un Valore e il rispettarlo sempre.

E se ciò avverrà non vi saranno attriti più o meno artificiosi tra vertici istituzionali, né tra quelli politici e sociali, ma solo il prodigarsi per costruire tutti insieme, nel rispetto reciproco, una società coesa e compatta pur nella diversità di veduta.

Diversamente si avrà chi, essendo al vertice, percepirà centinaia o miglia di volte di più di chi sta alla base, magari occupando solo una poltrona e non avendo mai lavorato in vita sua.

La sperequazione sociale da dove nasce e dove è annidata?

Per saperlo basta guardare il reddito da lavoro (non di capitale) di alcuni e confrontarlo con quello di un operaio o di un pensionato; e forse cominciando dal politico[5] di professione.

La questione morale si basa sull’uguaglianza tra i cittadini/persona, parificandoli non solo sulle parole “vane”[6] contenute nelle varie costituzioni.

Perché la Legge sarà uguale per tutti; ma se lo è solo come principio di base e non operativo allora ad un problema si accumulano altri problemi.

Si parla della necessità di nuove costituenti e la base ne avverte l’esigenza maggiore.

Il vertice forse assai meno, anche perché il modificare certi assetti pregiudicherà determinati privilegi.

E così si spiegano benissimo tanto la crisi economica/finanziaria quanto quella politica/istituzionale: sono il frutto di una società che ha travalicato il valore morale, sostituendolo con l’interesse individuale.

Di conseguenza pure i fatti di questi giorni, pur essendo poco economici, sono emblematici di come vanno le cose: Pilato regna!

E per Pilato intendo tutti quelli che poi si autoassolvono lavandosi le mani: nella chiesa, nella politica, nelle istituzioni e nella società.

Salvo poi fare il coccodrillo ed addossare ad altri la responsabilità, imitando Caifa e stracciandosi le vesti.

Giova ricordare, tuttavia, che per un politico (e per tutti) la priorità è quella di operare a tempo debito, onde evitare che i problemi esplodano creando ingenti danni.

Oggi è esplosa la recessione, la crisi finanziaria (selvaggia) globalizzata, il contrasto sociale muro contro muro tra le varie forse politiche. Ora pare sia esplosa pure … l’eutanasia/fine vita e sta esplodendo l’economia reale e l’occupazione.

Politici e cittadini: vi sembra poco?

Basta dietrologia; abbiamo bisogno di ben altro.

Su, che la ricreazione è finita!

Si torni tutti al lavoro prima che la situazione precipiti maggiormente in un baratro senza fine.




[1] - Altra struttura sovrannazionale in vena di nuova grandeur per gli sfarzosi palazzi che intende costruire come nuova sede.

[2] - Lemma forzato improprio, ma discorsivamente intuitivo: sradicamento.

[3] - Pseudonimo di un politico. Viene dalla voce dialettale: chiacchierare a vuoto perché si ha la lingua.

[4] - Vale per la prevenzione delle problematiche insorgenti, perciò il risolverle prima che queste si incancreniscano, delegando a pochissimi la risoluzione del problema. Basti pensare da quanto la problematica di questi giorni serpeggia nella nostra società.

[5] - Ovviamente non solo per il compenso parlamentare.

[6] - Perché teoricamente solo sulla carta.

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