lunedì 22 novembre 2010

Vecchie ricette per problemi stantii.

Nell’era Bush il tanto vituperato Alan Greenspan consigliava al suo presidente, in caso di crisi, di far piovere sul popolo americano miliardi di $ a getto continuo.

La sua politica monetaria, come presidente della Fed per 2 decenni, venne bollata dai suoi detrattori e dall’amministrazione successiva come la causa forzosa della crisi finanziaria attuale.

Questa modalità operativa non fu comunque l’unica causa; ma, come si sa, il capro espiatorio va di norma ricercato nei predecessori, specie se l’esplodere della crisi non avvenga sotto la presidenza Greenspan, ma sotto il suo successore Ben Bernanke.

L’era Obama non ha fatto molto meglio; e l’ultima mossa di quantitative easing della Fed di 600 mld di $ per rastrellare sul mercato assets di titoli americani, per ironia della sorte va nella stessa direzione del mantra economico di Greenspan.

Proprio come il fondo Bce, da 750 mld di € per sostenere le economie Ue a rischio default, corre sullo stesso binario parallelo, anche se il pericolo, talora, più che coinvolgere un singolo debito sovrano è dovuto all’allegra gestione delle banche di una determinata nazione che, come si sa, spesso seguono e fiancheggiano la politica economica dei vari governi.

Quindi nulla di nuovo da 4 anni sotto il sole … americano, nonostante i … bostoniani e la finanza creativa virtuale.

Il discorso sull’efficacia di questa manovra da 600 mld di $ è molto sottile; oserei dire quasi perverso nelle intenzioni.

Immettere una tale imponente liquidità sul mercato può sì saturare momentaneamente il mercato, dare impulso ai consumi, favorire la liquidità di investimento, indebolire il $ al Forex, dare ossigeno all’esportazione, abbassare il costo delle materie prime in un’era monocratica monetaria e dare sicurezza ai mercati mobiliari.

Tuttavia, di riflesso, eleva ulteriormente l’indebitamento pubblico e privato, procura inflazione e destabilizza l’economia interna, drogandola invece di purgarla.

In pratica sposta nel tempo il problema; ma, invece di risolverlo, lo aggrava ulteriormente.

Il debito sovrano americano si sta incrementando a percentuali greche e alcuni azzardano l’ipotesi che per il 2014, procedendo di questo passo, possa superare anche il 150% del Pil.

E tale importo, se sommato al grande debito privato degli States, porrà l’economia U.S.A. a vero rischio default, sulla strada di un mesto declino economico internazionale, trascinando seco molte altre economie.

Perché non è l’aumento del Pil, spesso in crescita anche per l’inflazione monetaria, che crea il benessere degli stati, ma l’investimento reale che si fonda sul risparmio acquisito: quell’investimento che basato sul risparmio reale e non virtuale è in grado di produrre vero reddito e non ulteriore debito.

Siamo, tuttavia, in un mondo consumistico globalizzato, dove l’unico indice di riferimento è, erroneamente, la crescita del Pil; e con questo si pensa che possa crescere anche il benessere del cittadino.

Quale benessere? Non quello reale, ovviamente, considerata l’insoddisfazione generalizzata e la grande preoccupazione nel futuro che pervade i popoli occidentali, assillati non tanto dall’eventuale mancata crescita del Pil, bensì del poter vivere con una certa sicurezza il futuro prossimo.

La Cina, che governa internamente la propria moneta non sottoponendola alla fluttuazione dei mercati, è assai preoccupata dall’inflazione che è salita al 4,5% e dal consumismo che si sta sviluppando al suo interno.

E val la pena notare che il salario medio dell’operaio cinese si attesta su circa 1/8 di quello occidentale.

Teme, altresì, che una possibile frenata economica/produttiva possa far esplodere il rischio mutui in modo incontrollabile.

Appunto per questa ragione pare che la dirigenza cinese abbia intenzione di proibire alle società straniere l’acquisto di immobili, onde frenare il flusso di capitali; e, nello stesso tempo, procedere ad una nuova stretta monetaria per frenare i consumi interni.

La politica monetaria cinese è pertanto quella di limitare al massimo la migrazione dei capitali instabili globalizzati.

A G20 di Seul, nonostante l’ottimismo di facciata, le regole economiche e finanziarie per il futuro sono state appena abbozzate, bloccate da recriminazioni reciproche specie tra Cina e U.S.A.; la prima occupata a mettere in discussione l’ultima manovra Fed (considerato che buona parte del debito degli States è finanziato proprio dalla Cina), la seconda tendente a vincolare l’Yuan al Forex, perciò alla fluttuazione dei mercati finanziari.

Dall’inizio della crisi finanziaria la fluttuazione isterica €/$ è spesso slegata dai dati macroeconomici, considerato che i mercati oscillano non sull’economia reale, ma solo sotto la spinta della speculazione delle grandi aziende finanziarie che possono muovere giornalmente imponenti masse valutarie in barba alle banche centrali, fidando spesso anche su leve spropositate.

E la stessa sorte tocca ai titoli dei vari stati, spesso attaccati senza una valida ragione precisa se non quella speculativa.

