Gli “ismo” linguisticamente possono essere considerati delle degenerazioni concettuali, tese a imprimere sul corrispondente concetto originale una valenza diversa, preponderante in uno specifico periodo, lungo o breve che sia.
La politica, specie nazionale, è assai più lenta della società, non tanto a recepire i problemi, bensì a farli propri risolvendoli.
Qua non si vuole parlare di politica – se non indirettamente – ma solo di evoluzione comunicativa e operativa: di una tendenza sociale.
Il crollo della prima repubblica, a seguito di Tangentopoli, stava lasciando un vuoto spaventoso di credibilità e di leadership.
Questo vuoto è stato colmato per circa 2 decenni da una figura manageriale e imprenditoriale di successo: Berlusconi.
Usando le strutture produttive e di capitale proprio, il Cavaliere ha costruito in pochissimo tempo un consenso emotivo che lo ha portato, con opportune alleanze, al potere.
L’uomo ha inteso e dato all’assetto di vertice governativo un piglio manageriale, scegliendosi le persone che riteneva più opportune, molto spesso a lui più fidate.
La sua conquista del potere si è legata soprattutto all’assunto inconscio dell’elettore: un uomo arrivato è capace, perciò in grado di risolvere i problemi dello stato, dunque anche nostri; la sua capacità di produrre ricchezza, lavoro e occupazione non può che far bene ad una nazione. Una considerazione meritocratica basata sulla realtà.
Ovviamente non si è guardato troppo per il sottile: valore morale e storia dell’uomo, come e perché ha raggiunto il successo, approfondita analisi della verità della comunicazione mediatica, interessi personali sottaciuti ma comunque anche palesi.
Questa modalità operativa può, appunto, essere considerata il berlusconismo: un nuovo modo di comunicare idee alla gente, di realizzarle e anche di viverle in prima persona. In pratica un modo diverso e quasi innovativo di fare politica, propria di una società in evoluzione che cerca nuovi stimoli e ideali da rincorrere.
Tra i chiaroscuri del berlusconismo, non ancora del tutto tramontato, vi è il successo individuale – raggiungimento soprattutto di un elevatissimo status quo personale –, emotivamente riversabile a cascata sull’elettore: belle donne, disponibilità economica quasi inesauribile, lusso, agiatezza, capacità di raggiungere gli obbiettivi prefissati, diverso modo di intendere la vita pubblica e privata, concessioni personali alla morale comune, alternanza tra lavoro e divertimento, convincimento che mammona possa sopperire ad ogni bisogno istintuale e sociale.
Un vero jet set … politico e sociale.
Il berlusconismo non sarebbe stato possibile senza il boom economico dei decenni precedenti, capaci non solo di variare l’assetto collettivo dei diritti etici e sociali di un popolo, ma anche di indebolirne le difese, soprattutto morali. Il benessere, infatti, sposta molto spesso la personale solidarietà sociale a quella statale: una delegata cessione di doveri e una pretensiosa acquisizione di diritti.
Il berlusconismo, tuttavia, ha politicamente retto finché la situazione economica nazionale ha potuto far fronte ai suoi impegni. È andato in crisi quando la crisi globalizzata ha piegato – anche con cause esterne – i bilanci degli stati, soprattutto a fronte della speculazione selvaggia sullo spread.
Il tramonto del berlusconismo è, perciò, dovuto più a fattori esterni che a demeriti propri.
Si è creato pertanto un vuoto politico e parlamentare (maggioranza debole) sulla base del malcontento anche sociale, rimediabile costituzionalmente con altri assetti: elezioni o nuova maggioranza parlamentare.
Davanti a queste alternative, pur se in modo un po’ forzoso, è entrato in funzione il napolitanismo, cioè un’interpretazione personale e quasi al limite della costituzione sul ruolo delle prerogative del Capo dello Stato.
Si è, pertanto, creata una grande ammucchiata, dove le conflittuali e antitetiche forze parlamentari hanno dato forma non ad un Governo proprio – del Popolo -, bensì a quello “forzato” e subito del Presidente, anche perché l’alternativa delle elezioni non era detto che desse un nuovo e sicuro assetto al Paese.
A capo di questo governo si è chiamato Monti: un noto accademico titolato e soprattutto apprezzato per i suoi servigi anche da alcune importanti strutture politiche e finanziarie del pianeta.
Monti, assai diverso da Berlusconi, ha espresso il montismo: una saputa imposizione economica di rigore alla nazione, fatta di tagli e di penitenza, basata su una cultura teorica più che pratica, tesa ad avvalorare la concezione socio-religiosa integralista che i peccati prima o poi si debbano pagare, anche se tali peccati magari proprio non lo sono, ma sono dovuti a ben altri peccati della finanza globalizzata e d’assalto.
Tra il berlusconismo e il montismo più che un’evoluzione vi sono diverse connessioni: entrambi pur con disponibilità economica diversa sono degli agiati, perciò dei privilegiati, assai distanti dell’economia reale del proletariato di massa, sia dipendente che autonomo; anche se il primo viene dalla gavetta – self made man -, mentre il secondo dall’alta borghesia – class made man -.
