Oggi, venne in visita da me Sesac; e mi consegnò questo racconto che pubblico, come sempre, assai volentieri.
Tratta, come consuetudine, della vita degli animali della foresta e dei fatti di un tempo che fu.
È la prosecuzione del racconto precedente, sua naturale conseguenza. (La Salvezza secondo Leone.)
Sam Cardell
Tratto da “i
Dialoghi” di Sesac
La Salvezza secondo Leone.
(Seconda
Parte)
ovvero:
Il Sensus plenior.
Leone
era già tornato un paio di volte in altura, tra gli alti e bassi della sua
situazione fisica, a cui ormai aveva fatto il callo.
La prima volta per muovere alcuni
passi sopra la Cascina, sfruttando la
pianeggiante pista tagliafuoco. Colto, a metà percorso, da un’improvvisa
burrasca nevosa che aveva fatto raddrizzare il pelo al prode Billyno, nonostante apparisse ricoperto dal fluente
vello d’un tondo e pasciuto agnello, ante tosatura.
La seconda, invece, scortato
dall’amico Piro, erano saliti fin sulla
vetta dello Sparavento, in un tiepido e
limpido meriggio del tardo inverno.
Poi una certa permanenza per
impegni, tra i toschi colli, lo avevano tenuto lontano dai patri lidi.
Laggiù, nonostante fosse a un
tiro di schioppo, non s’era neppure peritato di porgere sentite “condoglianze”
al ciarliero Pollo del Mugello, finito,
mesto e piagnucolante, come il Corso nella polvere
(A. Manzoni, Il cinque maggio) della sua
innata demenza ciarliera, nonostante quello fosse di ben altra tempra e stoffa.
Il popolo, infatti, aveva capito
di qual pessima pasta fosse fatto, voltandogli le spalle in massa e non
credendo più alla sue arroganti sparate sulle proprie mirabolanti gesta.
Tuttavia, costui, dalla storia
non aveva imparato proprio nulla e s’era premurato di ricercare con ostinazione
(col peto latino) la rivincita. Ovviamente
non al trono, il che gli sarebbe stato improbo; ma a essere solo il gallo in casa
propria osannato da tutte le “sue” galline, dopo aver ostracizzato altri galli
dal pollaio Dp. Peccato per lui che non gli fosse cresciuta mai la cresta, se
non nella … lingua.
Era una domenica pomeriggio
ventilata.
Laggiù, Leone, se ne stava
disteso a riposare, rimirando dalla finestra l’antica medioevale svettante Torre di Montebonello, che, non molto distante,
s’ergeva ardita, nel cielo cobalto, sulla costa del monte a dominar una sparuta
manciata di case, in compagnia di eleganti cipressi che, con la chioma inchinata
dal vento, stavano poco distanti come proni al suo cospetto.
Sottrasse infine il guardo dal
quel pregevole paesaggio, ritirandolo dentro casa. E fu in quel frangente che fu
attratto dalla piccola croce metallica in ferro brunito, che sormontava il
campaniletto della chiesetta dell’oratorio; là, oltre la finestra a pochi metri
di distanza.
Su questa stavano appollaiate a
tubar due tortore, intente a raccontarsi le “ciosoterie” (pettegolezzi) del
giorno.
Nella mattinata Leone ivi s’era
recato alla funzione religiosa, onde rimirar la Leonessa
che con la bionda chioma alla Gian Burrasca, impacciata per la sua presenza d’auditore
più che di fedele, s’era dilungata – come una provetta pastora valdese – sulla
frase: “Io sono la risurrezione e la vita; chi
crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in
eterno.” (Gv 11,25).
