sabato 16 luglio 2011

Default politico, default economico e alternative d'intervento.







Uno dei significati della parola inglese default, oltre a quella comune di fallimento, o insolvibilità, corrisponde al nostro lemma italiano “contumacia”. Perciò, collegandoci a quelle comunemente convenute, al fatto che il debito/debitore si sottrae ai suoi impegni assunti con chi lo ha volontariamente finanziato: rifugge dalle proprie responsabilità.







In queste ore i media parlano (a sproposito) di default degli U.S.A. e delle pressioni di Obama sul Congresso onde evitarlo.




In effetti, il default degli Stati Uniti è una sciocchezza perché non coinvolgerebbe l’economia e la solvibilità di quella nazione, ma solo lo sforamento del tetto di eccedenza di spesa che, per legge, là deve essere prefissato. Sarebbe perciò un puro default tecnico.




Se ciò accadesse – cioè: se entro il 2 agosto p.v. il Congresso e la Casa Bianca non giungessero ad una condivisa scelta su questo tema – vi sarebbe una correzione automatica sullo sforamento di bilancio (circa 4.000 mld di $), equivalente a nuove tasse per tutti indistintamente; perciò ad un aumento generalizzato della pressione fiscale per riportarlo nell’alveo legale dell’ultima approvazione.




Sarebbe, pertanto, un default solo politico che, tradotto in poche parole, equivale ad uno legislativo: un buco legale nella tempistica e un cartellino giallo all’Amministrazione che ha speso più del dovuto.




Perciò nulla di traumatico.







La manovra finanziaria italiana può allo stato attuale essere in parte considerata alla stessa stregua: un evitato default politico.




Nulla a che fare, perciò, con la vera insolvenza di alcuni paesi periferici dell’area €.




Infatti, pur con differenziali più alti dovuti alla speculazione internazionale, l’asta di oltre 5 mld di € ha avuto successo, raggiungendo quasi il doppio in richiesta della disponibilità emissiva.




Tuttavia l’urgenza di equilibrare il bilancio entro il 2014 imporrà ben altre scelte future, specie se non si interverrà a livello comunitario a quella riforma strutturale di base del mercato mobiliare, non riferibile solo alla sola trattazione di titoli azionari o sovrani, ma anche a molti “future” che paiono oggi all’investitore una roulette russa.




Vi sono sul mercato troppi prodotti finanziari che non hanno ragione logica ed economica di esistere, se non per quella prettamente speculativa.







Molto diverso è il discorso sul vero default economico che vede oggi coinvolta la Grecia, esattamente uguale a quello che anni fa colpì l’Argentina.




In questo caso i conti sono fuori controllo; e una manovra correttiva serve solo a cercare di riportarli in un alveo ragionevole, però a lunga scadenza non essendo possibile con una semplice, pur se forte, imposizione fiscale riportare subito i conti in pareggio. Ecco perché si parla da tempo di formalizzazione o di ristrutturazione del debito greco.




L’insolvenza vera della Grecia – e di altri stati minori periferici ormai prossimi al default economico – è unicamente risolvibile (procrastinabile) con aiuti comunitari, poiché il mercato dei titoli non è sufficiente a bilanciare il disavanzo.




Perché ciò avvenga è presto detto: da una parte i tassi pagati sono troppo alti e perciò non sopportabili dalle finanze pubbliche, e dall’altra il mercato, non avendo più fiducia nella solvibilità del debitore, non si assume più il rischio di finanziare.




In pratica il reddito prodotto non è sufficiente a pagare gli stessi interessi dovuti.




Perciò ai titoli in scadenza non si ottiene un’analoga sottoscrizione di nuovi titoli, mancando la quale lo stato ellenico non può neppure far fronte alla restituzione.




Questo è il vero default economico!







Sembra che l’attuale manovra finanziaria italiana sia lievitata in parlamento dai 51 mld iniziali agli oltre 70 attuali, da alcuni indicati anche in 80.




In effetti, la manovra è sempre rimasta la stessa, se non con ragionevoli e sagge piccole correzioni, come è avvenuto sull’imposta di bollo sui c/titoli.




