domenica 28 novembre 2010

Tortellino Rana e i panzerotti.

Sesac, oggi, venne a farmi visita e mi consegnò questo racconto che pubblico assai volentieri.

Tratta di una giornata passata in altura, della vita degli animali e della foresta.

Sam Cardell

Tratto da “i Dialoghi” di Sesac

Tortellino Rana e i panzerotti.

La neve era già abbondante sui monti; e valicando lo spartiacque alpino, in una splendida giornata di sole, pareva di trovarsi seduti sul trono dell’Onnipotente, lassù tra le nubi, intenti ad osservare lo splendido scenario della creazione … invernale.

Chiesi al potente Terra di far riposare un attimo i suoi innumerevoli, focosi e scalpitanti cavalli; e lui mi accontentò accostando nel bianco spiazzo proprio poco dopo la dogana.

Scesi; e mi dilettai a volgere lo sguardo sul bianco e frastagliato orizzonte, girando lentamente su me stesso a 360°. Il termometro segnava –10°; tuttavia il sole riscaldava e la sola fida camicia scozzese, in lana e da alta montagna, mi rendeva anche troppo caldo.

La memoria tornò facilmente alle ardite creste dell’Himalaya e delle Ande, facendo correre il pensiero alle gesta giovanili, quando la preparazione era prioritaria al coraggio e la percezione del pericolo era preminente al desiderio di conquistare la vetta.

Davanti agli occhi mi si pararono all’improvviso i fantasmi degli sconsiderati, che, totalmente ibernati dalle polari temperature, là giacevano da tempo in attesa dell’Ade e si mostravano quando il potente vento dei monsoni, voglioso di accarezzare rudemente le impervie cime, scoperchiava la gelida e bianca bara per mostrarla, a imperativo monito, ai coriacei e arditi impavidi scalatori, intenti a violare le candide creste per raggiungere le agognate vette.

Li rividi uno a uno, quei meschini sfortunati, quasi rannicchiati su sé stessi come se stessero riposando. Alcuni avevano, nel momento del tragico trapasso, ripiegato la testa sulle proprie ginocchia, quasi vergognandosi di mostrare il pudore del proprio fallimento; altri si palesavano ancora eretti e irrigiditi, e con la fiera testa alta pur se appoggiata alla roccia di una nicchia qual riparo improvvisato, alcuni quasi dormienti e con il viso coperto da cristalli e i capelli incanutiti dal ghiaccio, altri con gli occhi spenti, grumosi, vitrei e gelidi ancora aperti, fissi nel guardarti immobili, imploranti il tardivo aiuto … da anni o da decenni.

A quelle quote è arduo avere pietà dei morti; e il buon stambecco, pur nella fatica di pensare dovuta all’ipossia, li salutava mentalmente, passandogli accanto, recitando questa preghiera di suffragio:

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.

Libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum : sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam, quam olim Abrahae promisisti, et semini ejus.

Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus. Tu suscipe pro animabus illis, quarum hodie memoriam facimus : fac eas, Domine, de morte transire ad vitam.

Requiescant in pace. Amen!”.

Mi riscossi dal torpore dei freddi e lugubri ricordi, pur se lontani, che rattristano sempre l’anima.

Indi Terra riprese la sua veloce cavalcata finché giungemmo nella Federìa.

Il calore dell’accogliente baita, frammisto all’odore del resinoso cembro, ci avvolse appena varcato l’uscio; e superato il piccolo atrio frangi freddo ci ritrovammo nell’ampia sala sovrastata dall’artistico e monumentale crocefisso ligneo.

Il fuoco ardeva gioioso e scoppiettante nel camino frammischiando i suoi rossi bagliori ai raggi del sole che invadevano dalle finestre poste a sud, illuminandola, la grande stanza.

Attorno alla grande e lunga tavola vi erano diverse persone: amici da tempo conosciuti e facce nuove.

Ovviamente non mancava Leone che stava intrattenendo la valida e colta compagnia.

Dopo i convenevoli di rito riconobbi tra gli astanti due noti professori, esperti d’economia e di quella terra nativi, nuovi al gruppo ma che conoscevo di fama: Malaparte e Gitré.

Il primo pareva un’acciuga affumicata alla La Pira, di cui sembrava quasi la copia sputata. Non molto alto, magro assai, viso smunto, occhiali spessi sopra occhi incavati, testa incassata tra esili spalle, l’alta fronte scoperta da calvizie incipienti, pensiero profondo, discorso omogeneo, risposta ponderata e con abbigliamento non eccessivamente curato.

