Il referendum del 13 e 14 gennaio sul futuro dello stabilimento di Mirafiori segue, secondo la tattica Marchionne, il cliché già visto a Pomigliano dopo la rinuncia Fiat a Termini Imerese.
Nel frattempo in casa Fiat è avvenuto lo Spin-Off; e tutto ciò, unitamente alle nuove società create per gestire singoli stabilimenti, pone inquietanti scenari futuri sia di produttività che di lungimirante progetto industriale.
L’operazione ideata per lo Spin-Off ha un costo eccessivo, preludio, quindi, a necessarie cessioni.
È costata ben 4 mld di € in prestiti, che dovranno essere resi, perciò cedendo o titoli (proprietà azionaria) oppure assets appetibili, secondo il teorema assets are economic resources.
La riduzione del patrimonio netto Fiat fu, dallo stesso management, allora calcolata esattamente in 3.750.346.053 €.
Voci ricorrenti trapelano sulla possibile vendita di singoli assets, corrispondenti ad altrettanti marchi.
L’operazione di intercompany financing, pertanto, non è finita; o, per dirla tutta, è solo cominciata.
Pertanto che la Fiom (Landini) ne abbia coscienza o meno, per il management Fiat è indifferente.
Il gregge Agnelli non esiste più: esiste solo un fondo di investimento che raggruppa le innumerevoli partecipazioni frantumate nelle divisioni dinastiche. E, come tutti i fondi, più che ad un vero progetto industriale si fa molta attenzione alla sola redditività annuale, perciò seguendo le tendenze di mercato che oggi indicano che la produzione manifatturiera è redditualmente carente.
Conviene puntare economicamente su altri settori, tecnica abituale della finanza globalizzata.
L’era Marchionne, favorita a suo tempo dalla partecipazione GM, ha già impoverito tutto il sistema strutturale dell’indotto. In pratica si è distrutto il distretto industriale italiano che ruotava su Fiat.
In compenso il vero padrone Fiat è l’A.D. attuale, che, in base al contratto sui risultati conseguiti, otterrà notevoli introiti o, se si preferisce, plusvalenza patrimoniale quantificabile in mln di azioni possedute per diversi anni ancora.
Forse non solo casualmente la nuova società nata a Pomigliano lo indica come socio di riferimento; e ciò è probabile che avvenga anche a Mirafiori se il “Sì” passerà.
Ho analizzato diversi aspetti del manager da simbiologo e posso affermare che il soggetto non mi piace, soprattutto raffrontandolo alla mia cultura personale e all’etica cattolica.
Sottolineo comunque che ciò che può essere lecitamente corretto nell’economia attuale può non essere altrettanto tale se visto in un’etica cristiana.
Ognuno, infatti, vede la società in base ai propri convincimenti e in base a ciò si comporta.
Che sta avvenendo in casa Fiat da tempo oltre allo Spin-Off di Fiat Industrial?
La mia convinzione da analista è che si stia svuotando di contenuto industriale la scatola madre Fiat, riempiendola di tante scatole cinesi per cederle poi comodamente e senza alcun impiccio burocratico. E in quest’ottica va vista anche la fuoruscita delle nuove società, sorte da questo continuo scorporo, da Confindustria.
Perciò: nuove regole operative e sindacali, nuovi assets, libertà totale di azione senza condizionamenti e vincoli contrattuali federativi o nazionali.
Cedere Fiat in blocco sarebbe improbo perché dovrebbe forzare anche buona parte della politica; ma cederla a pezzi non crea eccessivi problemi, anche perché la politica industriale e finanziaria del management viene, di fatto, svincolata dalle decisioni dell’assemblea azionaria.
Per cedere Fiat ho bisogno dell’approvazione dell’assemblea dei soci azionisti. Però se Fiat è titolare unica (o di riferimento) di tante società contenute in tante scatole cinesi, allora per cedere una di queste scatole la decisione non spetta più agli azionisti, ma solo ai nuovi soci della scatola interessata alla transazione.
L’azionista Fiat, infatti, solo indirettamente è partecipe degli utili o perdite conseguite dalle scatole cinesi.
L’attuale politica sindacale innescata da Marchionne è chiara e si basa su un caposaldo del capitalismo globalizzato: per reggere sul mercato bisogna essere remunerativi, perché diversamente non si è in grado di attrarre nuovi capitali utili all’investimento.
Perciò più che non sbagliare investimento (che ha bisogno di tempo per essere giudicato) bisogna ridurre di molto i costi. Ed oggi il costo è di due tipologie: quello relativo alle materie prime, poco condizionabili su scala planetaria, e quello della manodopera che spesso è superiore a quello delle materie prime.
La manodopera, specie là dove è regolata da contratti nazionali, lascia poco spazio ad una sostanziale riduzione, anche elevando notevolmente la produttività. Tuttavia ciò che non è possibile ottenere attraverso una nuova concertazione sociale, se non in tempi lunghi, è possibilissimo creando nuove società poste fuori dalle regole (contratti) pattuite.
Pomigliano fu emblematico in tal senso: nuova società, nuove regole, nuove assunzioni (di chi sottostà). In pratica nuovo schiavismo globalizzato se si vuole lavorare per vivere.