Ciò che può far lievitare la cifra, secondo la necessità che in futuro potranno crearsi, è la clausola di garanzia, già inserita all’origine nella stessa finanziaria; la quale servirà come correttivo nel caso di evenienze future di mercato o in quello di un mancato introito nell’eventualità che la riforma degli scaglioni fiscali non produca il gettito sufficiente, oppure che non vada a regime.




La clausola di garanzia (un vero jolly operativo) fa affidamento sulla riduzione (soppressione) di alcuni sgravi fiscali (deduzioni), stimabili attualmente in ben 160 mld annui. Ecco perché la cifra è variabile a seconda di come questi sgravi verranno riformulati.




Deve intendersi come una valvola di sfogo per necessità future di pareggio di bilancio.




E in questo campo vi sono catalogabili: ticket, spese mediche, costi dell’istruzione, familiari a carico, assegni familiari e, pure, oneri deducibili di beni ammortizzabili o per spese di ristrutturazione; oppure, al di là degli sgravi, al blocco degli scatti salariali nel settore pubblico o pensionistico e alla riduzione di certi incentivi fiscali in vari settori, compreso quello energetico.




Il campo è molto vasto e sarà definibile solo nel momento che si verificasse questa necessità (molto probabile).







La Grecia sta ora effettuando le privatizzazioni per cercare le risorse finanziarie per sopravvivere.




L’Italia le ha fatte negli anni ’90, racimolando circa 150.000 mld di £.




Si pensava che le privatizzazioni avrebbero anche incrementato notevolmente il Pil, ma ciò non è avvenuto per svariati motivi.




In pratica ora sono rimaste poche aziende pubbliche, perlopiù a carattere strategico nel campo energetico: Enel e Eni.




Il metterle sul mercato sarebbe a mio parere un grave errore perché, sicuramente, l’incasso finanziario non sarebbe sufficiente a bilanciare i benefici che queste ora producono.







Lo slogan di Berlusconi sulle “tasche degli italiani” con questa finanziaria ha avuto la sua smentita, anche se ciò era inevitabile. Prima di lui sulla riduzione delle tasse ci aveva provato pure Prodi, senza mai riuscire a metterci mano per ovvie ragioni contingenti.




Nel nostro tempo devono essere considerate solo populistiche promesse a carattere elettorale o a fini di piazza.







Il mercato – inteso in senso lato – può offrire comunque delle alternative al continuo aumento della pressione fiscale, in primis ricorrendo al taglio dei costi, perciò delle spese.




Il neoliberismo attuale, sia a matrice cristiana che anglosassone, non ha mai risolto il problema dei Debiti sovrani, ma li ha sempre e solo ingigantiti, spesso ricorrendo in modo improprio alle teorie economiche keynesiane.




La Fed non può continuare all’infinito con i suoi piani di riacquisto titoli (QE3 – quantitative easing), in pratica continuando a stampare cartamoneta per sostenere il mercato, perché ciò crea inevitabilmente svalutazione ed inflazione.




Come la Bce non può solo fare affidamento sull’uso (aumento) continuo del TUS (tassi) o sul fondo salva stati – in sintonia con l’Ue - che può solo servire per le piccole nazioni, anche perché tale intervento (fondo salva stati) è al giorno d’oggi solo una virtuale operazione di finanza creativa non basata su risorse effettive.




Infatti, ammettendo che nel crollo fosse coinvolta una delle grandi nazioni, il fondo salva stati sarebbe improponibile, perché le cifre in ballo non sarebbero solo di alcune decine di mld, ma anche capaci di superare le decine di migliaia, quando non le centinaia.




L’aumento sostanziale del Pil, ammesso che fosse continuamente centrato, imporrebbe investimenti notevoli, perciò un’ulteriore esposizione finanziaria che il mercato oggi non può sostenere se non in modo solo virtuale, portando seco inevitabile e altamente destabilizzante speculazione finanziaria, come è avvenuto in queste ultime settimane.







In Italia vi sono risorse che possono essere reperite su più fronti, anche se ogni fronte può avere delle controindicazioni economiche sullo sviluppo: a) i beni immobili degli enti locali, b) la dismissione azionaria delle ex municipalizzate, c) il taglio di ogni spesa superflua e non necessaria ai fini strutturali interni.