Il secondo rubicondo e florido, vispo anche se quasi a occhi sonnacchiosi dietro gli ampi occhiali, parlata in parte anomala e vocalizzazione esterofila, impegnato assai nella gestione della foresta, era impeccabile nell’elegante suo vestiario.

Aveva la faccia da eterno furbetto, propria di quelli che con i loro educati e calmi modi di fare posseggono la convinzione di poter sempre istruire … l’alunno tenendolo sotto pressione.

Ovviamente mi meravigliai di trovarmeli difronte, ma non osai porre domanda alcuna, per non infastidire Leone, sulla causa della loro presenza.

La discussione, appresi, verteva sul delicato momento politico della foresta, ulteriormente aggravato dalla grande recessione che da tempo coinvolgeva tutti gli animali.

Quando giunsi il ragionamento si era già molto addentrato nella tematica; ma, con un po’ di attenzione, riuscii facilmente a ipotizzare anche ciò che non avevo potuto sentire.

La situazione al vertice era instabile e precaria e la gestione della foresta era praticamente paralizzata da alcuni che, più che fare l’interesse di tutti, facevano il comodo loro vestendo le vesti dei pirati dei Caraibi, cercando di impadronirsi, o di affondare, la nave dell’odiato Bausia, capitano di lungo corso che nella vita s’era arrangiato assai a modo suo, prima d’ottenere il comando del galeone.

Leone, contrariamente al solito, s’era assunto il compito di moderare il discorso, dando ordine agli interventi e focalizzando alcune tematiche, divertendosi assai nel suo nuovo ruolo e stuzzicando spesso gli interventi dei due nuovi ospiti.

Nella Dieta di Roncaglia vi era, infatti, molta confusione, perché Tortellino Rana da tempo s’era messo in testa di fare a modo suo, da idiota politico qual’era, intento ad occupar sedie per non lavorare.

In effetti, idiota era solo nella concezione politica individualista e tali faceva passare tutti gli altri con il suo continuo fare e disfare la tela di Penelope: ora sì, tra poco no e poi, forse, anche ni.

In gioventù s’era pasciuto e acculturato sui testi dell’autoritarismo dittatoriale del secolo precedente, che tanto danno e lutti aveva creato ai popoli della foresta.

Ora, nonostante facesse intendere d’aver rinnegato il passato, era, in effetti, peggio … di prima.

Il suo aspetto non era dei più rassicuranti e il suo viso era ciò che di più sordido si potesse trovare in un politico: sembrava, dietro quegli occhiali da falso cultore e difensore della legalità costituzionale, tesi ad ingentilire quella mascella da cane mastino in quel viso squadrato, la mummia del tradimento e la sfinge della menzogna – come annotò l’esperto Leone –.

Nella vita era sempre stato inaffidabile; e benché declamasse spesso la difesa di molti valori sociali, in privato li aveva sempre vilipesi.

Nella maturità non aveva il senso della liceità e neppure quello dell’opportunità, accompagnandosi spesso a una giovane femmina intenta a frequentare con grande profitto la scuola di Teofrasto.

Era, comunque, assai furbo e aveva preso lezioni dalla volpe che non era riuscita a cogliere l’uva … acerba.

Quasi sicuramente non era mai stato istruito nella cultura sapienziale dei racconti di Fedro e, essendo una rana non conosceva la favola della rana e del bue. Tuttavia, pur essendo rana, voleva diventare grande, gonfiandosi, come un bue: la sua massima aspirazione era quella di sedersi in cima all’albero più alto della foresta.

Perciò, per riuscirci, brigava e seminava zizzania nella Dieta trovando alleati pure tra i suoi nemici di sempre, tra i quali primeggiavano Burino, Bordello e Sanmarzano; ma, come si sa, nella Dieta il confine tra amico e nemico era assai labile.

Forse aveva letto in gioventù il Principe di Machiavelli e in cuor suo vagheggiava di immortalarlo nella fase finale della sua vita.

Burino era un rozzo provinciale della foresta tropicale, trasferitosi per far carriera nelle selve boscose poste tra i limiti della pianura e gli alti monti. In verità prima era andato pure anche nelle foreste più a nord, ma per motivi pratici di troppa fatica, a lui non consona, aveva puntato nuovamente a sud.

Il suo linguaggio era da semianalfabeta, i suoi modi da scopritore dell’acqua calda, la sua vita privata in parte sulla falsariga di Rana, la sua cultura inesistente da populista e giustizialista cowboy.

Espatriato con le pezze al culo, scalando con tenacia le classi scolastiche le pezze le aveva messe al posteriore di altri, anche se nel mettersi il vestito nuovo s’era dimenticato di cambiarsi anche la camicia.