I conti statali irlandesi, ad esempio, sono nella norma dei parametri europei ed a soffrire sono solo le banche locali che rischiano il default, per salvare le quali il governo ha sforato i parametri debito/Pil; pur tuttavia i titoli irlandesi vengono attaccati brutalmente dalla speculazione, intenta ad innescare una turbolenza sull’€ che possa essere loro redditizia, magari coinvolgendo a catena anche i titoli degli altri paesi “P.I.I.G.S”.

La manovra Fed da 600 mld avrebbe dovuto indebolire il $; ma a pochi giorni di distanza a flettere nel rapporto è l’€, finché questo non avrà raggiunto dei supporti di resistenza (meglio sarebbe dire di guadagno) che possa far invertire la tendenza, spostandola poi sul $ in una continua altalena speculativa.

Il supposto contagio, con annessa turbolenza su €/$, ha perciò solo come scusante il titolo di un singolo stato Ue; ma, in effetti, punta a destabilizzare tutti gli altri, specie quelli che si basano sul debito sovrano eccessivo e che sono stati piazzati in buona parte all’estero, quindi fuori dal controllo della rispettiva banca centrale. Il problema non è perciò locale, bensì di sistema.

Non è il default vero a cui le grandi finanziarie tendono, ma il deprezzamento dei titoli stessi e il rispettivo aumento dei correlati CDS che ne consegue.

Il default vero sarebbe catastrofico pure per loro perché farebbe implodere tutta l’economia globalizzata in un domino contagioso atto ad abbattere tutta la catena finanziaria ed economica.

Un discorso interessante, ma lungo, andrebbe riservato alle agenzie di rating che, con le loro spesso inopportune anticipazioni sul possibile declassamento di titoli sovrani a mercati aperti, creano dei veri sconquassi borsistici sia sui titoli mobiliari che al Forex.

La serietà di giudizio, più che affidarsi a delle anticipazioni premature di possibile valutazione, dovrebbe basarsi sulla reale conoscenza dei piani di sostegno o di salvataggio che banche centrali, Fmi e governi interessati stessero predisponendo.

Perciò è ovvio che vi sia una stretta connessione, anche se forse involontaria, tra speculazione e anticipazione di possibile giudizio futuro prima della predisposizione finale dei piani d’intervento.

Analogo lungo discorso andrebbe riservato alla politica che, dall’inizio di questa grave crisi finanziaria, non solo è sempre stata latitante e tardiva nelle decisioni, ma anche incapace di prevederne gli sviluppi pur avendo i dati macroeconomici sempre sottomano.

È successo prima con i mutui sub prime e con molte banche, poi con la Grecia, indi con i piccoli paesi mitteleuropei ed ora con l’Irlanda, lasciando incancrenire la situazione prima di intervenire e sprecando così ingenti risorse preziose tanto dei singoli paesi Ue che della capitalizzazione dei mercati.

La politica della Merkel ondeggia tra l’ignorare la scienza economica e il fronteggiare le pressioni politiche interne dovute alle ingenti spese per sostenere l’€.

I costi accrescono inevitabilmente il disavanzo e il debito senza una chiara visione di ciò che sarà, portando seco, per forza di cose, l’aumento della pressione fiscale e togliendo linfa alla coriacea economia teutonica.

Il tracollo dell’€ dovuto al default di alcuni stati membri, anche se minori, trascinerebbe anche la florida industria tedesca nel baratro.

Perciò si cercano vie alternative, basate sul rigore dei bilanci, per scongiurare il pericolo incombente; oppure, in extrema ratio, il dividere l’Ue in due blocchi a diversa velocità e rischio economico, composto uno da nazioni forti (con capofila la Germania) e l’altro da nazioni deboli (con capofila l’Italia). Ciò, tuttavia, sarebbe distruggere in pratica l’unità Ue e rinnegare i principi solidali che dettarono la sua costituzione.

Per stabilire regole comuni nuove vi è però bisogno di governi granitici e numericamente forti nei vari stati membri, in grado perciò di imporre al loro interno una rigorosa politica economica di tagli e di riduzione dello status sociale a tutti, cosa che il malumore sociale dovuto alle traballanti economie rende quasi impossibile realizzare.

Per bilanciare la riduzione dello status sociale necessita in ogni caso la ridistribuzione della ricchezza, vincolando perciò i capitali al territorio e ponendoli al servizio della persona nella garanzia futura di investimento, occupazione e produttività. Cosa assai sgradita alle multinazionali.

Purtroppo in Europa si può dire che si voti quasi ogni settimana; e ciò è un grande male perché dà instabilità politica a tutto il sistema.

Se poi si aggiunga che molti stati basano la loro struttura politica su una frammentazione partitica proporzionale, allora ben si capisce che spesso nella coalizione governativa la maggioranza diventi ostaggio della minoranza, anche se questa possa avere consensi da prefisso telefonico.

Ed è ciò che pure in un sistema apparentemente bipolare, come quello italiano, sta succedendo con i continui e altalenanti piagnistei di Fini. Figuriamoci cosa succederebbe con un secco ritorno al proporzionale o con un sistema bipolare basato su delle armate Brancaleone.