Pure il druido Moma aveva poi, nell’omelia, elucubrato poco
filosoficamente e in modo assai arruffato su ciò, combinando il non morire con
il risorgere. Tuttavia questo era il suo limite da simpatico e grezzo
bonaccione, voluto per grazia del primate Lux
al magistero, dati i suoi evidenti limiti culturali e … sacerdotali. Limiti per
la verità non solo suoi, ma comuni alla stragrande maggioranza dei druidi della
sua generazione, scarsi o quasi assenti in teologia, ma ferrati in: pizzate,
tombolate, gite, sagre e … riunioni pre-catacombali, dalle quali, più che
cavare il ragno dal buco, uscivano tanto illuminati dalla luce divina da non
capire neppure dove andassero e da dove venissero.
Era, costui, un simpatico amico
di Leone, che lo riteneva un amabile ragazzotto credulone non ancora del tutto
cresciuto, ruvido d’intelletto ma di buona volontà, intento a dilettarsi spesso
in pellegrinaggio alla “postina slava”, che ogni giorno, a determinata ora, era
solita ciacciare col veggente per la serie il
postino suona sempre due volte.
Da simbiologo qual era, Leone
s’era – per modo di dire – distratto a fare alcune analisi, osservando postura,
atteggiamento e look di qualche fedele.
Fu così che per l’occasione
s’interessasse d’una squinzia stagionata, fornita con vertiginosi tacchi a
spillo e da attillato abito nero con candida camicetta, che esaltavano davanti
il piccolo accennato seno e dietro il mini culetto rialzato.
Stava costei, brevilinea con
capelli lunghi e sciolti e impettita come una canna di bambù, in estasi pressoché
dirimpetto all’altare ch’era sovrastato dal grande crocifisso ligneo posto
sulla parete, quasi a guardia del celebrante, di cui, vox
populi, si dicesse … abbacinata in modo quasi … reciproco, per la gioia
diffamatoria di tutte le “perpetue” locali; le quali avrebbero voluto
inconsciamente essere al suo posto per il sex appeal che il sacro crea in ogni
femmina.
Ovviamente Leone ne dedusse
importanti considerazioni, annotando principalmente i caravaggeschi chiaroscuri
comportamentali e culturali.
Fu così che, osservando la croce
del campaniletto, parve a Leone d’essere in vetta allo Sparavento.
Non che questo gli mancasse,
giacché egli stava benissimo ovunque. Gli bastava che non ci fosse qualche
idiota dedito a rompere le scatole al prossimo.
Fu così che Leone rammentò il
discorso sospeso tempo prima lassù, sentendo una voce che ormai gli era familiare.
“D - Ciao, Leo! Ti vedo bene. Sicuramente la Leonessa ti
dona.
L – Vero, Buon Dio! È sempre una gioia stare con lei, anche se
gli impegni, purtroppo, ci tengono troppo tempo lontano.
D – Verrà pure il tempo dello stare sempre insieme. Non
disperare.
L – Sai, non dispero affatto. Come sai non mi lamento mai di ciò
che non ho. Sarebbe solo tempo perso.
D – Bene, Leo; hai sentito la mia frase?
L – Beh, quale? Ne hai dette tante, anche se per la verità ero
in ben altro affaccendato.
D – Ehh, lo so. I miei templi sono per te un ottimo campo di
studio e di analisi.
L – Ovvio. Lì si capisce bene dove va la Tua Chiesa e quanto
durerà ancora prima di sparire. Vi sono parametri culturali e sapienziali che
non fallano mai. Quello della carenza di druidi è il primo. Il secondo è quello
della desertificazione del Popolo di Dio. Il terzo la new age di ogni tuo
fedele. Quel movimento subculturale che porta ognuno a fare il proprio comodo
secondo le proprie esigenze.
D – Sono i tempi moderni, quelli della globalizzazione e di
internet, dove pure l’idiota pensa di trovare il suo sapere infinito tra
l’ammucchiata invereconda di verità e falsità.
L – E già. Fortuna che vi sono gli illuminanti siti dei Legni di
S. Damaso a … confondere maggiormente le idee dei … tontoloni. E poi, scusa: chi
ha creato gli idioti e li ha allevati come tali.
