I fatti economici e finanziari di questi ultimi giorni hanno messo in chiaro, per chi magari non lo avesse ancora capito, che i governanti occidentali, e con essi gli strateghi della grande finanza, sono incapaci non solo di gestire la crisi, ma principalmente di poterla risolvere.
L’Ue nella realtà è un fatto puramente monetario e non di unità politica e di territorio. In pratica una realtà di comodo mal concepita, pessimamente realizzata e irrazionalmente gestita.
Le diversità (divisioni) non solo tra le varie nazioni, ma pure all’interno di queste, portano ad una carenza d’unità d’intenti anche quando la gravità del pericolo incombente su tutti consiglierebbe (necessiterebbe) una cura radicale.
La formula occidentale basata sull’espansione del Debito sovrano per incentivare la crescita del Pil, basandola erratamente sulla teoria keynesiana - applicabile però solo in determinate temporanee situazioni - ha portato tutti gli stati a vivere per decenni sopra le proprie possibilità, affastellando debito su debito.
L’avvento dell’Ue (€) ha inoltre prodotto in certe nazioni periferiche un’accelerazione di questa mania sulla crescita del Pil, portandole, di fatto, al collasso.
È di questi giorni una polemica, tutta italiana, sul rapporto patto di stabilità e contributi Ue non spesi.
Diverse regioni del Sud rischiano di perdere circa 3 mld di € di sovvenzioni Ue per il patto di stabilità, che vincola, di fatto, la possibilità di spesa. E in tempi di carestia finanziaria questi sembrerebbero tanta manna piovuta dal cielo.
Ovviamente questa polemica è una degenerazione dialettica; ma ciò basta a farla passare agli occhi dei più per malgoverno nazionale. È una polemica populista!
Si evita, infatti, di mettere bene in chiaro che a fronte del 3 mld che si percepirebbero a fondo perduto (e finanziati con le tasse di tutti) vi è però la necessità (clausola) di aggiungerne altri che lo stato e le regioni oggi non hanno. Perciò l’investimento deve essere prodotto con una partecipazione finanziaria di almeno il 50%.
Gli scopritori dell’acqua calda non mettono però in risalto che le varie regioni interessate, per propria scelta strategica, hanno preferito spendere le risorse disponibili in ben altro modo, privilegiando altri progetti e interessi, rinunciando quindi, di fatto, ai contributi stessi.
La Grecia ha un Debito sovrano che è circa (arrotondando) 1/7 di quello italiano; il quale, a sua volta, è circa 1/7 di quello statunitense. La Grecia, però, produce un Pil pari a quello prodotto da mezza Lombardia e il suo debito supera il 150% del Pil. Quello italiano è sul 120% e quello statunitense (14.500 mld $) ora intorno al 50%, anche se si prevede che tra meno di 2 anni possa raggiungere l’80%. Infatti, la diatriba attuale sul nuovo tetto legislativo del Debito sovrano U.S.A. tra Obama e il Congresso non è cosa di poco conto, giacché si tratterebbe di innalzare tale tetto di più del 40% (dal poco più dei 10.000 attuali ai 14.500) solo per quest’anno.
La crescita del Pil greco si attesta nell’anno in corso al -3%, perciò in forte recessione; quello italiano intorno al +1% e quello statunitense sul +2,5% circa.
Debiti così alti in rapporto all’espansione del Pil hanno l’unica possibilità d’essere risanati solo a lungo termine, perciò facendo ricorso a vari decenni di tagli e sacrifici. Per procedere speditamente bisognerebbe avere un Pil almeno a 2 cifre.
La Grecia in precedenza ha già avuto un sostanzioso aiuto Ue/Bce/Fmi, al quale ora se n’è aggiunto un altro maggiormente corposo, che tra pubblico e privato raggiunge i 160 mld di €. In pratica, di fatto, quasi tutto il debito greco è stato finanziato da aiuti esterni, senza i quali lo stato ellenico sarebbe già fallito.
