domenica 15 marzo 2009

Quando un papa va, confuso, a Canossa.

Non è nella funzionalità di questo articolo entrare nel merito della discussione politico/religiosa della lettera di Ratzinger[1] ai suoi confratelli vescovi. Altri (vescovi, gerarchia, fedeli e credenti) lo faranno compiutamente, guardandosi chi allo specchio della propria vanità e chi a quello della propria fede e coscienza.

Tuttavia il mio analizzare lo è, parzialmente, nel soffermarmi sullo incipit dell’attuale diaclasi che sta emarginando il mondo cattolico; o, forse, sarebbe meglio dire: nella scomposizione, in atto culturalmente, che pone più correnti di pensiero a confrontarsi (guerreggiarsi) apertamente tra loro, indebolendo il concetto di Chiesa e relegandolo ai margini della vita sociale.

La causa “lefebvriana” è solo, sicuramente, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che, con l’uscita pubblica della lettera papale, ha posto il problema all’attenzione generale.

La mia convinzione personale (probabilmente fallace) è che questo pontefice abbia avuto a sua disposizione due anni di interregno per salire volutamente al soglio di Pietro, facilitato dalla malattia che ha estromesso, volontariamente, il probabile altro candidato dalla corsa elettiva.

La cosa può, a prima vista, apparire fantasiosa; ma se, da analista, si osservano i passi di Ratzinger, fatti in questo senso, nei 24 mesi che lo hanno diviso dal regno vaticano, la realtà appare molto probabile.

Abbiamo: dimissioni per raggiunti limiti di età non accettate da Wojtyla[2], la sua amicizia con il predecessore, il suo ruolo curiale di guardiano dell’ortodossia della fede, le cerimonie funebri da lui presiedute, le riunioni organizzate (quasi “correntizie”) prima del conclave e il suo discorso nell’omelia funebre. A tutto ciò aggiungerei, pur con le debite precauzioni del caso, la cartolina firmata con lo stesso nome da pontefice, ben 2 anni prima dell’effettiva elezione, che se fosse proprio vera (e non una semplice boutade giornalistica) porrebbe sul “caso” la sicurezza matematica assoluta.

Chi si ricordi il viso “radioso” (totalmente appagato) di Ratzinger nella sua prima apparizione pubblica da pontefice e lo confronti con quello odierno, arcigno e rinserrato, non può che trarne riflessioni preoccupanti: questo papa si è reso conto che sta perdendo per strada il consenso pubblico e gerarchico della “sua” Chiesa e che non sa come uscire dal tunnel in cui si è cacciato con il suo integralismo personalista nel combattere il relativismo.

In poche parole: non sa comunicare! E, forse, neppure agire.

L’essere acculturati non significa, infatti, possedere anche quelle doti di “governo” che la Chiesa richiede non solo nell’organizzazione gerarchica, ma pure nella proclamazione della dottrina.

La sua lettera contiene una grande quantità di domande retoriche nella parte centrale e finale: domande che non aspettano risposta, ma che l’hanno già insita nel loro naturale porsi. E se il predecessore esponeva pubblicamente il “mea culpa” della Chiesa per gli errori fatti (preferibilmente passati), questo testo pontificio pare porsi il dilemma amletico dell’essere papa: in quel sentirsi isolato non tanto dalla gerarchia che lo attornia, ma dalla comprensione e condivisione generale che dovrebbe unirlo all’Ecclesia tutta.

Quanti milioni di persone si sono perse nelle udienze e in P.za S. Pietro rispetto al passato? In merito vi sono esaustive statistiche assai emblematiche nella nudità sintetica dei numeri espressi.

Ratzinger è un grande studioso: un grande esperto di storia della teologia.

Alcuni lo indicano anche come grande intellettuale (papa teologo), ma su questo non sono d’accordo: i veri intellettuali (filosofi, sociologi o teologhi che siano) sono quelli che non solo hanno una grande padronanza culturale del sapere, ma che pure sanno proporre, di proprio, qualcosa di nuovo o varianti ai concetti precedenti.

Ratzinger ripercorre con grande competenza il passato e nulla più, come un perfetto scolaretto preso totalmente dal suo ruolo.

La vicenda quasi simultanea del vescovo di Recife e la pronta sconfessione pubblica della CEI brasiliana, su un caso specifico di aborto, pone in essere non tanto il diritto canonico su chi possa emettere e revocare pubblica scomunica (di per sé ininfluente al fine dialettico generale, essendo ciò marginale), bensì il contrasto e la frattura che coinvolgono diverse correnti di pensiero, oltre che operative, all’interno della Chiesa.