D – Dai, Leo. Non essere sarcastico e dissacrante nello stesso
tempo!
L – Sai, Buon Dio, io osservo solo e annoto quel che vedo.
D – Ok! Procediamo per non andare in diatriba.
La mia frase era: Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. A questa potrei aggiungere la mia domanda della scorsa volta, su
cui hai elegantemente glissato: Leo, mi ami tu?
L – Ne sei convinto, oppure fai per tastarmi?
D – Credi forse che Io sia il tentatore?
L – Scusa, ma i Tuoi teologi non han sempre ribadito che i Tuoi
fini e mezzi sono imperscrutabili? Non avrai adottato il De Principatibus del Macchiavelli, in gergo nostrano Prince e in Italiano Il Principe.
D – Ma no! Vorrei solo comprendere bene.
L – Cosa? Il sensus plenior o che altro? Fammi
capire bene!
D – Se ci tieni alla Salvezza e se in Essa credi, data la tua
situazione.
L – Capisco. Ti ringrazio della precisazione interessata e degli
… auguri.
Ovviamente il discorso sarebbe molto lungo; ma non avendo ora
altro da fare lo possiamo affrontare.
D – Procedi che ti seguo. Vorrei solo precisarti che nella mia
richiesta non vi sono secondi fini o malignità interessate.
L – Lo credo, diversamente Tu e il Tentatore sareste la stessa
cosa.
Tu sai cosa la scienza mi disse tempo fa: 18 mesi. Fu il responso del test esistenziale. Ora, però, siamo quasi a
60. Questo dice tutto sulla caducità della scienza, anche se si dice che
possono sbagliare al massimo di 10 giorni su 15 anni. Figurati se di 42 mesi su
18.
La cosa non mi condizionò affatto, anche se il sentirmelo dire
non mi fece fare i salti di gioia. Questo è ovvio. Non li facesti neppure tu
nel Getsemani davanti al Tuo Sacrificio imminente.
Ora, posso fare una prova con Te. Dimmi il termine che mi hai
fissato.
D – Tempo fa incaricasti pure il mio caro e prediletto Lux di
chiedermelo.
Siccome non voglio fare cattiva figura non te lo dirò. Sai, sono
della sua stessa idea. Cosa ti disse lui allora? Così ti rispose sornionamente:
No,
che non glielo chiedo! Tu per fargli dispetto saresti capace di smentirlo di
sicuro, come hai già smentito la scienza.
L – Stai diventando furbo e prudente, Buon Dio. Annoto solo che
teologicamente la Scienza appartiene a Dio e che Dio e Scienza sono la stessa
cosa.
D – Vero, Leo. Quella umana è però imperfetta, quindi fallace.
L – Considerato che non me lo vuoi dire, annoto solo che temendo
d’essere smentito pure la Tua lo è, di conseguenza.
D – Procedi. Su ciò le nostre idee non collimano.
L – Ok! Ora, prima di risponderTi voglio farTi pure io una
domanda.
Tu dici: … chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in
me, non morirà in eterno.
Ora chi non crede in Te o non ti conosce affatto, che fa? Muore
e non vivrà più?
D – Domanda pertinente e interessante, Leo. Ora comprendo
appieno il tuo sensus plenior, che citasti poco
fa. Ovviamente va inteso proprio in quel senso.
L – A questo punto pure io Ti rispondo: considerato il sensus plenior non ha alcuna
importanza credere in Te. Ciò che è importante è l’essere coerente con la
propria identità culturale, specie se costruita su principi e valori non
precostituiti sui propri interessi, ma su quelli della convivenza civile e
sociale con tutti gli altri.
D – Su ciò dici bene. Però per chi mi conosce il credere in me è
essenziale.
L – Ok! Potrei anche sottoscrivere. Però se uno scientemente la
pensa diversamente, secondo Tè muore, perciò si danna?