Le vere regole (scienze) economiche e finanziarie non sono molte neppure oggi e si fondano principalmente sul dare e sull’avere. E quando il dare supera di molto l’avere è ovvio che lo sbilancio crei danni insanabili per secoli, perciò coinvolgendo anche le generazioni a venire per lo scialacquio operato dagli avi.

La moneta e l’economia virtuale, basata su imponenti debiti sovrani, va contro le stesse intuizioni economiche di Keynes e ne sono, in pratica, la vera negazione, considerati i risultati.

Pur tuttavia banche centrali e stati continuano a percorrere imperterriti questa strada, creando ulteriori debiti che inevitabilmente inflazioneranno la moneta e prostreranno ulteriormente le economie per gli ingenti costi che richiederanno.

Nell’Ue il Trattato di Maastricht stabilì uno sforamento massimo di spesa rispetto al Pil, considerando questo l’unico coefficiente in grado di misurare l’economia dei singoli stati; ma ciò fu un gravissimo errore che dovrebbe essere prontamente corretto.

Considerare solo la crescita del Pil come utile risorsa per rilanciare l’economia, basando l’ammontare della crescita come sviluppo positivo economico, è uno dei grandi errori che possono essere praticati oggi e che da decenni si stanno perpetuando.

L’economia, infatti, cresce in modo sano quando gli utili prodotti dall’incremento della produzione nazionale servono sia in parte a rilanciare gli investimenti, sia in parte a ripianare i debiti contratti; ma, come si nota guardando gli attuali bilanci statali, l’economia rimane debolissima e i debiti sovrani continuano ad aumentare.

Zapatero in Spagna, pur inimicandosi diversi strati sociali, ha già iniziato a ridurre, pur solo del 5%, gli stipendi degli statali. In Italia, con le iniziative Brunetta, si è operato in altro modo cercando di ridurre l’assenteismo e di aumentare la produttività, pur riducendo gradualmente e inesorabilmente il personale.

In Grecia, in presenza di un bilancio pubblico disastrato e fallimentare, si sono operati rimedi draconiani, creando però malumore e sommosse di piazza, strada che inevitabilmente sarà ora intrapresa anche dall’Irlanda.

Tuttavia queste iniziative paiono troppo tenui sia nella risoluzione dei gravi problemi economici e finanziari, sia per ridurre prontamente i debiti sovrani.

Per ammodernare gli impianti strutturali e anche costituzionali di uno stato servono ingenti capitali, nuove idee e valide risorse di capitale umano.

Immettere nel Trattato di Maastricht anche un limite alla migrazione di capitale selvaggio, vincolandolo perciò al territorio, sarebbe buona cosa. Diversamente vi potrà essere sì un’Ue politica, ma solo sulla carta essendo totalmente sguarnita di capitale reale, possedendo solo quello virtuale che genera unicamente ulteriore debito.

E il risultato pratico lo si vede ogni giorno nell’economia reale.

Il diagramma dei grafici mobiliari di questi ultimi 2 anni ritraccia continuamente i corsi altalenando ribassi a rialzi; ma i due corsi opposti hanno in comune tra loro una riduzione continua delle rispettive code, evidenziando con ciò che l’economia reale continua a peggiorare.

Troppe aziende hanno resistito alla crisi, specialmente le PMI, pur con scarsi aiuti pubblici quando non inesistenti. Ora, però, troppe stanno chiudendo non vedendo l’utilità né di investire, né di riconvertire, né di continuare.

Serve un colpo d’ala nazionale e comunitario, possibilmente rottamando quei personaggi che da decenni occupano la scena politica, intenti a fare unicamente il loro interesse da mestieranti.

Certo che a molti di costoro la dialettica per giustificare il loro continuo voltagabbana non manca, spesso vestendo i panni del salvatore della patria e della democrazia costituzionale.

Purtroppo la nostra costituzione non prevede che chi si dissoci dal programma sottoscritto debba dimettersi non condividendo più l’impegno assunto davanti all’elettorato.

E se un detto popolare afferma che è solo l’asino che non cambia mai, è pur vero che di asini ce ne siano troppi in giro, tirando continui calci al popolo e alla nazione, fidando solo nel loro status di privilegiati.

L’Italia per ora ha retto grazie alla tenacia di Tremonti che ha stretto sapientemente i cordoni della spesa, scontentando non solo ceti sociali ed opposizione, ma anche alcuni ministri incapaci di comprendere la drammaticità della situazione.

Se non si vorrà tra poco fare la fine di Grecia e Irlanda, innescando una miccia esplosiva che l’Ue non sarebbe in grado finanziariamente di disinnescare, sarà bene che maggioranza ed opposizione trovino un sistema immediato e pratico non per governare insieme, il che sarebbe pretendere l’impossibile, ma per emarginare definitivamente questi sabotatori che con le loro mosse di palazzo destabilizzano i vari gruppi parlamentari.

Perché se uno diventa inaffidabile da una parte è ovvio che, pur facendo subito comodo alla controparte, finisca per destabilizzare tutto il sistema, precipitandolo nel caos assoluto.

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