E, in effetti, è già in vero default; perché la Grecia l’abbiamo … comprata tutta al 50% in più del suo reale valore.
La politica Ue su questo caso specifico non mi trova consenziente e la ritengo il compromesso minimo raggiungibile.
Molti ritengono che i compromessi al ribasso siano necessari in democrazia, anche se costoro non hanno mai capito, in effetti, la reale essenza della democrazia e, in subordine, del compito della politica.
Il dilatare la scadenza dei Titoli sovrani ellenici dal minimo precedente di 7, 5 anni all’attuale di 15 e con un massimo di 30, con deroga fino a 40, non è il risolvere il problema greco, ma solo procrastinarlo pensando che la politica dei piccoli passi possa dare risultati nel tempo se le condizioni dovessero migliorare.
Perciò al massimo, andando benissimo le cose, lo stesso problema si avrà tra 15 anni e negli anni a venire, quando le scadenze sui titoli andranno a decorrenza.
I problemi non si risolvono mai da sé; ed ora, in autunno, bisognerà vedere se il popolo greco riuscirà ad arrivare alla fine del mese, a percepire pensioni e stipendi, se potrà pagare i trasporti necessari per il lavoro, se si potrà permettere le spese per la scuola dei figli, per le necessarie cure mediche e per tutte quelle altre necessità basilari che fanno parte della vita di ogni giorno. E ciò alla luce della nuova manovra correttiva di austerità che il Governo greco dovrà approntare per ricevere gli aiuti convenuti.
La Grecia era una nazione sottosviluppata che sulla base dei contributi a fondo perduto Ue ha fatto enormi progressi di Pil e di sviluppo; ma, allo stesso tempo, dovendo pareggiare i contributi con capitali propri, ha dilatato il proprio Debito sovrano fino a che si è superato il punto irreversibile del non ritorno, correndo di conseguenza sempre più velocemente fino alla bancarotta reale attuale.
L’Ue, dal canto suo, ha prima tergiversato quasi ignorando il problema. Poi, per evitare il baratro all’€ (quindi a sé medesima), è intervenuta con un corposo finanziamento; ed ora, con un altro ancora maggiore, pur se non sufficiente e risolutivo, ha cercato un tampone minimo al disastro.
Una grande banca tedesca ha messo sul mercato ben 7 mld di € di titoli sovrani italiani, in pratica alienandoli prevedendo brutto.
Ciò significa una semplice cosa: la Germania, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sta iniziando a mettere in atto il piano B di auto salvataggio in caso del precipitare degli eventi. Che poi riesca, pur con molte perdite finanziarie, a salvarsi da sola, rompendo l’Ue, è tutto da dimostrare.
L’asse franco/tedesco, onde trovare un accordo sulla Grecia, su pressione francese ha stabilito che il fondo salva stati Efsf possa intervenire anche nella ricapitalizzazione delle banche, specie di quelle che si trovassero in difficoltà avendo in portafoglio una quantità eccessiva di Titoli sovrani greci; i quali potranno essere ritirati a valore nominale dal fondo stesso.
Con un Pil a -3% la Grecia sarà costretta a fallire anche contabilmente, pur con gli attuali, o futuri, aiuti Ue/Bce/Fmi/Efsf.
Il risanamento minimo per reggere la costringerà ad ulteriori sostanziosi tagli, che, a loro volta, affosseranno ulteriormente il Pil, poiché le privatizzazioni saranno insufficienti a risolvere il bilancio finanziario.
Meno Pil significa ulteriore aggravio del debito, minori entrate di tasse per il crollo dei redditi e supplementari sacrifici per il popolo. Ciò porterà altra turbolenza sociale.
Trovare le risorse per far esplodere il Pil a 2 cifre è utopistico, considerato pure che tutta l’Ue è oberata, in ogni suo stato, da un eccessivo Debito sovrano e valutando, pure, l’attuale grande crisi che attanaglia tutti i mercati internazionali. Perciò tutti stanno attingendo non a finanziamenti reali basati sul risparmio, ma a quelli virtuali di puro finanziamento di semplice giroconto contabile. E se l’Europa innalza la leva, gli U.S.A. stampano a getto continuo cartamoneta.
