Fitch ha tagliato il rating sovrano del Portogallo riducendolo a ‘AA’.
Perciò la ripresa in questo paese sarà molto più lenta che nelle altre nazioni, mettendo sotto pressione le finanze pubbliche nel medio termine.
Trichet, da parte sua, dichiara che l’Irlanda dovrebbe essere come il cavallo di Troia per la Grecia.
Nel suo intervento al Parlamento europeo, davanti a quattro gatti (15 eurodeputati), egli afferma che la Bce accetterà collaterali con la Grecia anche dopo il 2010, pur se in presenza di rating riduttivi del tipo ‘BBB-’.
In pratica, davanti alle reiterate impostazioni economiche comunitarie tedesche, si dichiara contrario ad un intervento, giudicato negativo, diretto dal Fmi che, in pratica, ridurrebbe l’importanza e la sovranità finanziaria che la Bce stessa intende egemonizzare nell’Ue.
Tutto ciò, parafrasando, indica che in zona € la ripresa sarà incerta, debole e molto lunga.
Siamo in deflazione.
Perché la Germania vuole che sia il Fmi ad interessarsi dei problemi greci? Perché teme che l’effetto domino, che sta contagiando i vari paesi P.I.I.G.S., faccia saltare tutto il banco, comprese le nazioni virtuose, addossando a queste gli sprechi e l’inefficienza delle cicale.
Unione sì, si dice, ma non sfacelo!
I vari governi europei professano un tenue ottimismo sul Pil 2010, in leggera ripresa positiva intorno all’1%.
La maggior parte degli esperti, invece, pare orientata su un Pil ancora negativo, anche se in modo frazionale.
Non per nulla il $ si sta rafforzando sull’€, precipitato di circa 20 punti dai fasti di 1,52.
L’accordo Francia/Germania sull’intervento di sostegno alla Grecia non è indolore, specie per quei paesi che dovranno addossarsi garanzie e costi dell’operazione.
L’accordo (aiuti bilaterali volontari – sic!) prevede 2/3 a carico Ue/Bce e 1/3 a carico del Fmi, a fronte di un intervento previsto di 22 mld di €. Sempre che bastino e non se ne aggiungano altri, come probabile; perché pare inverosimile, come prevede l’accordo, che in circa 45 g la Grecia riesca a recuperare dai propri conti, o sul mercato, tale cifra.
Tradotto in numeri, in base alla partecipazione comunitaria, in carico alla Germania vi saranno circa 4,2 mld di €, per la Francia 3,15, per l’Italia 2,75 e il resto a carico di tutte le altre nazioni che, comunque, hanno una partecipazione minoritaria, solo ad una cifra o frazionale.
E l’Inghilterra? Semplice: zero; perché ha mantenuto la sterlina come propria moneta.
Ora, se si fosse escluso il Fmi dall’operazione, ogni Stato socio avrebbe dovuto accollarsi ben il 50% in più, sempre che gli americani, maggioritari nel Fmi, non boicottino l’accordo, visto anche le riserve sull’operazione da parte del presidente della Fed.
Se i tassi statunitensi e in zona € sono molto bassi, perciò pure quelli sui titoli che garantiscono il Debito pubblico, ciò non corrisponde esattamente in tutti i paesi Ue.
La Grecia, ad esempio, per attrarre capitali è sul 6,30%. Un tasso, per intenderci, spropositato rispetto a quello tedesco, francese e italiano, attestati quasi allo zero come rendita netta.
Vi è un’importante equazione in economica che afferma: a tassi alti corrisponde sempre un rischio elevato. Quale rischio? Quello di poter recuperare il capitale prestato.
Se i tassi salissero per frenare una probabile inflazione, le spese per finanziare il debito pubblico schizzerebbero all’insù, bruciando il Pil nazionale in modo considerevole.
Attualmente si calcola che gli States e l’Inghilterra potrebbero bruciare il 7/10% del Pil a tassi medi, e se alti anche giungere al 15%. Dati preoccupanti che indicano come la ripresa possa essere vanificata dai costi.
Rapportando il tutto al Debito pubblico nostro, e ipotizzando, a mo’ di esempio, un tasso d’interesse come quello attuale greco, si ottengono oltre 100 mld annui di interessi: una cifra che nessuna finanziaria draconiana sarebbe in grado di sopportare.
I tassi, perciò, resteranno bassi a lungo; diversamente molti stati saranno costretti al default.
Tassi bassi non vuol dire allegria operativa: significa ridurre drasticamente i consumi e limitazione necessaria e selezionata del credito.
