lunedì 15 maggio 2017

E non ci indurre in tentazione.


Oggi, venne in visita da me Sesac; e mi consegnò questo racconto che pubblico, come sempre, assai volentieri.
Tratta, come consuetudine, della vita degli animali della foresta e dei fatti di un tempo che fu.

Sam Cardell
 
Tratto da “i Dialoghi” di Sesac
 
E non ci indurre in tentazione.
 
ovvero
 
Lapsus freudiano della Chiesa.
 
Leone era tornato ai patri lidi con Bipperino.
Billyno, che aveva percepito il suo arrivo, si precipitò fuori festante ad accoglierlo, saltando più volte a piè pari prima di abbracciarlo con le zampette. Facendo poi le fusa sulle sue ginocchia, come i gatti, appena si fu seduto in poltrona. Era da parecchio, infatti, che soffriva la sua mancanza.
 
Il tempo faceva le bizze; ma alla fine della settimana fece una pausa. Leone ne approfittò per far visita a Gini su in cascina, portandogli l’abituale sospirato chianti dei toschi colli con altre vettovaglie.
Dopo i convenevoli, e sentendosi in forze, decise di salire verso lo Sparavento. Per l’occasione, pure Birba, il nuovo piccolo amichetto di Billyno e cucciolotto di Gini, si unì alla compagnia, tanto per creare quella festosa cagnara di giochi che i piccoli amano tra loro prolungare all’infinito.
Il pascolo, tra una nevicata e l’altra, cominciava a rinverdire, addobbando la costa del monte d’un abito smeraldino. Pure la placida pozza (laghetto) dei Marsì si era abbondantemente rifocillata rispecchiando il cielo cobalto, favorita in ciò dai prolungati fortunali che avevano investito la zona nei giorni precedenti. Ivi, Billyno, decise di farsi un bagnetto; ma dato il fondo melmoso ne uscì con le zampette incrostate di nero. Alle rimostranze verbali di Leone, rispose dandosi una bella scrollata, inzaccherandolo d’acqua e di fango, onde sorbirsi le conseguenti contumelie e la racchetta alzata a monito ...  futuro. 
 
Leone, la sera prima, aveva accompagnato Madame alla prefestiva, approfittandone per ‘gustarsi’ l’elevato (eufemismo) culturale sermone del druido burino, infarcito, come al solito, di frasi fatte.
La pieve era disadorna di fedeli, tanti come i 44 gatti della nota canzoncina.  Che, appunto come tali, recepivano distrattamente da un orecchio per far fuoruscire subito il tutto dall’altro, intenti perlopiù a pensare ai fatti propri.
La pieve aveva cambiato il suo assetto naturale, perché il giorno dopo vi erano le prime comunioni di 12 bambini. Infatti, nella corsia centrale era stata posta una rustica lunga tavola, addobbata con 8 ceri e piatti di legno su tovaglia bianca. Guarnivano il tutto 3 confezioni floreali, impreziosite da alcuni girasoli, che, secondo il druido, erano sempre rivolti al sole, perciò a Gesù. Peccato per lui che questi avevano guardi diversi, perciò non rivolti verso un unico soggetto.
Costui, si dimenò assai sulla frase Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6), elucubrando sul fatto che chi non avesse seguito le tre sostanze divine non potesse per forza di cose essere in comunione con la perfezione.
Sentendo ciò Leone si rallegrò del fatto di non essere perfetto, perciò del non essere grullo del tutto, come si era solito affermare tra i toschi colli.
 
Salendo verso la vetta Leone pensava all’amico Era. Pure lui, pur avanti negli anni, lo aveva appena lasciato.
Camminando lentamente ricordava la sua grande statura professionale, il suo appassionato colloquiare burlone, il suo innato saper dialogare e socializzare, il suo perfetto inglese e pure alcune sue birichinate, che Leone, con provetta abilità di simbiologo di razza, sapeva estorcergli senza che lui se ne avvedesse.
Lui era sempre stato un tipo di un’autoironia pungente, riassumibile dalla sua proverbiale frase: Tutto procede perfettamente secondo i piani non prestabiliti. Oppure: È tanto che sei arrivato adesso?
Tanto per fare il paio con quella di Leone, che quando lo chiamava al telefono così lo burlava: Era, è tanto che ti sei alzato adesso?
Ricordò pure alcuni lavori fatti insieme, come al Quies; dove Era, dopo la posa del tetto, si era premurato di festeggiare con un lauto pranzetto con ben 2,5 kg di ‘casonsei’ (casoncelli), sorbendosi l’ironia di Leone, intento a chiedergli se avesse dovuto sfamare la folla della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Leone amava ricordarlo con quel suo sguardo sornione, ironico e furbesco, ancor più evidenziato dalla sua abitudine di tenere gli occhi cristallini parzialmente socchiusi, come chi con vitalità, intelligenza e lungimiranza sa guardare lontano. Pure la bocca, sempre atteggiata al sorriso, faceva risaltare la sua essenza di uomo non comune, capace di dirigere e comandare centurie intere di uomini.
Poco prima Leone aveva partecipato alla veglia funebre di Era, dove il druido, in totale estasi di scienza infusa, era tornato sulla frase evangelica del giorno, pindaricamente commentando che Dio, nella sua infinita misericordia, sapeva sì giudicare, ma soprattutto amare e perdonare. Al che, Leone, sorrideva dentro di sé per tanta somma … teologia.
Fu così che quasi senza avvedersene, intento nei suoi ricordi, sbucasse sbuffando sulla vetta, dirimpetto alla tozza croce in pietra.
L’accarezzò come sempre, prima di sedersi per il riposo e lo spuntino al solito posto.
Tuttavia non aveva voglia di godersi il panorama. In quel momento preferiva ricordare e meditare. Non un venerdì storico, bensì uno speculativo: quello che ogni uomo d’una certa levatura sa lasciare ai posteri con le proprie opere o con il proprio pensiero.
Fu così che … ricominciò l’ormai consueto dialogo.
 