Per cui era rimasto sempre quello di … prima.

Bordello, invece, in parte aveva ricalcato l’iter di Rana, comprese le femmine. Si fregiava di praticare i dettami dei Druidi, anche se nella realtà li vituperava.

Aveva l’aspetto del bullo di radura e negli anni aveva perso la fisionomia del Cicciobello per vestire quella del duro e puro che, in effetti, non era.

In passato era saltato di palo in frasca per sfuggire agli impegni pattuiti e, nel farlo, s’era ammaccato cascando di brutto, salvando la sua carriera per un’opportunistica alleanza e per una fortunata inezia. Cosa di cui il Leone s’addolorava assai per averla quasi imposta ad Orso.

In questo atteggiamento ondivago era stato il precursore di Rana e spesso meditava di fare il figliol prodigo. Ovviamente non quello pentito che torna per essere nuovamente famiglia, ma solo quello che ricompare per speculare nuovamente cercando di farsi passare per necessario.

Sanmarzano era tutto minio dalla testa ai piedi e non per nulla portava quel nome.

In passato era stato pure console della foresta quando Tetù, suo amico, aveva preso per breve tempo il potere. Tuttavia aveva fatto tali danni all’economia che le conseguenze apparivano chiare pure ora.

Nella sua città natale non era profeta in patria ed era anzi assai mal visto; infatti, il suo raggruppamento, in caduta libera con animali e con idee da tempo, risultava solo numericamente terzo, sopravanzato di gran lunga da quello di Lama.

Nel suo raggruppamento stava prendendo piede il giovane Cola che si dava da fare per rottamarlo, unitamente a molti altri; ma lui, con quella faccia da tonto parlatore che si ritrovava, faceva lo gnorri tra una batosta e l’altra, puntellandosi al suo predecessore che, nonostante l’età, portava ancora il ciuccio in bocca.

In gioventù pare avesse voluto intraprendere la carriera di pompiere, ma forse covava ancora questa ambizione visto che spesso si allenava nell’uso delle scale, in parte imitato da Burino.

Aveva una personalità ambigua e non si capiva se la sua vera aspirazione fosse stata in gioventù quella di Grisù il pompiere.

La situazione era critica e Gitré non lo nascondeva. Data la situazione – affermava - poteva saltare tutto il banco nonostante i continui moniti, inascoltati, del Nano del Tirolo.

Perciò il pericolo era grave, anche perché Patatona in casa sua non sapeva che pesci pigliare per 2 motivi: il primo era che oltre alle forze di gravità, data la sua mole, non conosceva altro, il secondo era perché era continuamente strattonata da chi le stava accanto.

Perciò si procedeva a vista verso il baratro, sia in molti Land della foresta, sia nella foresta tutta.

Tra una discussione e l’altra giunse l’ora di pranzo e si abbandonarono i fervidi discorsi per dedicarci al cibo.

La mensa era varia e si poteva spaziare, dopo l’antipasto, tra i tortellini in brodo o al sugo con funghi, oppure ai panzerotti alla panna.

Per secondo, invece, tutti accettarono ciò che il convento passava in ossequio all’austerità economica imposta da Gitré: salamella al forno con patate, cipolle di Tropea alla cenere e polenta.

Infine torta di mele amburghese alla Leone, perciò con cognac e latte, prima del tradizionale caffè.

La discussione riprese e proseguì a lungo; e i dotti interventi degli astanti si susseguirono sotto l’attenta regia di Leone, che non permise al dibattito d’uscire dal seminato: finanza, economia, debito sovrano, bilancio, investimento.

Ovviamente Gitré e Malaparte fecero la parte del leone, visto il loro ruolo pubblico, pur incalzati dalle intuizioni degli altri.

Il discorso, infine, sfociò sulle possibilità politiche future e sulle prospettive che la precaria situazione attuale rendeva verosimili.

Quasi tutti ammisero che era assai probabile che si dovesse ricorrere a breve alla formazione di una nuova Dieta, onde superare lo stallo attuale, anche se la situazione economica avrebbe consigliato ben altro, perché era innegabile che con Tortellino Rana non si potesse continuare oltre.

Alcuni sostennero che la possibile convention forse non avrebbe risolto il nodo di una maggioranza netta; ma alla fine Leone così parlò:

La situazione è tale che esige un chiarimento e questo chiarimento non lo può dare il tergiversare continuo e equivoco di Tortellino Rana. Perciò serve una nuova Dieta, frutto di una convention della foresta.

Poi, comunque vada, si vedrà il risultato ottenuto.

Vi sarà una netta maggioranza in grado di governare compatta? Bene, problema risolto!