I beni immobili degli enti locali superano una stima di 400 mld. Cifra notevole ed imponente in grado di abbattere da sola il 20% del Debito sovrano.




Le partecipazioni nelle ex municipalizzate o in altre aziende, non necessariamente vitali, sono stimate in altri 300 mld.




I tagli alle spese (superflue) della politica pare, secondo alcune stime – seppure diverse nelle cifre –, che potrebbero comportare un risparmio di altri 100 mld minimi annui. Cifra considerevole se rapportata all’attuale finanziaria spalmabile sui 4 anni.




Se poi si aggiungono tutte quelle spese oggi superflue e non essenziali che vedono protagonisti molti enti locali, pur se con disponibilità finanziaria propria, la cifra diventa colossale.




In questo modo in pochissimo tempo il Debito nostro sovrano verrebbe dimezzato, togliendo al mercato dei titoli la pressione della speculazione globalizzata.




Ciò, tuttavia, non sarebbe sufficiente per salvare l’Ue e l’€, considerata la situazione finanziaria di alcuni stati periferici ormai in chiaro default economico.




Il farlo solo in Italia non ci porrebbe al riparo di un possibile e probabile tracollo futuro se pure le altre grandi nazioni non facessero simultaneamente la stessa cosa, considerata l’unità monetaria che ci lega.




Ora l’Ue è solo un’unione monetaria e non politica; o, ponendola in altro modo, un’unione finanziaria di comodo di una molteplicità di popoli.




Perciò pure su questo aspetto bisogna operare in modo strutturale per farci raggiungere quell’unione di stati che, pur essendo composta da molti popoli diversi, è in grado di diventare un’unica nazione nell’interesse e nel bene di tutti.




Perché là dove l’€ ci unisce i differenziali ci separano, facendoci ritornare ancora, di fatto, alla molteplicità delle divise precedenti.







Trovare una stessa linea politica ed economica è obbligatorio se si vuole evitare il tracollo dell’Ue e dell’€.




La Merkel (Germania), pur avendo i tedeschi un piano di emergenza per salvare il salvabile, si stanno convincendo che il farlo sarebbe come il passare nell’apocalisse.




È ovvio che l’Ue sia stato un grande sbaglio strutturale nella tempistica e nella formulazione di un veloce allargamento (pane e porci) fatto solo con l’intento di favorire l’espansione dei propri mercati; ma ormai il danno è fatto.




Perciò ci si rimbocchi le maniche cominciando a riformulare velocemente le regole del mercato mobiliare, si ponga mano al bond comunitario in sostituzione dei titoli sovrani, si sottopongano i bilanci di ogni singola nazione al reale sviluppo della loro economia e si evitino quelle costose scelte politiche e strategiche (di vera guerra e con continue perdite umane) che alcune nazioni hanno intrapreso.




In questo modo si recupereranno ingenti risorse che diversamente andranno scialacquate e distrutte.




Essere l’Ue una vera nazione, seppur di popoli, non vuol dire essere il Padre Eterno che con una sua sola Parola è in grado di dannare o di salvare, considerato che il mondo, dalla sua creazione, va a … modo suo.







La politica italiana ha trovato una momentanea spuria coesione pur tra molti distinguo; e ciò non solo è un fatto eccezionale, ma pure difficilmente ripetibile nonostante l’auspicio di Napolitano e di molti comuni cittadini.




Le affermazioni di voto sulla finanziaria di alcuni esponenti dell’opposizione (riassumibili in Bindi/Finocchiaro) si assumono un senso di responsabilità di interesse nazionale che tale non è, se non classificabile all’unica rinuncia del solo ostruzionismo parlamentare.




E per tale motivo (di immenso merito?) chiedono da lunedì le dimissioni del Governo, per sostituirlo con uno tecnico non si sa per far che, dimenticando che la manovra non è passata grazie a loro, ma solo per il voto della maggioranza, né che da loro è stata formulata e condivisa.




Le grandi vestali dell’ortodossia democratica – intesa a senso unico, ovviamente – forse con i loro studi giovanili non hanno imparato abbastanza, perché posso capire il loro interesse politico, ma non recepire il loro traviato messaggio.




