Sesac è tornato a farmi visita portandomi, come sua abitudine, uno dei suoi racconti sulla vita e sulle vicissitudini degli animali della Foresta.
Lo pubblico con piacere; come sempre nella collana dedicata ai suoi "Dialoghi" .
Sam Cardell
Tratto da “i Dialoghi” di Sesac
Il riposo del guerriero.
L’estate volgeva ormai al termine, quando decisi di far visita a Leone.
La compagnia da mesi s’era quasi sciolta; e i periodici e piacevoli incontri della “truppa”, spesso in località diverse, da tempo non si svolgevano più.
Pareva che il collante che teneva tutto unito si fosse dissolto. Questo collante aveva il nome del re della Foresta: Leone.
Talora ci si incrociava tra amici e ci si chiedeva il perché tra di noi. Leone pareva essersi dissolto nel nulla: era irreperibile, evanescente, scomparso quasi nell’infinito e galattico spazio cosmico, celato in uno di quei silenzi a cui ogni tanto ci aveva abituati quando aveva altre cose ben più importanti da fare, delle quali, peraltro, non poteva, né voleva, neppure dire.
Alcuni, nel gruppo, ipotizzavano di un malessere passeggero, considerato che l’ultima volta ci era parso svogliato, quasi abulico alla festosità e alla vivacità del gruppo.
Io, Sesac, avevo provato a contattarlo, ma i canali telematici erano chiusi. E là dov’erano aperti non davano alcuna risposta.
Il tam tam del tamburo risuonava invano nella Foresta. Tutto taceva! Il suo ruggito pareva essersi perso nell’oblio dello scorrer del tempo, ingoiato nel buco nero della tumultuosa vita giornaliera.
Era una splendida e tersa giornata settembrina quando varcai, nel primo pomeriggio, l’accesso all’aia di Leone.
Ivi trovai l’oca portinaia che m’informò che Leone era uscito. S’era recato da Gini per portargli alcune cose, com’era solito spesso fare. L’affezionato e fedele Billyno – diminutivo nostro per differenziarlo dal suo predecessore - era con lui.
Considerai che sicuramente stesse bene, visto che s’era recato in altura.
Conoscendo la zona - peraltro meta di alcuni nostri ritrovi - decisi di provare a raggiungerlo, anche perché mi era stato detto che non si sapeva a che ora sarebbe tornato.
La frescura del bosco, che attorniava il percorso, proiettava il refrigerio pure nella mia auto, provata dalla calura ancora estiva che assediava, opprimendola, la valle e la piana. Il carpine rosseggiava il bosco con le sue infiorescenze abbondanti, tanto che da lontano dava l’apparenza d’avere un fogliame rinsecchito dall’arsura del solleone e dalla siccità.
Salendo la bella, ma sconnessa, strada panoramica costellata da innumerevoli tornanti, rimirai con soddisfazione il cobalto del leggiadro lago, che giù in basso se ne stava disteso, sonnacchioso e beato, ad abbronzarsi nell’immota brezza del meriggio, in attesa che i chiassosi bagnanti del mordi e fuggi lasciassero le sue verdi smeraldo rive, inondate, sul tardi, dal rigenerante vespero (tramontano) serale e dalla placida silenziosa quiete, rotta solo dal frusciar del venticello tra le chiome dei pioppi e dei salici, posti a guardia della riva.
La poiana roteava indolente e alta sopra il bosco, cercando refrigerio tra le correnti ascensionali delle ghiaiose, boscose e dirupate vallette del monte, non potendo togliersi di dosso il caldo piumaggio, maggiormente adatto al gelo invernale che alla calura estiva.
Giunsi alla cascina di Gini. Bruno mi corse incontro festante, abbaiando.
Di Billy e di Leone nessuna traccia, neppure del fedele Bipperino.
Mi fermai sotto i grandi noci centenari a parlottare con Gini, felice di rivedermi dopo sì lungo tempo. Come sempre vociava assai, rintronandomi completamente le trombe di Eustachio.
Lassù, nonostante il sole cocente, la temperatura era gradevole e oltremodo sopportabile.
Appresi da Gini che Leone aveva lasciato da poco la cascina, intenzionato a cercare prataioli e lepiote sulle pendici dello Sparavento. Con Billy e Bipperino era salito oltre, verso i Marsì, onde non affaticarsi troppo.
Fu perciò da Gini che appresi del perché Leone s’era ritirato, quasi all’improvviso, da ogni attività.
Mi incamminai di buon passo e dopo una rapida salita trovai in una piazzola Bipperino, intento a godersi il paesaggio della valle e a occhieggiare dall’alto i laghi.
