Sono ad una conferenza a matrice cattolica sulla “difesa della vita”.
Il relatore, scientificamente preparato, inizia con un lungo ragionamento filosofico che occupa metà relazione; ma la filosofia non è il suo forte. Infatti, inanella alcuni pregevoli sillogismi logici che fanno a pugni con la logica del sillogismo.
Il numeroso pubblico nell’auditorium, comunque, non è troppo pretenzioso culturalmente, perciò può pure … andar bene.
Da buon cattolico cita alcune encicliche a partire dalla Rerum novarum; e passando per la Populorum progressio giunge alla Fides et ratio, per approdare, infine, alla Caritas in veritate. Encicliche che, per altro, conosco benissimo.
Peccato che non si sia avveduto che l’ultima enciclica sia solo uno scialbo compitino rispetto a quella paolina, non aggiungendovi nulla di nuovo. È la conseguenza servile del culto personalistico, che identifica nel totem di riferimento temporale la verità.
Di quest’ultima legge pure alcune frasi.
Lo ascolto attentamente, anche perché, al di là della tematica, voglio comprendere bene i meccanismi ideologici, sociali e democratici che muovono simili iniziative: la questione la conosco perfettamente, il ragionamento religioso di massa, che ci sta dietro, un po’ meno.
Il noto relatore non è di primo pelo: attempato, bravo, suadente e affabulante usa una terminologia atta alla comprensione generale.
Inizia dalla Genesi e dalla creazione del primo uomo. Si addentra pure, nel discorso, in un accenno di economia, scambiandola per la sua degenerazione e manipolazione.
Mentre il pubblico affluisce in sala la mia accompagnatrice mi indica diverse persone, che tra l’altro non conosco, appartenenti al mondo politico locale e al corpo docente. Al massimo, alcune le ho intraviste in altre occasioni.
Sono intramezzate a gente comune, il cui compito è solo quello di ascoltare ed uniformarsi, non possedendo né la padronanza scientifica della materia, né quella elaborativa del ragionamento. Vi sono pure diversi giovani.
Nel mio intervento, senza entrare nel merito di qualsivoglia polemica, aggiungo un’alternativa supplementare al procedimento dialettico impostato dal relatore, specie per quanto riguarda l’etica sociale in un mondo non solo multiculturale, ma pure multietnico e multireligioso.
Sottolineo che il cattolico (ma anche più in generale il cristiano) oggi è ampiamente minoritario nella società e nel globo. Il suo compito non è quello di arroccarsi in difesa di alcuni principi e valori, bensì quello di testimoniare ed essere luce nel mondo nella coerenza del proprio credere.
Le varie leggi nazionali, infatti, regolano un comportamento sociale generale, ma non impongono al credente di sottoporsi a queste, se non nel limite del rispettare la scelta diversa di chi non crede.
Per chi crede vi è l’imperativo categorico dei Comandamenti, che una legge civile non cancella affatto, ma supplisce solo socialmente, regolamentando una problematica.
Il voler legalizzare forzatamente dei postulati valoriali religiosi non si addice alla società moderna, specie se nella collettività il cattolico è minoritario.
Non siamo più nell’era della teocrazia monocratica.
Pur nel rispetto dialettico faccio rilevare che le frasi citate della Caritas in veritate (come tutto quel testo) sono proprie della fenomenologia relativistica, in linea col personalismo di Maritain e Mounier: filosofia del secolo scorso che la storia ho già ampiamente rimarcato come superata e inadatta alla società attuale.
Non ci può arroccare sul passato che fu, ma aprirsi nella testimonianza della coerenza del proprio vivere e credere, tenendo ben presente che i più non la pensano allo stesso modo.
Perciò bisogna, da una parte, credere e vivere i propri principi e valori e, dall’altra, negoziare nella società in modo che le leggi sociali di regolamentazione di alcune importanti tematiche salvino il diritto di libertà individuale e generale.
La fenomenologia relativistica del vertice ecclesiale tende, infatti, ad avvalorare il proprio intendere al concetto dottrinale della teocrazia monocratica verticistica, creando un insanabile contrasto dialettico tra religione e società.