La lamentela papale è solo la punta dell’iceberg e non certo un caso isolato.

Chi maggiormente dissente dalla linea politica/religiosa di questo papa sono soprattutto le chiese madri di origine, cioè l’episcopato austriaco e tedesco.

La Curia romana può pure stringersi attorno al pontefice in una formale difesa, ma non può cancellare, o seppellire, il contrasto che serpeggia ovunque e che fa ritenere, ai più, questo papa non solo incapace di reggere la Chiesa, bensì di concepirla nella realtà odierna di Popolo in cammino.

Due sono le controverse mosse di Ratzinger.

La prima di accompagnare l’uscita di un suo libro con l’invito a criticarlo se non si fosse d’accordo con il testo, perché il pensiero papale non è un … obbligo di fede; la seconda la concessione del “mutu proprio”, che in parte contrasta con le direttive del Vaticano II°.

Le due mosse vanno a braccetto; e se da una parte la prima appare come una concessione di libertà di giudizio improprio, la seconda spiana, grazie alla prima, la strada al dissidio interno.

La lettera è indirizzata all’episcopato e non è un caso: la gerarchia pastorale è divisa su come condurre la Chiesa e orientare il proprio operare.

Il Vaticano II°, come annotò K. Häbsburg, diede disposizioni alla “truppa” di andare in una direzione; ma questa aveva alcuni generali capaci, ma ufficiali e sottufficiali impreparati. Sicché, invece di andare da una parte si andò dall’altra.

Monsignor Lefebvre era al Concilio; ma nonostante tutto non si uniformò alle sue direttive, continuando autonomamente per la sua strada dopo averlo a lungo contestato nel suo svolgersi. E solo Wojtyla lo escluse dalla Chiesa a danno fatto.

Disquisire ora chi aveva ragione e chi torto non ha alcun senso, se non quello di esacerbare gli animi.

L’opera di Misericordia è negli obblighi teologici ecclesiali, anche se ancorata a determinate condizioni pratiche; e, aggiungerei, pure all’opportunità di concederla proprio sovrapponendola all’anniversario del Concilio.

Perciò la questione del negazionismo è solo la causa apparente che ha dato il pretesto a molti vescovi di dissentire pubblicamente dall’operato della Curia romana, proprio perché preceduta dal “mutu proprio”; e il continuo rettificare per cercare di sistemare la scabrosa questione non ha fatto altro che peggiorare la situazione.

Ne è sortito che la Gerarchia ecclesiale ha fatto la figura da “pollo”, come evidenziato dallo stesso Ratzinger con “… Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la convinzione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. …”.

Ciò comporta un’altra problematica importante: se l’efficacia dell’operato papale e ecclesiale sia dovuto alla conoscenza di internet, oppure se all’ispirazione sapienziale dello Pneuma.

Cosa di non poco conto, come si vede.

Tutte queste cause ed effetti a cosa conducono? Al fatto che moltissimi esponenti religiosi siano ancorati ad una concezione monoculturale del loro essere pastori, sia al centro che alla periferia. Lo sconcerto regna sovrano.

La Chiesa con il Concilio ha imboccato una strada giusta aprendo soprattutto al concetto di Persona; ma lo ha fatto, nella pratica, facendo proprio il personalismo cattolico avanzante come moda dominante d’essere credente.

Ciò ha posto al centro la persona che, anziché essere concepita come cellula primaria di una società, è diventata il “centro” della società, pure ecclesiale.

Il Vaticano II° aveva, comunque, riaffermato la dogmatica patristica della centralità di Cristo nella Chiesa. Perciò la Persona si inglobava alla sua importanza e centralità proprio nell’esplicazione della Carità: il concepire nel diritto di esistere dell’altro il dovere del cristiano d’essere Samaritano verso di lui, identificandolo in Cristo per l’amore di Cristo.

Questa centralità conclamata della persona, specie in chi filosoficamente è carente, ha portato a sostituire la Cristologia con il Personalismo, facendolo diventare nella pratica un individualismo egocentrico, tanto al vertice quanto alla base.

Il fedele si è arrogato il diritto, sentendosi centrale, di pensarla a modo suo, svincolando la propria coscienza dai dettami teologici (peraltro nella sostanza ignorati) e sostituendola con la propria sommaria conoscenza. Ciò ha portato al consociativismo e a quello schierarsi interessato che in Italia si è compiuto, in campo religioso, con il voto sul divorzio e sull’aborto.