Ovviamente Leone era più avanti. E, infatti, alzando lo sguardo sul monte, lo notai con Billy già a mezza costa, intento a girovagare lentamente qua e là tra i panciuti e scuri ginepri, colmi di bacche verdi e bluastre, abbassandosi di tanto in tanto come a raccogliere qualcosa. Funghi, ovviamente!
Dopo un po’ lo notai fermo a lungo, quasi seduto sulla cotica erbosa.
… Raggiunsi la vetta del monte; e, uscendo dal ripido scivolo finale, notai Leone accomodato, appoggiato con la schiena alla marmorea, massiccia, bassa e squadrata chiara croce sommitale, intento a dialogare a tu per tu con l’imponente cerchia delle Orobie che si stagliava nettamente a nord, solo punteggiata da qualche piccola nube biancastra, postasi là come a disegnare un piacevole contrasto macchiaiolo tra il cobalto del limpido cielo e il brunito delle Alpi.
Era una splendida giornata!
Lo salutai. Mi guardò non affatto stupito, come se fosse una cosa naturale, e ovvia, che l’avessi raggiunto inaspettatamente lassù.
Billy mi fece grande festa come sempre. Non ebbi neppure il tempo di sedermi accanto a Leone che me lo ritrovai appollaiato in grembo, accompagnato dal rituale “Ruffiano!” che egli era solito rivolgergli per questa sua impertinente smanceria.
Dopo un po’ Leone mi invitò a spostarci di un paio di metri, onde poter rimirare a sud l’imponente vasta piana, chiusa dalla lontana ma netta cinta appenninica, e, sotto di noi, le valli e i laghi, che parevano intersecarsi e rincorrersi tra loro nel dedalo geografico.
Trovai Leone in ottimo stato. Mi parve anche che avesse messo qualche chilo in più del solito. Di lui si sarebbe detto ogni cosa, ma, vedendolo così, non che fosse … tanto ammalato.
Dialogammo a lungo e appresi tutto. Mi ragguagliò con competenza professionale. Parlando era talmente sereno e distaccato che mi parve che il male avesse colpito qualcun altro e non lui.
Aggiunse pure che aveva faticato assai a raggiungere la vetta del monte, nonostante che per lui, abituato agli Ottomila, lo Sparavento fosse solo una piccola protuberanza da scavalcare con un semplice balzo. Le forze e il fisico cedevano ad ogni passo; ma tuttavia non s’era arreso, preferendo morire dallo sforzo su quel monte piuttosto che darsi per vinto per una sì piccola salita. E capii, allora, perché l’avevo visto seduto a lungo.
E aveva … vinto. Vinto il male dentro di sé disconoscendolo come propria entità; vinto la sua battaglia giornaliera con un fisico labile per le terapie a cui era sottoposto.
Come diceva spesso: “Quando dovete fare qualcosa, prima fate funzionare la testa e poi i piedi. La testa ragiona meglio e sa dirigere pure i piedi con la sua volontà.”
E la testa, a lui, aveva sempre funzionato benissimo.
Scendemmo; e tornando raccogliemmo entrambi i prelibati candidi e sodi prataioli, oltre alle gustose e vanitose lepiote, splendidi naturali ombrelli dell’artigianato della natura.
Infatti, Leone magistralmente mi condusse dove si sarebbero senza alcun fallo trovati.
…
Passarono mesi. Giunse l’inverno. Ricevetti gli abituali auguri di Leone per le festività. E decisi di tornare a fargli visita.
Era una gelida giornata di gennaio quando mi misi in cammino. Una nevosa scura nuvolosità incappucciava i monti e rendeva cupo lo specchio lacustre che, pigro e rannicchiato in anse, fiancheggiava la strada statale della valle. Non s’era però ancora ghiacciato, complici le gradevoli giornate quasi primaverili che avevano fatto sbocciare nei boschi lo splendido e vanitoso bianco elleboro; e anche le prime intrepide primule gialle. Il corbezzolo non aveva ancora tinteggiato di giallo oro i suo scarni umidi rami, protesi in fervida penitenziale preghiera sulle fredde acque del lago.
In alto, sui monti, quando la pregnante nuvolosità si ritraeva un attimo, piante e pascoli apparivano già imbiancati di un candido e leggero strato di neve, indice sicuro che lassù nevischiava già da ore. Mentre in basso, nonostante il mezzodì, l’oscurità regnava assoluta, costringendo le rade auto in movimento a procedere a fari accesi.
Il pensiero mi corse a Gini, che lassù stava romito con la mandria, già avanti negli anni e debilitato nel fisico. Ne ebbi misericordiosa compassione e dolorosa apprensione.