Si intende, in questo modo, sottoporre la democrazia alla religione, partendo dal principio (indimostrabile) che questa (religione) sia prioritaria all’essere Popolo.
Perciò la Comunità cattolica “vuol” essere popolo, pur essendo solo una parte minoritaria di questo. Trasla il proprio intendimento generalizzandolo su tutti.
Si sono invertiti i concetti ecumenici del Vaticano II, ghettizzandosi culturalmente nella certezza d’essere gli unici depositari del sapere vero.
Un’arrapata cattolica, borghese e salottiera, ex professoressa, prende la palla al balzo, nel dibattito susseguente, sullo spunto del mio intervento.
Il suo è un discorso di relativismo culturale ed etico sconcertante sul piano dialettico e logico. Mi è utile per aggiornare dove va certa chiesa.
La sua lamentazione, assai restrittiva, punta sul suo essere stanca della società attuale e delle leggi sociali, che sono in vigore e che possono essere nel tempo ulteriormente emanate. Dice di subirle!
Si potrebbe definire un intervento di oscurantismo intellettuale, perché basato ad intendere il proprio pensiero come “sapiente” rispetto a quello del non credente.
Rivolgendosi a me, infine, mi chiede come si possa superare l’attuale relativismo etico.
Non vi è tempo; e perciò mi limito ad una concisa e semplice ma precisa risposta lapidaria: con il rispetto della Democrazia.
Quando si vuole imporre alla maggioranza l’intendere di una ristretta minoranza, come è oggi quella del mondo cattolico, si opera nell’assoluto relativismo etico.
La democrazia passa in subordine alla teocrazia.
“Voi sarete la luce del mondo” – disse; non: “Voi dovete imporre la luce al mondo”.
E l’essere luce lo si ottiene nella testimonianza e nella coerenza dell’essere samaritano: in quel dare gratuitamente (in opera e in pensiero) senza pretendere alcunché, né dal singolo, né dalla comunità.
Quando una/o dichiara di essere stanca/o di sopportare la democrazia, perciò l’intenzione della maggioranza di procedere secondo il volere dei più, ci si arrocca non nell’integralismo religioso, ma nell’ignoranza sociale che fa del proprio fondamentalismo la base intellettiva del personalismo fenomenologico: il “fenomeno” sé stessi si sostituisce agli altri sulla base inconscia dell’irripetibilità e unicità del proprio essere persona, qual sole cosmogonico della società.
Essere cattolico diventa, allora, solo un pleonastico fatto apparente, proprio dove l’apparire si sostituisce all’essere.
Si crede d’essere cattolici, mentre invece si è solo egocentrici individualisti.
Problemi come l’aborto, il divorzio e l’eutanasia si prestano a dubbie interpretazioni, tanto scientifiche quanto ideologiche, sulla base del punto di partenza.
Ed è strano che da una parte si voglia negare o limitarne l’uso (o abuso) al popolo, mentre dall’altra sia propria la stessa società, a matrice ideologica cristiana, che ne faccia ampio uso.
Ci si affronta aspramente a difendere un principio generale che, nella pratica, si sovverte individualmente nella quotidianità.
Proprio come quei tanti politici odierni che dopo avere “distrutto” la propria famiglia si ergono, pubblicamente a paladini, a difesa del concetto della stessa.
La Vita è sempre vita; ma, come sottolineavo nel mio intervento, ogni religione la imposta su confini e valori diversi.
E non è un caso che la diversità dell’intendere religioso parta da principi diversi per approdare a valori spesso discordi.
Un esempio pratico è la diversità cristiana esistente tra il mondo anglosassone, protestante, e quello cattolico, latino, proprio su molte di queste problematiche; per cui, poi, ci si divide idealmente tra progressisti (liberismo) e conservatori (radicalismo).
Il relativismo etico non è un fatto ideologico e sociale di parte, bensì il risultato dell’ignoranza del concetto di democrazia.