D’altra parte gli attuali strateghi politici sono intenti a seguire solo la tattica dei piccoli passi, propria anche di quei decenni che hanno fatto esplodere i debiti sovrani, volendo mantenere lo status quo dei rispettivi paesi.
L’Ue attuale sarà sempre (per modo di dire, considerato che con questo andazzo verrà disgregata dal mercato) una semplice e formale unione di moneta.
Rilanciare la produzione nei paesi in crisi sarà possibile se l’Europa diventasse un’unica entità, atta a perseguire un progetto politico, economico, finanziario e industriale unitario. Diversamente sarà un disastro generalizzato.
Per farlo bisogna innanzitutto rimuovere tutte quelle sostanziali regole di mercato che hanno prodotto, sotto la spinta del capitale d’assalto globalizzato, l’attuale crisi internazionale dei mercati. Serve riportare l’investimento al suo vero ruolo di impulso produttivo, sottraendolo alla pura speculazione che, in modo ormai referenziale e non più logico e consequenziale, attacca quotidianamente i mercati e importanti società.
Dopo Grecia, Irlanda e Portogallo – salvabili finora unicamente perché singole e piccole entità – gli attacchi si stanno infittendo sull’Italia, sulla Spagna e anche sul Belgio.
In futuro non saranno immune neppure Francia e Germania, perché il crollo del mercato delle nazioni minori porterà poi l’attacco al cuore dell’€, perciò ai bastioni che finora, anche se pur nominalmente, hanno dato una parvenza di solidità.
La Francia, inoltre, si sta dissanguando nell’avventura libica; e, se questa si protrarrà ancora per mesi, seguirà lo stesso destino degli U.S.A. con le loro guerre esterne in alcuni paesi arabi: dilaterà in modo anomalo il proprio debito sovrano.
Intervenire in un eventuale salvataggio, non dico di Italia o Spagna, ma anche solo del Belgio – da oltre un anno senza un governo -, porrebbe delle problematiche quasi insormontabili, proprio perché le cifre in questione sarebbero molto superiori e difficilmente sopportabili anche alle nazioni forti per la rispettiva quota proporzionale d’intervento.
Se anche la sola Spagna crollasse sotto gli attacchi speculativi, significherebbe che il fondo salva stati (Efsf) è già stato bruciato per salvare gli anelli deboli periferici; e il reperire altre risorse sarebbe improponibile.
Il mondo occidentale ha fallito nelle politiche economiche del secolo scorso dilapidando ingenti risorse, prima, in guerre per il controllo delle materie prime e, poi, nel tentativo di rilanciare lo sviluppo basandolo sul consumismo.
Il crollo del mondo occidentale porterebbe inevitabilmente al crollo globale per 2 ragioni precise: la prima che buona parte della ricchezza (risparmio) dei paesi emergenti è stata investita nel finanziamento dei debiti sovrani occidentali, la seconda perché la produzione dei paesi emergenti è destinata per la quasi totalità al mondo occidentale.
Sostenere il consumismo come nel passato non è più possibile, pena il far saltare tutti i debiti sovrani; perciò bisogna trovare una via alternativa all’attuale scempio.
Ultimamente pure la Bce e il Fmi hanno compreso, seppur tardivamente, che il vero pericolo atto a collassare le economie occidentali non viene dall’inflazione, anche se elevata e comunque mai sottovalutabile, bensì dal Debito sovrano in grado di limitare e anche bloccare l’operatività futura di ogni singolo stato. Perciò, ultimamente, pare che stiano cambiando strategia di analisi, volgendo la propria attenzione alla ricerca del metodo migliore per il contenimento dei bilanci e alla riduzione corposa e progressiva del debito stesso.
Attualmente vi sono due correnti di pensiero su come incrementare il Pil, fermo restando che con entrambe i tagli drastici sono necessari.