I dati occupazionali italiani dipende da come li si guarda. Si afferma che i disoccupati siano cresciuti di circa 400 mila unità, però guardando i meri dati statistici.
La cifra, in verità, dovrebbe essere raddoppiata per i seguenti motivi:
a) I dati ufficiali di chi cerca lavoro sono calati per il semplice fatto che molti non lo ricercano più ufficialmente, tentando di arrangiarsi nel precariato quotidiano in attesa che la situazione evolva. Con la disoccupazione accertata i disoccupati in cerca di un nuovo lavoro nelle liste ufficiali avrebbero dovuto crescere, mentre invece sono diminuiti nella somma algebrica. Vi è sfiducia nella potenzialità dell’offerta che spesso si traduce, nella ricerca estenuante, in ulteriori spese.
b) Il Sud è maggiormente bersagliato dalla disoccupazione, specie le donne che vengono quasi estraniate, e si estraniano forzatamente, dalla forza lavoro. Le cause possono essere molteplici, a cominciare dalla grande diversità d’organizzazione strutturale dell’industria PMI tra il Nord e il Sud.
c) Non si sono calcolati tutti quei lavoratori autonomi e i precari che per la grave recessione sono rimasti senza lavoro. Basti pensare a quante decine di migliaia di attività commerciali hanno chiuso i battenti nello scorso anno.
Ecco perché si sono persi almeno 800 mila posti di lavoro, che porterebbe il dato di disoccupazione ben oltre l’8% circa ufficiale.
A questi è molto probabile che nel 2010 se ne aggiungano altri 250/300 mila (stima prudenziale), elevando il dato ufficiale verso il 10%. Gli stessi dati, grosso modo, che ha, e avrà, la stessa Germania; perciò di quei paesi che hanno retto più di altri, per ora, la crisi recessiva.
La deflazione è preoccupante perché, di norma, oltre a stagnare l’economia sul fondo non permette un pronto recupero, specie se il Debito pubblico, e con questo anche quelli aziendali, è vincolato da un gravame di costi elevati.
Il Giappone negli anni ’90 ebbe una crisi analoga e per oltre un decennio lasciò i tassi quasi a 0%; diversamente avrebbe pregiudicato, con un innalzamento, l’esistenza di molte aziende. Solo ora, a due decenni di distanza si intravede una certa ripresa.
La strategia dei soli tassi inesistenti non paga né nel breve, né nel medio termine.
In economia non vi sono strategie miracoliste, specie se il tutto viene basato sul debito. E la finanza attuale del credito ne ha abusato oltre ogni ragione, coprendola con la nomea di “investimento” e elevando la leva in modo spropositato.
Il “debito” è sempre un costo. Ora, per molti, è ritenuto un investimento. Perciò va calcolato per la potenzialità che può creare come investimento e non come tampone provvisorio.
Ciò vale per la Grecia, come per qualsiasi azienda, grande o piccola che sia. Basti pensare all’Argentina.
L’accordo tra i paesi Ue sugli aiuti alla Grecia ha posto in primo piano l’esigenza di un ferreo controllo centrale dell’economia, specie sull’asse del governatorato franco/tedesco.
Si è ravvisata la necessità di un “governo economico” apposito, capace di limitare le intemperanze contabili di certi paesi soci. Le libertà nazionali di intervento saranno perciò condizionate, visto che poi coinvolgerebbero inesorabilmente nei costi tutti gli altri.
La crisi ha imposto la necessità di sforare i parametri, elevandoli per evitare il peggio: si è fatto ricorso al deficit spending, in modo particolare per reggere la necessaria spesa di sostegno sociale, o per salvare aziende fondamentali nell’apparato strutturale economico/finanziario.
Va, comunque, sottolineato che da alcuni decenni il Debito pubblico continua a crescere nei paesi membri e che il deficit spending è diventato, di fatto, un mero fatto contabile atto a giustificare l’eccesso di spesa contabilmente risultante.
Keynes, alle cui teorie ci si ricollega, in verità non lo intendeva in questo modo. Difatti lui parlava dell’investment deficit spending, una cosa assai diversa da come viene intesa oggi.
Egli, a ragione, sosteneva che in presenza di una forte crisi economica (come lo fu quella del ’29) vi era la necessità di “investire facendo ricorso al credito disponibile, pur creando disavanzo contabile – deficit -” per muovere l’economia, ristrutturare, ammodernare e potenziare l’apparato strutturale.
Poi, una volta che il processo era iniziato, bisognava però rientrare dal debito accumulato con gli utili prodotti. Proprio come si dovrebbe sempre fare nel giusto rapporto investimento/utile/resa.