D – Ovviamente no, se vive e ha vissuto secondo i principi
divini.
L – Bravo! Perciò non ti chiederò, come Pilato, quid est veritas? (Gv
18,38) - λέγει
αὐτῷ ὁ Πιλᾶτος· Τί ἐστιν ἀλήθεια;.
D – Già. Come tu saprai, però, la risposta è contenuta già nella
domanda, facendone l’anagramma.
L - Vero, Buon Dio. Chi sciolse per primo tale dilemma fu il Tuo
Agostino d’Ippona; così: est vir qui adest (è l'uomo qui
davanti a te).
Però, questo Tuo servo, proviene prima dal manicheismo, per
imbeversi poi della cultura neoplatonica, con annessa retorica. Il che è tutto
dire. Solo con l’aneddoto del “tolle lege” passa velocemente al cristianesimo.
Quindi, secondo tale cultura – e qua ci ricolleghiamo a Ipazia. Ricordi? – la verità non è più un oggetto metafisico, bensì è
un Soggetto di entità, che, come tale, s’identifica in Te. Diventa l’Essere;
ergo la Verità.
Ovviamente resterebbe da convalidare il binomio inscindibile
Dio/Verità.
Vedi, il problema è che nei tre sinottici Gesù non si esplicita
mai come Dio, ma solo come Figlio di Dio. Ovviamente evito di sottolineare che
essendo gli umani tutti figli Tuoi, la cosa è più che naturale.
D – Su ciò hai perfettamente ragione. Va da sé che tra figli
miei e il Figlio vi sia una certa
distinzione ontologica. Sicuramente ciò non ti sarà sfuggito.
L - È esattamente così come dici, Buon Dio.
Però, vedi, pure dei testi sacri bisogna comprenderne il sensus plenior. Ciò significa che
ciò che l’autore del testo esplicava non sempre gli era consapevole. Gesù è
sempre chiamato Signore (Kyrie in latino, Κύριε in greco), da cui
il noto Kyrie eleison. Mai Jahvè o Elohim. Infatti Tuo Figlio mentre spira che Ti dice? Elohim, Elohim, lemà
sabactàni.
Oppure la consapevolezza e le intenzioni di questi non
corrispondevano poi all’interpretazione altrui. Qua, perciò, si può sfociare
nell’ampio e infinito discorso sul relativismo interpretativo. Oppure,
nell’ipotesi non tanto strampalata che uno o più di questi potessero essere
nell’errore.
D – E allora?
L – Beh, mi pare semplice.
D – Spiega; non ti capisco.
L – Guardando la storia della Tua Chiesa, si nota in modo
particolare una cosa: solo con l’avvento dell’interpretazione/declamazione più
o meno forzata della tua Trinità si arriva a proclamare il ‘Tuo Figlio’ Dio. In
pratica a identificarlo con la Tua stessa Essenza. Ovviamente altri la
pensavano molto diversamente, come Ario.
D – Scusa, Leo, ma non comprendo dove tu voglia arrivare.
L – Intendo semplicemente dire che la salvezza sta
indirettamente nel Figlio, ma essenzialmente nel Padre. È lui che applica la
Giustizia, quindi che dona la Salvezza o che dà il castigo.
D – Forse, Leo, dimentichi l’Apocalisse.
L – Nient’affatto. Il giudice che amministra non necessariamente
è l’entità in persona. Diversamente sarebbe come dire che Tu invece di
crocifiggere il Figlio hai crocifisso Te Stesso.
D – Non ti posso dar torto.
Procedi. La cosa comincia ad attrarmi.
L – A pasqua il Tuo druido burino affermava, accennando al
grande e ruvido quadro del fornaio posto alle sue spalle sull’altare, che Gesù ha vinto la morte. In
effetti Gesù ha subito la morte e per la Tua Volontà.
D – Certo, ma poi il terzo giorno è risorto.