D - Ciao, Leo! Ti vedo un po’ mesto. Però ti capisco.
L – Beh, come sempre accade è una parte di noi che se ne va pure essa.
D – Ti osservavo mentre salivi. Eri meditabondo. Su cosa rimuginavi, com’era solita dire la Dina? Non ti sarà andata di traverso l’omelia del mio druido di ieri sera?
L – Niente affatto. Ormai quello è tanto prevedibile tanto quanto conosco le mie tasche.
Piuttosto stavo pensando alla Tua preghiera per antonomasia.
D – Quale? Ti vuoi burlare forse di me?
L – Perché sei così diffidente? Eppure oggi splende il sole.
Ti dirò: pensavo ad un evidente lapsus di Tuo Figlio, quando la insegnò ai suoi apostoli e discepoli.
D – Vedi che ho ragione d’essere diffidente? Benché legga tutto, le tue intenzioni mi restano assai spesso nebulose.
L – Ehhh, Buon Dio. O stai diventando vecchio, oppure stai perdendo i colpi, se affermi così.
D – Per dio, Leo, sputa il rospo e illuminami sulle tue congetture.
L – Che fai, Onnipotente? Invochi pure Tu Te stesso?
D – Ma no. Come sai è solo un modo di dire. Su, non prendermi in giro. Questa l’ho capita benissimo!
L – Sai, pensavo al Pater noster. Oppure se preferisci al Πάτερ ἡμῶν, la così detta Preghiera Dominica. (Lc 11,1)
D – Son curioso di sapere dove vuoi arrivare. Non ti piace?
L – Tuo Figlio disse (Mt 4,4) che non di solo pane vivrà l’uomo, ma pure della parola che esce dalla bocca di Dio (sed in omni verbo quod procedit de ore Dei). Essendo una preghiera Tua, dovrei cibarmi pure di essa, ma non essendo cibo materiale non l’ho mai mangiata.  
D – Spiritoso!
Procedi e non lasciarmi in ambascia. Perché mi fai pure la citazione latina, pur se parziale?
L – Perché il testo che cito ha un significato più dettagliato e preciso di non quanto dica in italiano.
D – Capisco. Su ciò hai perfettamente ragione.
L – Ne consegue che il Padre nostro dovrebbe essere perfetto. Tuttavia ad un’attenta analisi logica non lo è. Contiene un grossolano errore, o se preferisci un gigantesco lapsus.
D – Suvvia, dimmi. Giacché tu lo sai pure declamare nelle varie lingue antiche, ti prego di evidenziarmi eventuali incongruenze.
L – Ok, procediamo. Userò la versione di Matteo, quella più completa e ritenuta originale (Mt 6,9-13). Il testo italiano dice:
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen.
La variante valdese è in pratica quasi identica, ma si differenzia in alcuni particolari, dicendo:
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo anche in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e non esporci alla tentazione, ma liberaci dal Male. Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. Amen
Come sai alla veglia funebre di poco fa vi era una sicuramente valdese. Infatti lo declamava proprio in questo modo. Sai, quella vestita di verde.
D - Beh; e allora che trovi di strano?
L – Calma, Buon Dio; non essere così impaziente. Vedi, per capire bene il tutto val la pena ricollegarci alla dizione latina e a quella greca originale.
La prima dice:
Pater Noster qui es in cælis: sanctificetur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua, sicut in cælo, et in terra. Panem nostrum cotidianum da nobis hodie; et dimítte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris; et ne nos inducas in tentationem; sed libera nos a malo. Amen.
Ti ricordo pure solo che erroneamente, ma non tanto, il tuo popolo prima del concilio era solito omettere il “ne”, dando alla frase ben altro significato.
D – Vero, Leo, questo lo notavo ogni giorno, ma ignorando questi il latino la loro dizione popolana creava la dissonanza da te ora evidenziata. Il loro era spesso un maccheronico; un po’ come quello che usa talora Madame.
L – Hai perfettamente ragione.
Il testo base da cui derivano le traduzioni è in effetti quello greco, che rispecchia perfettamente il testo originale di Matteo in aramaico. Questo dice:
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου· ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου· γενηθήτω τὸ θέλημά σου, ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς· τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον· καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν, ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν· καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ. Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας· ἀμήν.