Trovai Leone disteso in casa. Era un po’ debilitato, essendosi sottoposto il giorno prima alla periodica e settimanale terapia. Tuttavia era lucidissimo e di ottimo spirito.
Stava in compagnia di Larco, venuto anch’egli a fargli visita, ch’era stato in passato un suo valido collaboratore in diverse missioni.
Conversavano sui loro trascorsi operativi e di come molti comprimari di Leone se ne fossero da tempo già andati uno a uno quasi alla chetichella e in modi diversi, a cominciare dal gallo Barbagianni, seguito poi da vecchio Cespuglio, da Albione Ferrata, da Aperitivo e pure da Beduino. Oltre ad altri minori, ma non per questo meno importanti, come Gobbo e Duce.
Pur in mia presenza Larco ricordò a Leone la sua celebre frase, quando via etere intimò perentoriamente a vecchio Cespuglio di fermasi: Mr. President, invites her to immediately stop everything. This is the varying operation five.
Al ché Leone rise divertito, perché non volle mai imparare l’inglese. Diceva che per farlo avrebbe dovuto morsicarsi tuttora la lingua, che peraltro già aveva delicata.
Il discorso passò poi sugli avvenimenti della Foresta, giacché Cola, un ruspante e grezzo pollo del Mugello, era balzato ultimamente e dopo vari tentativi agli onori della cronaca politica, favorito in ciò dai media, sempre pronti a creare audience anche con gli idioti.
Cola, infatti, voglioso di diventare Nembo Kid, s’era accordato su una questione elettorale con Bausia, ancora assai dolorante per essere caduto dal cavallo impazzito di Caligola, sul quale aveva voluto a tutti i costi montare per fare il Cavaliere nonostante avesse le gambe corte, adatte solo a cavalcar pony.
Entrambi avevano dei trascorsi comuni, tanto che alcuni li indicavano come i 2 compagni di merende.
Come i ciechi dei Miserabili si sostenevano l’un l’altro, come argomentava astutamente l’ispido interessato Porcospino, filosofo lagunare di chiara fama nel suo Land. Di lui s’era appassionata pure una meretrice nobilitatasi nella borghesia d’assalto, la quale, per accrescere il suo acume, aveva assistito assiduamente a tante sue conferenze facendo pure la Veronica di turno nell’asciugargli il sudore del viso, e pure della … lingua, per tanto fine concionare. Per cui custodiva gelosamente, nella sua lussuosa residenza sul lago Lario, la preziosa reliquia, ch’era poi null’altro che il suo fazzoletto di bisso sul quale era rimasta impressa l’effigie del filosofo imbonitore. Con questa si dilettava lo sguardo appassionato quando costui non gli faceva visita. Da ottima cavalla qual’era era in collisione da tempo col suo cavaliere; perciò cercava … gradevole e intelligente compagnia.
La situazione nel Land di Itachia era assai confusa e gli animali non sapevano più a chi credere. Tutti facevano fame e miseria, eccettuati coloro che stavano tranquillamente seduti a gozzovigliare nella Dieta di Roncaglia.
Pelatone, che da un po’ di tempo aveva assunto il comando con la benedizione del Nano del Titolo - sempre intento a sgranocchiar Loacker, lanciando nell’aria lo stridulo suono alpino tirolese -, di sé mostrava solo la testa disadorna e nessun valido concetto, tanto che i pasticci che creava erano più delle sue parole, che peraltro non erano poche.
Il suo comare Cola lo incalzava, convinto che a breve pure lui si sarebbe seduto nella Dieta, scippando in aggiunta la poltrona a Pelatone. Il quale, da fervente druido qual’era, intendeva ritirarsi a meditare in Cattedrale, anche se questa non aveva né tetto, né fondamenta. Era solo … aria fritta.
Come diceva quel druido, infatti, erano tutti fratelli e compagni in parole, ma non nella pignatta. Quella cercavano di sottrarsela l’un l’altro, secondo il Vangelo di Giuda Matteo, che però alcuni affermavano fosse … solo apocrifo.
Beccamorti da tempo era stato costretto al ritiro, lasciando dietro a sé solo macerie. Per ripicca si sdegnò e si ritirò (eufemismo) sull’oblioso Aventino per palese tradimento dei suoi.
Patatona, che a parole lo avrebbe gradito a suo tempo volentieri come genero accondiscendente, aveva cambiato idea. S’era infatti accorta che teneva due Spada. La prima, a cui era affezionato dalla gioventù, la usava per trescare il foraggio; l’altra, nobile borghese, la teneva come rappresentanza, anche per i “danè”, che non guastano mai, come s’usa di solito dire in Brianza.