La democrazia esiste pure nella Chiesa, anche se con tempi maggiori per la sua struttura umana, piramidale e teocratica. E ciò avviene proprio perché il personalismo fenomenologico si è fatto largo nella mente dei vertici ecclesiastici, ponendo il “capo” oltre il Concilio.
E non a caso, nell’intervento, citai Martini, che proprio un nuovo concilio chiese ripetutamente a gran voce.
Democrazia non significa abdicare ai propri principi e valori; significa adeguarsi, dopo aver lottato nelle sedi e nei modi corretti, al voler della maggioranza. La quale non è identificabile a quella prettamente parlamentare, anche se questa ha l’investitura del voto.
Dopo la legge vi è il referendum, se lo si ritiene utile, anche se la storia, pure nostra attuale, ci insegna che quest’espressione a suffragio universale popolare talora viene disattesa.
La legge civile regolamenta una problematica sociale, ma mai la impone.
Il cattolico praticante non è costretto, ad esempio, ad abortire forzatamente, come avviene in alcuni paesi del sudest asiatico dopo il primo figlio. E nello stesso modo non è costretto neppure a praticare forzatamente l’eutanasia in presenza di malattie degeneranti o terminali.
Nei paesi occidentali la legge, su simili problematiche, è spesso un puro protocollo operativo per chi la pensa diversamente, sostituendo la regolamentazione all’anarchia pratica.
Considera e salvaguarda la libertà “religiosa” di ognuno, proprio perché pure il non credere nel Dio cristiano è un diritto ideologico, anche se eventualmente ateo.
Migliorare una legge non vuol dire uniformarsi ad essa o condividerne culturalmente il principio. Significa solo il rispettare le esigenze del diverso da noi.
La democrazia salvaguarda il diritto di tutti nell’essere alla fine popolo e nazione e non comunità o ghetto.
E se lo si dimentica allora si è proprio nel relativismo etico; in quello stesso relativismo di cui ci si sente vittima sacrificale e che si desidererebbe tanto superare.
2 commenti:
Caro Sam,
Ho letto con piacere ed ho molto apprezzato questo tuo intervento.
Tre osservazioni.
La democrazia, che tu citi ripetutamente e per vari casi, è un animale interessante e molto amato, ma difficile da gestire. Il problema che io vedo è proprio nel fatto che essa deve rappresentare il volere della maggioranza. E se la maggioranza sbaglia?
E ciò si ricollega alla seconda. La chiesa, pur indicando nella democrazia la forma migliore di governo (o la meno peggio), non è una democrazia.
Infine una terza osservazione che mi veniva in mente.. A me sembra che ci sia il rischio di uniformarsi al cambiamento morale (Martini docet) invece di dominarlo, e di oserei dire "domarlo":
siamo nel periodo del pensiero debole (cioè relativismo), dei quali anche i cristiani come tutti sono vittime..che ne pensi?
Un caro saluto..
Luciano
Ti ringrazio, Luciano, per i tuoi tre quesiti.
Premesso che meritano una risposta dettagliata (e lo farò, credo, con un nuovo articolo, perché i quesiti non sono solo tuoi), per ora sarò estremamente sintetico.
a) Innanzitutto vorrei che tu esplicassi meglio il pensiero su Martini, perché, così com’è nella sinteticità, si presta a plurime interpretazioni.
b) La democrazia non è difficile da gestire: è semplicemente spesso “manipolata” e quasi sempre male interpretata. La maggioranza può sbagliare, ovviamente, ma nel tempo può correggere l’errore, proprio come la stessa Chiesa. Maggioranza e minoranza formano il Popolo proprio per la regola democratica; diversamente si è solo comunità contrapposte.
c) La Chiesa può non sembrare una democrazia, tuttavia lo è. E lo è sia partendo dal concetto di Dio che la illumina, sia da quello filosofico e logico puramente umano della ragione. L’errore sta nel crederla una teocrazia monocratica, umanamente o in modo trascendente, mentre in effetti è una perfetta teosofia democratica.
Posta un commento