Non vi sarà e saranno necessarie convergenze tra gli opposti blocchi? Si vedrà di realizzarle, anche se ciò non sarebbe il massimo per le necessità del nostro tempo.

Perciò si proceda senza perdere altro tempo, coinvolgendo tutti gli animali della foresta; perché davanti ad una simile crisi è necessario che tutti si assumano le proprie responsabilità e dichiarino come si voglia procedere.

La comunità della foresta dirà chi tra i contendenti ha tradito gli impegni presi e chi li ha mantenuti, anche se, a dire il vero, molti animali possono essere culturalmente, perciò politicamente, manipolati.

Il vero nodo da sciogliere è quello di creare subito un vero intangibile programma su cui associarsi, perché è su quello che si costruirà il nostro futuro; diversamente si perirà.

Tutti, ovviamente, sanno vedere i problemi che abbiamo, tanto nell’attuale maggioranza che nell’opposizione. Per fare ciò basta avere gli occhi e non vi è bisogno di troppa intelligenza.

Questa, tuttavia, serve per trovare i rimedi agli impellenti problemi che non possono attendere oltre: troppo tempo si è già sprecato.

Le idee ci sono, basta avere il coraggio di farle proprie, dichiararle pubblicamente, inserirle nel programma e cogliere poi la volontà degli elettori, dicendo la vera situazione economica e sociale senza nasconderla, perché nulla sarà più come prima.

Di certo vi è che bisognerà ridimensionare il nostro status sociale e vincolare il capitale disponibile al territorio, ridistribuendo quindi la ricchezza perché serve sia un nuovo modo di governare che un nuovo modo di investire, perciò di fare impresa.

L’economia massimalista è saltata, ma anche quella capitalista globalizzata – il liberismo - è morta: resistono solo le nefaste conseguenze del non aver saputo regolamentare, perciò impedire, l’uso e l’abuso di certi prodotti finanziari.

Credo che, considerando tutti i debiti mondiali pubblici e privati, oggi la ricchezza del risparmio non esista più, immolata da tempo sull’altare del consumismo sfrenato.

Però vi sono cittadini benestanti e altri indigenti: i primi pochi, i secondi molti.

Vi è inoltre la povertà nazionale, quella dovuta agli ingenti debiti sovrani che nella realtà brucia anche il benessere dei pochi.

A ciò vanno aggiunti i grandi debiti della cartolarizzazione delle finanziarie o di molte società che hanno investito malamente, spesso speculando e non prevedendo correttamente il futuro prossimo.

Questa massa imponente di debiti è sicuramente superiore ai risparmi dei pochi, come Gitré prima elencava anche a livello internazionale.

La nuova ricchezza da produrre non potrà fare a meno dal considerare prioritarie alcune scelte sociali: il lavoro, l’occupazione, l’investimento radicato sul territorio, il distretto produttivo nel connubio reale tra persona ed azienda, il servizio del fare politica come necessario atto valoriale civico e non individuale.

Perciò basta mestieranti, perché non si ha alcun bisogno del loro idiota interloquire inteso come professione. Serve spirito di sacrificio e dedizione, usando tutti ciò che possiamo dare: idee, intelletto, volontà di risorgere, lavoro, manualità e soprattutto, il sacrificio sociale d’essere popolo.

Perché se manca questo allora vi saranno solo due classi principali: i privilegiati e i servi.

I salvatori della patria, della costituzionalità e i cavalieri bianchi non esistono; esistono solo coloro che ce lo vogliono far credere per poter continuare a fare il loro interesse personale.

Ma costoro sono i soliti privilegiati che tali vogliono rimanere, sia che siano manager, sia che siano politici.

Credo che basti e di aver espresso bene il conciso riassunto del nostro dibattito odierno.”.

Il sole volgeva all’orizzonte, arcuandosi sopra le creste imbiancate, finché queste cominciarono ad assumere un tenue colore rosato.

Si era nel cuore delle Retiche, ma l’aspetto era proprio delle Pennine.

Si passò al tè, data l’ora, e molti lo sorbirono guardando lo splendido paesaggio che il buon Dio, quello artistico che sovrastava la grande tavola della sala, ci aveva donato.

Lassù, nell’accogliente baita delle Federìa, non ci aveva donato solo un paesaggio fiabesco; ci aveva donato anche valide idee per il futuro.

Ora bisognava però metterle in pratica in ossequio al proverbio sapienziale aiutati che Dio ti aiuta.

I tortellini e i panzerotti del pranzo erano già digeriti.

Chissà se pure gli animali li avrebbero … divorati alla nuova probabile convention della foresta.

Sesac

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