Dagli anni ’80, invece, nei paesi occidentali, e non solo, questa basilare e semplice formula economica è stata bypassata per finanziare le richieste sociali, creando, di fatto, il deficit spending … eterno e facendo esplodere oltre ogni decenza e ragionevole limite i deficit statali.
Ciò avvenne in quasi tutte le nazioni ed ora se ne pagano le conseguenze.
Basti pensare al Debito italiano, al suo imponente ammontare e a quanti decenni (secoli) di austerità e di oculato risparmio ci vorrebbero per ridurlo a zero.
L’impresa parrebbe quasi … irrealizzabile. Tuttavia è stato prodotto in circa 3 decenni.
Obama, salvo sorprese nella nuova necessaria votazione, essendo la precedente viziata e nulla per errori procedurali, ha portato in porto il sogno di molti presidenti americani: la riforma sanitaria aperta a tutti.
Per la verità proprio per tutti non lo è, anche se ci si può accontentare.
Tale riforma è ovvio che inciderà sul Debito americano; ma essendo una priorità/diritto all’uguaglianza sociale della persona umana, può essere benissimo intesa come un investment deficit spending, che, comunque, avrà bisogno di una copertura finanziaria proveniente da altri settori per non diventare un semplice deficit spending.
Tutto ciò per dire che vi sono delle spese necessarie che, anche se producono deficit, possono dare quella stabilità sociale ed economica di copertura ai cittadini in caso di gravi impatti recessivi.
Perciò, anche se come semplice spesa, va catalogata come un reale e necessario investimento produttivo.
I deficit nazionali continueranno a crescere anche nei prossimi anni, nonostante le buone intenzioni del costituente “governo economico” Ue.
Bisognerà, però, scegliere come prioritari certi capitoli di spesa, eliminarne altri e far capire a tutti cittadini la reale situazione in cui versiamo.
È finito il tempo in cui, per tenere buone le masse, si scialacquava abbondantemente per ottenerne consenso (voti), ipotecando non solo il nostro futuro, ma pure quello delle future generazioni.
Il debito non può essere dilatato all’infinito, tanto nelle aziende che negli stati.
E la ragione è una sola: un giorno gli interessi per finanziarne la copertura saranno talmente elevati da non essere più finanziariamente sostenibili.
Si avrà forzatamente il default.
Proprio come è avvenuto a suo tempo in Argentina; e che ora sta accadendo in Grecia e che accadrà, inevitabilmente, anche in altre nazioni se si procederà su questa falsariga.
L’economia Ue, grazie all’€, oggi è talmente interconnessa che gli sbagli (e gli sprechi) di alcuni poi ricadono su tutti, come l’accordo sulla Grecia sta a dimostrare nelle nude cifre.
Non siamo più né soli, né indipendenti. Di ciò devono prenderne atto tanto i cittadini quanto i governi.
E, se mi è concesso, un grande ruolo di responsabilità sociale se lo deve assumere anche l’opposizione, la quale deve cessare di cavalcare il malcontento generale col contestare sempre e comunque tutto, cercando di demolire l’operato altrui nel montare il becero qualunquismo e populismo.
L’opposizione, se vuole assumersi il vero ruolo sociale che gli spetta, deve perciò produrre un dettagliato programma alternativo all’attuale deficit spending (e dimostrare di crederci), oppure collaborare con la maggioranza nel far comprendere a tutti lo stato in cui realmente versiamo.
Questo impone il ruolo democratico d’essere forza di governo o di opposizione.
La crisi, pur con tenui barlumi di speranza, non è ancora superata. La CIG, però, sta per finire.
Molte aziende è facile che debbano chiudere, oberate dal deficit contabile.
Non si può, perciò, lasciare l’operaio senza alcuna copertura finanziaria di reddito, dopo averlo incentivato a spendere (indebitarsi) per sostenere l’economia.
Il minimo che si possa fare è il prolungare di alcuni mesi, attivando la straordinaria, la stessa CIG.
È un obbligo sociale!
Questo sarebbe un vero e profittevole investment deficit spendig sociale; solo, però, che il tutto venga concepito nel giusto verso da governo, cittadino, maggioranza ed opposizione.
Diversamente sarà, pure questo, un semplice deficit spending, atto a prorogare, ma non a risolvere, il vero problema nostro attuale.
L’infinito, è bene ricordarlo, è un’unità di misura astrofisica e non finanziaria.
Se lo si dimentica il default sarà inevitabile.
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