La grande colpa della Chiesa è proprio stata quella di non comprendere questo processo evolutivo e degenerativo del personalismo, anche se quello laico, anteriore a quello cattolico, aveva generato già il massimalismo e stava instaurando, in campo sociale, i vari fascismi.

Il secondo conflitto mondiale, inoltre, aveva deturpato, con la sua devastazione portata ovunque, la coscienza di molti, tanto che proprio durante la guerra era sorta la filosofia germinale del “Dio è morto”.

Ne consegue che la stessa Gerarchia abbia imboccato un personalismo diverso da quello individualista egocentrico egoista del fedele, sfociando nell’individualismo integralista, perciò nel riaffermare la preminenza gerarchica in base sia all’illuminazione divina dello Pneuma, sia alla conoscenza della sapienza patristica su cui poggiano i dettami della fede.

Si sono creati due mondi non comunicanti, anche perché la scienza e il benessere hanno confinato il concetto di “penitenza” (non intesa solo quale confessione) come pratica superflua al vivere asociale.

La Chiesa nel secolo scorso, inoltre come nei precedenti, pur condannando apertamente la guerra ha permesso che le varie chiese locali affiancassero i regimi, dando un apparente avallo agli operati nazionali; e pure dopo come in alcuni paesi comunisti o nei dittatoriali latino americani.

La conseguenza pratica è che le varie chiese nazionali hanno proceduto su piani complanari e su rette sghembe che mal si accordarono alla centralità universale della Chiesa stessa.

Ne è sortita una metastasi culturale del cattolicesimo e i medici, i Pastori, non solo non hanno saputo curare la malattia, ma non l’hanno neppure individuata e riconosciuta.

Perciò il malato, il fedele del personalismo degenerato, è deceduto nella dissociazione sistematica della dottrina teologica, infatuandosi dietro il saccente decisionismo della propria coscienza basata su una cultura carente e dettata dall’egocentrismo. Cosa che non è avvenuta solo in ambito religioso, bensì anche nel sociale con il pretendere sempre diritti e relegando il dovere agli altri.

Ratzinger, citando il brano di Gal 5,13-15, pone all’attenzione dei confratelli Pastori, con una serie comparativa di domande retoriche, il problema del “cannibalismo” cattolico, specie nella stessa Gerarchia.

In verità tale pratica è dovuta proprio a quel personalismo che rende autonomo ogni vescovo, vincolandolo alla propria coscienza anziché alla dottrina.

La Chiesa, come sottolineavo in altri articoli, dovrebbe essere una perfetta democrazia teosofica; ma questo non può avvenire con il personalismo individualista, ma solo con la centralità di Cristo come vera e totale essenza di Persona umana e divina.

E il relativismo, perché proprio questa vicenda lo evidenzia anche in seno alla stessa Chiesa, non si combatte nell’arroccarsi nell’individualismo settario integralista, ma nel saper comunicare, tanto al pastore quanto al fedele, la bontà, l’essenzialità e l’utilità della buona novella.

Il porsi al servizio del Prossimo, e non l’essere serviti, è la base ineludibile per iniziare un dialogo.

Tuttavia, se si procede con la concezione personale integralista del “contare molto[3] rispetto al prossimo, allora si diventa unicamente serviti e non servitori, fallendo il proprio ministero.

Con questa lettera Ratzinger va idealmente a Canossa.

Oltre a Matilde chi ci troverà per essere assolto e ricevere il perdono?

Forse l’imperatore?

Era, allora, il 28 gennaio 1077; all’incirca mille anni fa. E oltre alla contessa Matilde, che non era proprio uno stinco di santa, gli interpreti erano Enrico IV e Gregorio VII.

Ora i tempi sono cambiati e pure gli attori, anche se la situazione ha molte analogie, anche se invertite.

Si spera solo che, per avere l’epilogo positivo, non si debba attendere a lungo come in quei tempi, quando la pace fu siglata nel 1111 per la soddisfazione di tutti i contendenti.

Perché allora, se ciò avverrà, della Chiesa forse esisteranno solo le pietre, quale responso storico di un tempo che fu.




[1] - Benedetto XVI

[2] - Giovanni Paolo II

[3] - Basta riandare ad alcuni discorsi di Giovanni Paolo II

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