Tutti, infatti, s’erano accorti che non era un salvatore, bensì un carnefice pure di quarta falciata: uno di quelli sopravissuti ai tribunali dell’Inquisizione di antica memoria; tribunale che, tuttavia, qualche superstite togato ancora conservava, pur con la chioma fulva e con la sottana.
Leone osservava divertito l’evolversi della situazione, anche perché riteneva Cola - da esperto studioso e analista qual’era - un perfetto idiota ciancione. Essendo, solo in ciò, in sintonia concettuale con la ciminiera Baffino.
Costui, a suo tempo, aveva cercato di fare faville dopo aver detronizzato Tetù; ritrovandosi però a veleggiare in mare aperto e burrascoso, dove il rosso era tanto soverchiato dal blu da scomparire pure sotto l’ombra dell’albero maestro, fatto di rugosa e ombrosa quercia.
Cola non piaceva a Baffino, tanto che costui lo definiva un rozzo saputo ignorante. Forse perché Cola lo avrebbe spianato volentieri col bulldozer, per poi consegnarlo al demolitore.
Tra i 2 non correva buon sangue; come non correva tra Cola e la Bernarda. Era, costei, la metempsicosi d’una strega medioevale, arsa viva in Piazza dei Miracoli dopo aver subito un violento choc emotivo tra le rampe delle scale d’un ateneo ladrone. Là, infatti, si trovava nell’occasione del misfatto, anche perché i 2 borghi avevano avuto come fondatori due irascibili fratelli.
…
Passò altro tempo; e dopo lungo diluviare la natura decise ch’era l’ora d’agghindarsi leggera e variopinta e di accantonare i pesanti panni.
Perciò puntai dritto la prua nuovamente a … Leone, in uno splendido caldo meriggio, costeggiando con gaudio le ventilate rive del lago, che si crogiolava beato, con abito cobalto, ai caldi raggi del sole primaverile.
I pascoli in alto verdeggiavano smeraldo. E la foresta velocemente si rivestiva di turgide gemme, di fiori e di ombrose frasche, mentre il cervo lanciava di notte il suo lugubre bramito e la volpe ricominciava il suo vagabondare notturno tra i folti e incolti boschi di ceduo, tra faggi, castagni, olmi, frassini, abeti, aceri e noccioli, puntando all’aereo sentiero Burlù che dava accesso alla strapiombante valle, naturale conoide del monte.
Il ciliegio selvatico ingentiliva di bianco i fianchi boschivi del monte, in buona parte ancor disadorni del loro naturale piumaggio per le calvizie invernali.
Trovai Leone intento in cortile a provarsi le forze, maneggiando con destrezza la sega e la pesante ascia canadese, dandosi però le opportune pause perché i tempi non erano più – come sottolineava - quelli dell’età dell’oro.
Lo trovai in buona forma.
La luna piena di marzo era ormai prossima.
Leone non era stato l’ultimo arrivato; e il suo cocchio aveva varcato per ben 2 volte il legno di S. Damaso in passato, accolto in pompa magna dagli sgargianti e variopinti galli cedroni svizzeri, schierati per il canto d’amore.
I sommi Druidi avevano avuto bisogno del suo ingegno, visto che con il continuo solo orare non riuscivano a cavare il ragno dal buco, forse - come insinuava sarcasticamente Leone - per la loro scarsa fede. Vi era infatti per loro grande bonaccia e il … “vento” non spirava affatto sulle loro teste stempiate, solo parzialmente celate dagli zucchetti che soli Deo tollitur.
Benché amante dell’arte Leone non ebbe, allora, il tempo se non per sbirciare velocemente, passando, i dipinti di Raffaello Sanzio, di Pietro Bonaccorsi Perin Del Vaga e di Baldassarre Croce, commissionati a suo tempo da Ugo Boncompagni[1], Giuliano della Rovere[2] e dal longobardo Giovanni Angelo Medici[3], intenti, ognun a modo loro, a maneggiar di diritto, di spada, di filosofia e medicina, essendo poco inclini a cingersi solo di zucchetto.
Sicché Leone aveva conosciuto molta gente. Gente che stava nelle stanze del potere. Pure oltre il grande mare e non solo in Eustachia.
Tuttavia per questi non nutriva grande simpatia, perché – come diceva spesso – “Il dono del potere non l’hanno, ma lo usurpano provvisoriamente solo per affidamento. Perché un conto è il possederlo e un conto è il credere d’averlo”.