La prima contempla un rilancio produttivo recuperabile da un abbassamento della leva fiscale, ottenibile solo con un nuovo e sostanzioso innalzamento del debito sovrano.
La seconda si basa su una linea intermedia, pur se più prolungata nel tempo, basata prima sul rigore del pareggio di bilancio e poi sul recupero di produttività sulla base di una maggiore razionalizzazione del sistema produttivo, facendo perno sul distretto industriale e sulla filiera.
Entrambe hanno punti deboli e non garantiscono affatto un risultato certo, in quanto le cifre macroeconomiche in questione sono labili e non fanno alcun riferimento alla continua caduta di fiducia del popolo, perciò del consumatore e utilizzatore finale.
Quando i redditi decrescono continuamente, i posti di lavoro diventano labili e precari, e i tagli (spese) a carico del cittadino si assommano, è ovvio che l’investire diventi molto rischioso e perciò non più appetibile nella redditività finale che necessita, almeno, del recupero totale dell’investimento fatto.
Alcune banche europee si sono ingolosite degli alti redditi che i bond greci, irlandesi e portoghesi potevano produrre, dimenticando che ricavi elevati comportano rischi maggiori. E la speculazione finanziaria li ha ulteriormente elevati.
La crisi globale che da più anni persiste – e che ritengo sia lungi dall’aver superato il suo virulento apice - è stata generata da forti speculazioni fondate su leve sproporzionate, che hanno affossato alcune grandi aziende finanziarie innestando l’effetto domino su molte altre.
Molti stati sono intervenuti con modalità diversa a salvare il salvabile, sopratutto quelle aziende che per la loro importanza avrebbero trascinato seco tutte le altre.
Le regole di mercato però non sono state corrette e troppe aziende e stati hanno dilatato il proprio debito.
Sicché siamo peggio di prima.
L’Ue non ha alcuna unità d’intenti e ogni stato fa il comodo suo, badando soprattutto ai fatti (interessi) propri e fidando sul necessario aiuto che gli altri potranno dare per non essere coinvolti nel baratro.
La crisi è stata mal gestita ovunque e i rimedi finora adottati sono stati totalmente insufficienti a risolvere i problemi effettivi. Se così non fosse stato i paesi periferici e in crisi dell’Ue non ricadrebbero continuamente nello stesso problema, ulteriormente ogni volta peggiorato.
Le società di rating, inoltre, si dilettano quasi giornalmente a sfornare (con dubbio interesse) continue declassazioni dei debiti sovrani o di grandi aziende, che vengono subito sfruttate dalla speculazione internazionale, per lo più a matrice anglosassone, forse perché una grande crisi dell’area € può creare benedici al $.
Le società di rating stanno diventando il vero problema del mercato, anche perché non sono soggette ad alcun controllo.
Tuttavia i debiti sovrani occidentali non sono nati e cresciuti in un sol giorno, come le problematiche delle nazioni Ue sono conosciute da tempo. Perciò tale continuo stillicidio di declassamenti – or di un paese, or dell’altro – è un sospetto (realtà) molto fondato più che supposto.
È ora che l’Ue abbia un’unica strategia per la crisi e che affronti in modo radicale e unitario tutte le varie problematiche che turbano i mercati e che fanno lievitare il conto del risanamento.
Ciò non avverrà se le grandi nazioni Ue, specie quelle fondanti, non troveranno una stessa linea unitaria d’intervento e non comprenderanno che non esiste una singola salvezza scindibile dalla caduta di alcune altre.
I problemi vanno affrontati in modo radicale facendo diventare tutta l’Ue un corpo unico e non un’accozzaglia disomogenea di nazioni, perché diversamente non vi sarà salvezza per nessuno, ma, al massimo, solo una lenta agonia anche per le nazioni più forti.
I problemi si conoscono e i rimedi pure, perché già da tempo sono stati individuati. Manca solo la ferrea volontà politica di volerli adottare.
Diversamente morirà sì Sansone, ma pure tutti i filistei; e per filistei si intende l’economia di ogni popolo.
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