Tutti i partiti di opposizione delle nazioni attualmente in crisi economica/finanziaria chiedono le dimissioni dei governi in carica, un nuovo governo o nuove elezioni, nella convinzione che ciò li favorisca. E ciò è comprensibile.




Tuttavia, là dove ciò è già avvenuto, la storia insegna che i problemi non ne hanno tratto grande giovamento e che in molti casi la situazione è pure peggiorata, soprattutto perché l’opposizione, poi diventata maggioranza, non ha mai concepito un completo disegno politico, economico e sociale di alternativa.




I mercati, inoltre, insegnano che prediligono la stabilità politica, specie se il governo in carica è numericamente forte e in grado di procedere nella sicurezza e non nell’incertezza. E quando l’alternanza è avvenuta la speculazione ha imperversato e colpito duramente.




Il buttare oggi il governo attuale sarebbe un grande atto di turbativa del mercato, in grado di innestare per l’Italia una situazione similare a quella degli stati attualmente prossimi al default.




Perché non si dimentichi che se in questi giorni il differenziale con il Bund ha raggiunto quasi 350, avvicinandosi sempre più a quello spagnolo, ciò dipende solo da un fatto speculativo, perché non vi è alcun fondamentale economico atto a giustificare oggi un tasso del 6% sui titoli italiani.







Gli attacchi speculativi in atto sui mercati sono stati lungamente pianificati ed hanno una matrice inglese/americana. Sono stati preparati ed affiancati da opportune ed interessate dichiarazioni delle società di rating in modo molto sistematico.




Attaccare l’Italia vuol dire trascinarsi dietro anche la Spagna, perciò attaccare volutamente sia l’Ue che l’€.




Chi ci stia dietro è ipotizzabile, ma non certo. Tuttavia si è voluto tastare la resistenza e la consistenza delle difese immunitarie del nostro sistema, che per ora hanno retto e rispedito gli attacchi speculativi al mittente.




Abbiamo qualche cerotto e qualche costo in più per lo scontro avuto; ma gli stress test hanno palesato la solidità delle nostre imprese.




La Germania ha compreso subito il pericolo e si è schierata senza esitazione alla difesa dei propri interessi e perciò anche di quelli comunitari, affiancandosi agli stati sotto attacco.




Un po’ meno la Francia, che oltre a causare ultimamente turbolenze politiche internazionali, bada solo, nel caso della Grecia, a difendere la solvibilità delle proprie banche fortemente compromesse dal detenere in portafoglio questi titoli spazzatura.




Per uscire da questa gravissima congiuntura economica/finanziaria vi è bisogno di unità; e dove questa non è possibile di un grande costruttivismo sulle vitali problematiche finanziarie attuali.




L’Italia – e Giulio Tremonti per essa – deve farsi portavoce di quella riforma strutturale epocale che deve coinvolgere mercato e titoli sovrani in ambito Ue. Si deve capire che senza questa riformulazione dei mercati ogni futuro è precluso e che si andrà solo verso una lenta agonia, proprio come gli anziani che nelle case di riposo attendono più o meno pazientemente la propria fine.




L’aspettare o il perdere ulteriore tempo produrrà solo aggiuntivi costi e pericoli.




Diversamente lo stare nell’Ue è solo di facciata: il credere che l’esserci dentro risolva non solo i mali nostri, ma pure quelli degli altri.







La Consob è intervenuta sul mercato con la delibera 17862 non sospendendo la vendita allo scoperto, ma imponendo la comunicazione obbligatoria in caso di un superamento dello 0,2% del capitale dell’emittente, oppure di un ulteriore 0,1% successivo.




L’intervento lo ritengo non tanto tardivo, ma assolutamente vano, perché chi vuole speculare allo scoperto, non solo intraday ma anche in overnight, lo può tranquillamente continuare a fare.




Il fatto che gli intermediari non siano tenuti a darne immediata comunicazione, ma solo i clienti stessi, è sintomatico di come la speculazione sia oggi scambiata per investimento.




Un nuovo regime di trasparenza non è un rimedio alla degenerazione del mercato.







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