A contraltare: nessuna sicurezza che l’esperimento industriale vada a buon fine a medio/lungo termine e dirompente instabilità sociale.
Proprio quello a cui punta l’attuale management Fiat se passerà (o no) questa linea anche a Mirafiori: una conflittualità esasperata in grado di poter far dire alla dirigenza che il produrre in Italia non è né possibile, né economicamente valido.
Per ora la politica di Marchionne, salvo il tardivo e benevolo auspicio di Napolitano, non ha avuto molti ostacoli.
In compenso è riuscita a frantumare il debole fronte sindacale anche in casa Cgil, con visioni operative e strategiche diverse tra Camusso e Landini.
La politica della Sx italiana segue la stessa linea, considerato che buona parte della sx oggi ondeggia confusamente su un moderatismo modernista nel tentativo di crearsi una nuova possibile identità progressista con le deboli e ignave forze del centro.
Cofferati, nell’era della disfatta elettorale, a seguito della sconfitta subita dal centrosinistra con Rutelli, riuscì nell’impresa di porsi quale unico ed ultimo baluardo allo strapotere della Dx, radicalizzando la lotta in difesa dei diritti acquisiti.
Landini, forse inconsapevolmente, tenta oggi la stessa strada: strada maggiormente impervia per la grave crisi finanziaria internazionale.
Ovviamente non voterò per Mirafiori non essendone parte in causa.
Tuttavia, se lo dovessi fare voterei “No!”; ma non per le ragioni che Fiom e Landini perseguono. Come avrei votato “No!” anche a Pomigliano.
I diritti acquisiti con anni di lotte dagli operai mi stanno a cuore; ma ciò che più mi porta ad essere contrario alla nuova politica della dirigenza Fiat è l’assoluta nebulosità e inconsistenza di un vero progetto industriale, sempre solo abbozzato e mai, nella realtà, definito.
Un progetto industriale vago e poco credibile, specie se rapportato all’investimento prospettato (1 mld) contro quello messo in campo per lo Spin-Off (4 mld).
Inquietanti interrogativi pone lo scorporo Fiat con la creazione di nuove società fuori da una sana logica sociale basata sul rispetto degli accordi sottoscritti, specie quando i costi lascino libero il capitale di vagare indisturbato, scaricando solo i sacrifici sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori.
Un vero progetto industriale ritengo si debba radicare sul territorio, divenendo persona giuridica a tutti gli effetti per potenziare stabilmente il tessuto economico e sociale.
Investimenti condizionati, come quello di Pomigliano e prospettato ora per Mirafiori, paiono inadeguati a rilanciare la produzione, specie se rapportati ai benefit che il management consegue contro l’insicurezza del personale (maestranze) su un futuro migliore.
Il capitale umano non solo viene disconosciuto, bensì immolato all’altare del capitalismo d’assalto.
Ben si comprende, perciò, che Fiat dopo essersi sollevata grazie anche agli incentivi statali sulla rottamazione, ora perda una buona percentuale di mercato in ambito Ue, intenta più a conseguire utili provvisori che a rafforzarsi strutturalmente con un vero progetto industriale.
La borsa ha ben accolto per ora lo Spin-Off, anche perché la speculazione aveva progressivamente spinto all’insù il titolo nonostante i cattivi risultati commerciali e ignorando, di fatto, i dati macroeconomici.
Una quotazione positiva, comunque, non è indice di salute, perciò di sano investimento, specie se viene attratta dalla possibilità futura (comunque onerosa) di poter raggiungere il fatidico 51% in Chrysler.
Se la politica di Marchionne avrà esito positivo è probabile che ciò che ora avviene in Italia si trasferisca poi negli U.S.A.; ma ciò che sarà maggiormente grave è che in questa partita a scacchi vi sarà un solo beneficiario: non gli operai, non gli stati interessati, non gli azionisti, non la società, ma solo l’A.D. attuale che sarà diventato il deus ex machina (ἀπὸ μηχανὴς θεός) della situazione, oltre, ovviamente, del suo imponente capitale acquisito.
La Chiesa, pur raccomandando moderazione, sembra estraniarsi da questo duro scontro in atto tra il capitalismo d’assalto e la classe operaia.
Il ricordo della storia mi porta ad Angelo Roncalli, che giovane segretario del suo vescovo si schierò a fianco degli operai in tempi molti più complessi degli attuali. E si schierò per ottenere quelle allora tenui garanzie che ora si vorrebbero abolire.
Al di là di una possibile concertazione sociale il progetto Fiat è inadeguato ai tempi e alla crisi attuale, perché procede con una tempistica e un’arcaica strategia già da tempo socialmente superata.
Ciò che Marchionne non è in grado di ideare è un modo nuovo di fare capitale ed impresa, perciò di mettere le proprie capacità umane e il capitale al servizio della società e delle nazioni in cui intende operare.
Probabilmente vincerà il suo personale braccio di ferro per Mirafiori, come già avvenne a Pomigliano.
I problemi produttivi tuttavia non verranno risolti, ma solo spostati in avanti facendoli incancrenire maggiormente.
E una volta diventati tali è ovvio che il ritirarsi dall’Italia avrà la scusa buona: quella della mancanza di redditività e di poter fare impresa.
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