Perciò il testo valdese, come puoi vedere, comprende anche la frase antecedente l’amen.
Translitterando il greco, per comodità del profano, abbiamo:
Pater hēmōn, ho en tois ouranois hagiasthētō to onoma sou; elthetō hē basileia sou; genethetō to thelēma sou, hōs en ouranō, kai epi tēs gēs; ton arton hēmōn ton epiousion dos hēmin sēmeron; kai aphes hēmin ta opheilēmata hēmōn, hōs kai hēmeis aphiemen tois opheiletais hēmōn; kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon, alla rhusai hēmas apo tou ponērou. Hoti sou estin hē basileia, kai hē dynamis, kai hē doxa eis tous aiōnas; Amēn.
D – Bravo Leo, sei preparato in ciò. Permettimi di tentarti così: me lo sai citare pure in aramaico, lingua che usava il Figlio?
L – Sai benissimo che non mi sono mai interessato né dell’aramaico, né dell’ebraico. Non ho dimestichezza con chi scrive da dx a sx. Per l’ebraico dovresti sentire un po’ la Leonessa. In ciò talora lei mi … sdottora.
Comunque, stando ai tuoi migliori esegeti, pare che le dizioni greca e latina siano conformi all’originale. 
D – Procedi.
L – Il verbo latino inducere viene considerato passivo. In pratica l’oggetto lo subisce. Ciò significa che il Tuo inducas potrebbe essere benissimo tradotto oltre ad indurre anche in incitare o spingere. Se fosse stato attivo, perciò positivo, l’oggetto sarebbe il soggetto. Ne consegue che invece di inducere si sarebbe usato inferre/afferre (produrre) o inicere (ispirare).
D – Ti prego, Leo, spiega meglio.
L – Ok. Parlerò diversamente se la logica ti è … astrusa.
Usando il verbo inducere il soggetto sei Tu, Dio Padre, mentre l’oggetto e il Tuo fedele, colui che Ti prega.
Ciò significa che chi porta il fedele/oggetto alla tentazione è il Padre/soggetto.
Se si fosse usato inferre o inicere il soggetto sarebbe stato il fedele e l’oggetto la tentazione/peccato.
D – In pratica affermi che vi è uno stravolgimento di competenza.
L – Esatto; ma ciò sarebbe magari anche ininfluente se la tentazione/peccato non fosse addebitabile al Maligno.
D – Come in effetti lo è!
L – Appunto. Perciò qualcosa è sfuggito o all’evangelista, oppure …
D – Oppure? Spiega!
L – I casi restano solo due: il primo è quello di un abnorme lapsus del Figlio; il secondo, escludendo il lapsus è che il Padre – cioè Tu – e il Maligno siate la stessa persona.
D - Questa è proprio bella. A dirti il vero a ciò non avevo mai pensato.  Finisci il discorso già che ci sei.
L – Beh, è abbastanza semplice. Tuo Figlio avrebbe dovuto usare un verbo diverso, come ad esempio tegere (coprire con riparo) o meglio ancora defendere (difendere, salvare) o vindicare (preservare).
D – Ipotizziamo che dall’aramaico al greco, quindi al latino vi sia stato un errore di traduzione.
L – Questo me lo devi dire Tu. Io non sono l’Onnipotente. Si potrebbe pure ipotizzare che i tre evangelisti sinottici abbiano … capito male.
Di sicuro c’è che la Tua Chiesa lo dice da due millenni. E con questo lapsus freudiano ti addossa una responsabilità di non poco conto, oltre a identificarti col Tuo opposto.
D – Che vuoi, Leo? Gli umani non sempre sono perfetti, proprio come la mia Chiesa. Non per nulla è un Popolo in cammino.
L – Questo è ovvio. Il problema però, Buon Dio, è un altro.
D – E quale sarebbe?
L – Che se ha camminato (pregato) in tal modo per due millenni e persiste ancora nell’errore, il suo cammino mi pare poco … illuminato.
Sarebbe bene che riparasse all’equivoco usando un verbo diverso.
 
Dio non rispose.
A Leone parve di percepire che avrebbe volentieri usato un braccio della croce per … grattarsi perplesso la nuca.
Il sole volgeva ormai verso l’orizzonte. Birba e Billyno, nel frattempo, continuavano i lori giochi sullo spiazzo presso la croce.
A entrambi, come a molti fedeli, le questioni filosofiche e teologiche erano precluse. Per tutti costoro tutto faceva … brodo.
Al richiamo di Leone, che s’accingeva a scendere, risposero prontamente, procedendo festanti davanti a lui. S’erano divertiti assai.

 

 

Sesac

 

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