L – Ovvio. Così sta scritto. Però nella Bibbia vi sono alcuni
fatti inerenti la resurrezione di qualcuno. Tutti costoro non sono però stati
resuscitati da chi materialmente era in azione, ma solo da Te, quindi dal
Padre: Jahvè/Elohim, la sacralità
primaria, unica e assoluta. Costoro
erano solo lo strumento Tuo. Un morto non si resuscita da sé, essendo
tecnicamente inerte, perciò materia grezza.
Dunque pure il Figlio è stato resuscitato dal Padre, equiparato
poi alla sua stessa Entità. Senza la sua volontà, perciò la Tua, giacerebbe
ancora nella tomba.
D – Ora capisco, Leo. Ciò che significa: tu credi nel Padre più
che nel Figlio?
L – Ti prego di non confondere la teosofia con la credenza
personale. Non è il credere che dà la salvezza, bensì l’essere. È ciò è quel
che manca nel Tuo Popolo e nel tuo clero.
Ovviamente uno può salvarsi anche in punto di morte, come
declama la Tua Chiesa. Però deve essere e non credere. In pratica deve essere
certo e convinto, non indotto dalla convenienza incipiente.
D – Concludi per favore.
L – Lo spazio e il tempo sono termini discorsivi umani. Ciò
significa che quello che per l’uomo
viene prima o dopo nel tempo, per Te, Dio, è continuità. Proprio come la
Salvezza.
Solo in questo senso Gesù è risuscitato dai morti. È resuscitato
da sé perché inerente alla continuità del Padre, senza il quale, però, sarebbe
rimasto morto.
In logica esiste la sub causale, specie in latino: quod, quia,
quoniam, cum, quandoquidem, siquidem. Il cum esige sempre il congiuntivo; le
altre l’indicativo o il congiuntivo secondo i casi.
Ne consegue che il Padre è sempre l’Indicativo e il Figlio la
Sua Congiunzione naturale , senza il quale però non esisterebbe.
La stessa cosa vale per la salvezza umana alla gloria eterna.
Questa si fonda sull’entità dell’Essere uomo, quindi soggetto e non oggetto.
Perché se la salvezza diventa soggetto e non oggetto finale, va da sé che
l’uomo ha dannato sé stesso sia in vita che in morte. Non ha il cum di
congiunzione con l’eternità, perciò con la Storia.
D – Condivido appieno Leo. Annoto solo che ai più questi
passaggi sono indigesti, quando non astrusi.
L – E per costoro va benissimo il solo ‘credere’ nel Figlio:
nella continuità esistenziale e non nel tornaconto personale. Perciò la
continuità diventa la convinzione, il tornaconto solo l’operare per la salvezza.
Non vi può essere premio solo per un fine interessato. La salvezza la si
raggiunge, non la si compra.
La conversione che cos’è se non l’operare convinto quotidiano,
pur nel relativismo umano, verso la perfezione comportamentale, secondo i
propri dettami culturali?
E ciò, se permetti, appartiene a chiunque: credente o non
credente.
D – Bene, Leo, ti sei espresso chiaramente. Almeno per me.
Condivido appieno che tutti sono figli miei, anche se chiamati
ad operare in ambiti e condizioni molto diverse.
Per essere domenica oggi ti ho fatto lavorare … assai, anche se
per la Gloria di Dio. Alla tua so che non ci tieni affatto.”
Leone non rispose e disteso sul
letto chiuse gli occhi.
Per lui il discorso era chiuso.
Stava quasi per assopirsi quando
l’improvviso latrato di Kira, la
mastodontica e mastina cagna di Marcellus,
scosse giù nel cortiletto la quiete del quartiere.
Leone si scosse dal torpore che
lo stava vincendo e pensò a Billyno. Se presente avrebbe detto la sua a cotanta
cagnara.
Quasi per incanto la porta della
stanza si aprì. Era la Leonessa che tornava dalle sue … sacrestie,
Sesac
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