Si era nei giorni in cui in Itachia era giunto il Bisonte bullo, intento a trastullarsi assai con amene dichiarazioni di sperticate lodi a tutti, considerato che in pochi minuti non avrebbe potuto capire molto di più del semplice saluto. Ovviamente non sapeva fare … altro.
Costui aveva poco del bisonte e molto di quel bipede che dell’umanoide ha. Tuttavia amava le teste di legno, tanto da volersi abboccare col burattino Cola - che tanto imitava Pinocchio in ciance, confusione, pressapochismo e … bugie -. Forse perché in parte si assomigliavano nel Yes we can.
La parola can, infatti, nei Lands longobardi equivaleva solo a far le cose da … cani, per la serie: can che abbaia non morde.
Mentre si sorbiva il tè giunse in breve visita Gitré, con i suoi immancabili occhiali da cattedratico flemmatico un po’ presbite (πρέσβυς).
Era venuto per il lungo silenzio pubblico di Leone, anche se i rapporti tra loro non erano mai stati continui, ma dettati dalla necessità del momento, di norma … politica. Infatti era portatore d’una specifica richiesta.
Gitré, un tempo ai vertici istituzionali anche di Eustachia, da parecchio se ne stava dignitoso nell’ombra. Appresi dal discorso che pure lui nutriva una scarsissima considerazione per Cola. Anzi, era molto preoccupato dal suo interventismo sventato, perché ciò avrebbe causato, a suo parere, danni rilevanti alla struttura istituzionale ed economica, poi difficilmente recuperabili per l’estenuante crisi che coinvolgeva i Lands.
La sua politica economica era stata ispirata in parte ad un oculato status quo, in attesa che la situazione migliorasse. Politica poi stravolta da Beccamorti, con i danni ingenti ora riconosciuti da tutti. Ma purtroppo il mondo non sempre va diritto, assai spesso al rovescio.
Dopo i convenevoli Gitré venne al sodo. Avrebbe gradito che Leone si impegnasse in un determinato progetto comune, che in verità avrebbe abbisognato di uno studio lungo e complesso.
Leone fece un breve ragionamento, opponendo un cortese diniego all’invito. Così parlando:
“Come lei sa non sono al meglio. Non lo sono per molteplici ragioni: fisico, mente, età, salute, resistenza, volontà e speranza.
Non sono mai stato colui che spera; alla speranza ho sempre preferito la certezza: quella della mente, del decidere e della volontà. Voglio essere solo realista.
Ora la mia speranza è totalmente morta, semmai fosse prima esistita. Perché non ho più progetti specifici da voler eseguire. Voglio solo vivere nella tranquillità la mia vita, gustando i momenti e le bellezze che questa ogni giorno offre: famiglia, moglie, affetti, amicizie.
In ciò non ha peso se in passato ho dato tanto o poco. Quello è solo passato. Esiste nella realtà storica, non in quella reale presente. È il passato che non ritorna, che non è più attuale né nell’aspirazione né nell’azione. È stato cancellato dal mio attuale modo di essere.
Il venerdì storico è morto; resta solo quello speculativo.
La semplicità è un grande dono e, simultaneamente, anche un grande pregio. Per viverla non c’è bisogno di molto, ma dei semplici atti di cui l’esistenza giornaliera si ciba.
Ed è appunto sulla base del mio attuale modo di essere che gioisco delle piccole in apparenza, ma grandi nella realtà, gioie della vita giornaliera: il non avere impegni né progetti, il fare ciò che ci si sente di fare al momento, il potersi fermare a riposare, dormire, chiacchierare, giocare come un bimbo, pensare, scrivere, esistere … nella vera realtà della vita: quella di sapere d’esserci anche nel dolore, nella debilitazione e nella sofferenza della propria limitatezza contingente.
Il mio venerdì speculativo è questo: vivere come ogni altro essere, nella certezza della tranquillità, distaccandomi dal venerdì storico che implica motivazioni e giustificazioni a carattere sociale e politico.
L’uomo è un essere ragionevole e socievole. Dunque ha bisogno di vivere in una società. Ma vivere nella società non significa essere inglobato e fagocitato dalla stessa.
La ricchezza della persona sta appunto in questo: essere un’individualità diversa dalla molteplicità della società, facendo bene attenzione a non diventare molteplicità.
Perché? Semplice: se diventiamo molteplicità facciamo nostre tutte le problematiche della società, perdendo in questo modo la nostra individuale unicità. Il problema è sempre un assillo, specie se non si è in grado di risolverlo.
E la mia unica occupazione attuale è quella che mi sono scelto consapevolmente, abbandonando tutto il resto: vivere nella semplicità di ogni giorno nella mia libera unicità del poter riposare.
È tutto!”
Sesac
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