Entrambi nel loro campo hanno avuto successo, perciò sono additabili come esempio alla massa: il primo raggiungendo obiettivi per esperienza ed impegno personale, il secondo per cultura accademica.
Che è avvenuto? Ad una modalità direzionale pratica è subentrata quella teorica accademica, ancor più slegata e distante dalla realtà.
Se Berlusconi propinava ottimismo mediatico, Monti propina quello accademico. Il primo aveva un certo consenso popolare, il secondo solo coatto parlamentare; l’uno era soggetto a contestazione di parte, il secondo lo è a contestazione generale.
Entrambi intendono la premiership come loro esclusiva discrezionalità, esaltata dal ricorso ai coercitivi voti di fiducia, senza i quali Monti non avrebbe retto neppure un giorno, mentre per Berlusconi era se non altro una dimostrazione di forza più che di debolezza.
Sta di fatto che la situazione economica e generale del Paese è continuamente precipitata, tanto da diventare catastrofica. Basti citare il solo debito pubblico, ulteriormente dilatatosi di quasi il 10% dopo l’avvento del governo dei professori.
La cultura teorica ha fallito nella risoluzione dei problemi della nostra società.
La politica ora sta facendo sorgere un’altra tendenza sociale, raffigurabile nel renzismo.
Renzi - giovane, rampante, spregiudicato, arrivista, boy scout, guascone, rottamatore, garibaldino, azzardato, populista, sfrontato, imbonitore – vede la politica precedente non come una normale transizione nel tempo, ma come un sistema dannoso da buttare, anche se non ci ha detto, finora, con cosa intenda cambiarla.
Personifica l’avversità dei giovani – peraltro nettamente in minoranza nella nostra società anziana – ad accettare un futuro nebuloso e precario, già altrove manifestatasi con gli indignados, specie in quelle nazioni dove il degrado sociale economico si è prodotto più crudemente nella società o in parte di questa, portando seco forte disoccupazione, povertà e precariato.
I vari “ismo” sono in realtà un tentativo sociale più o meno democratico di correggere le storture sociali.
E se tra Berlusconi e Monti vi è una quasi analoga visione della gestione del potere, tra Berlusconi e Renzi vi è una sicumera comunicativa che tende ad abbindolare il seguace. Mentre tra Monti e Renzi vi è un’impostazione economica di visione della società che deve essere per forza corretta: per il primo con il rigore dei conti e con riforme strutturali – peraltro mai messe in cantiere se non in dettagli minimali -, per il secondo con un ricambio totale di uomini e di obbiettivi.
I primi due, tuttavia, hanno dei valori personali e di riferimento reali, il terzo solo un ideale da formulare e realizzare.
Il berlusconismo rischiava in proprio, finanziandosi da sé. Se le cose vanno male pure le aziende e gli interessi del premier ne subiscono le conseguenze. Vi è una correlazione logica tesa a difendere e a ampliare una situazione esistente.
Il montismo, invece, ha una referenza accademica, di notorietà e presidenziale. Ha solo la propria fama e sapere da tutelare, ma non intacca né il patrimonio, né il suo stipendio, specie se “a vita”. Se sbaglia – e ha sbagliato come da ammissione, seppur tardiva – i danni sono degli altri e non propri.
Il renzismo tende invece a sbilanciare la società verso l’ignoto, tutto da individuare, conseguire e costruire, rottamando tutto l’esperienziale precedente.
Berlusconi ha messo in gioco sé stesso e i suoi interessi, finanziandosi da sé.
Monti è stato finanziato dal napolitanismo politico e dall’incertezza della precarietà politica, oltre che dall’opportunismo partitico.
Renzi dovrà prima o poi rendere i dovuti … interessi ai suoi finanziatori, senza i quali non avrebbe fatto neppure un metro.
Come si vede gli interessi non tendono a scomparire, bensì a diventare sempre più coercitivi nella società, forse avvitando ulteriormente le gravi problematiche attuali.
Si sta passando da una realtà pesante e conosciuta ad una ribelle che intende costruire un mondo nuovo, anche se non sa dirci ancora quale.
La ribellione del ’68 aveva degli ideali, dei fini e degli obbiettivi chiari già definibili da perseguire: diritti da raggiungere e conquiste sociali da progressismo radicale.
Quella di Renzi un salto nel buio dell’entusiasmo populista per rottamare tutto l’esistente, non avvedendosi che chi la spinge, finanzia e sorregge degli obbiettivi di ritorno li ha: economici e di potere politico.
Sicuramente Renzi lo sa, a meno che sia uno sprovveduto idiota. Non ce lo dice per non tarparsi le ali.
Il suo rischio è uno solo: il tarparsi le ali da sé nel Pd se verrà sconfitto. Tuttavia state sicuri che il suo sistema potere, dopo una pausa si rifarà vivo in altro modo, magari sotto altre sponde, proprio perché i suoi finanziatori dopo il Palazzo della Signoria ambiscono a ben altri più importanti e succulenti obiettivi.
Il rampantismo giovanile tende ad aprirsi una via forzata verso sbocchi remunerativi.
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