domenica 8 novembre 2009

Le tre gravi e imponenti crisi infinite: la crisi finanziaria.

La crisi finanziaria.

La crisi finanziaria ha creato con effetto domino la crisi economica, indi la recessione e infine la crisi reale che colpisce tutti, specie i meno abbienti.

Non condivido l’ottimismo di molti che dicono che è ormai superata e alle spalle, anche se, si aggiunge, la ripresa sarà incerta, lunga e difficoltosa.

I Governi hanno provveduto con tempestività, anche se ritardata nella preveggenza, a tamponare i buchi (perdite) che la speculazione globalizzata aveva innescato, salvando innanzitutto le grandi aziende finanziarie e, sopratutto, le banche. Basti ricordare che solo negli U.S.A. ne sono fallite ben 100 in circa un anno e, in questi giorni, un’altra molto importante (V a livello mondiale): la Citigroup.

In Europa le cose sono andate un po’ meglio per il sostegno che la BCE e i vari governi hanno messo in campo.

In Italia meglio ancora; anche perché il sistema nostro vede largamente prevalere le banche commerciali su quelle di affari.

Ciò nonostante si può tranquillamente affermare che anche le nostre banche sono ancora più fumo che arrosto: un fumo che sa assai di bruciaticcio.

Le principali, specie quelle esposte con crediti quasi inesigibili (a breve) con l’Est, sono corse a prenotare i Tremonti bonds, salvo poi ultimamente rinunciarci perché la capitalizzazione del portafoglio borsistico ha avuto un’impennata al rialzo, che consente loro di procedere, per ora, con mezzi propri e di posporre la ricapitalizzazione.

Perciò i problemi non sono risolti, ma solo accantonati; e se, come pare, i mercati finanziari avranno quasi esaurito la spinta rialzista, c’è da giurarci che tra poco il problema le investa di nuovo se la speculazione punterà, di nuovo, decisa al ribasso.

I Tassi sono scesi e permangono ai minimi storici, mentre i Future sulle materie prime, specie sul petrolio, hanno rialzato prepotentemente la testa.

Non per questo le banche hanno prontamente ridotto i loro tassi, lucrandoci assai tra tassi dare ed avere e in modo particolare con le PMI che non hanno un grande potere contrattuale. Hanno penalizzato la spina dorsale e produttiva del Paese, riversando su queste il costo dei loro errori finanziari e industriali. Hanno riservato un occhio di riguardo alle grandi aziende, dove per lo più sono creditrici e pure azioniste, perché la loro caduta sarebbe stata inevitabilmente la propria.

Ciò avviene per un semplice motivo: gli aiuti avuti sono stati da molti riservati a una nuova speculazione sui Derivati, creando di nuovo una spirale che, se non verrà bloccata, porterà a conseguenze recessive peggiori di quelle dello scorso anno e dell’inizio di questo.

Basti ricordare, in proposito, il monito di Obama, di poco tempo fa, al sistema finanziario americano, che ha usufruito più di tutti del sostegno statale, e tornato ai vecchi vizi e … rischi.

I crediti in sofferenza e inesigibili sono stati solo congelati, perciò sterilizzati in frezeer in attesa di tempi migliori. Ciò ha permesso non solo di salvaguardare le società finanziarie, ma pure tutte quelle aziende che avevano investito poco avvedutamente oltre le loro effettive possibilità commerciali e industriali.

I Tremonti bonds sono in scadenza nel 2013; e se per allora non saranno resi, diventeranno pesanti da gestire nei costi che arrecheranno: non saranno più tanto economici, ma una palla al piede.

Alcune grosse aziende hanno proceduto ad emettere loro propri bonds, indebitandosi direttamente sul mercato finanziario ad un lustro, eventualmente rinnovabile.

Questo scenario inquietante non può lasciare il cittadino comune in assoluta tranquillità, considerato pure che ormai la CIG ha quasi esaurito il suo corso ordinario e che bisognerà fare ricorso a quello straordinario per proteggere il lavoratore. Ciò significa che il Debito pubblico volerà ancora più in alto anche nel prossimo anno.

E che il lavoratore, nonostante la grave recessione in atto, sia stato “invogliato” da incentivi di rottamazione a indebitarsi ulteriormente, quando tali risorse sarebbero state più utili a proteggerlo socialmente, è un fatto grave che le lobby finanziarie industriali, specie di un’azienda che commissiona tutto all’estero e che assembla solo (in parte) in Italia, hanno sulla loro coscienza, se mai ce l’abbiano.

Tutto ciò in base alla regola del business che il mercato, perciò il consumismo modaiolo, va sempre sostenuto e invogliato.

E se da un lato questo arreca vantaggi perché permette alle aziende in crisi di resistere sul mercato e rialzarsi, dall’altra bisogna concepire che non si può più continuare ad assommare debiti per favorire la produzione e il commercio all’infinito.

Bisogna avere uno sviluppo e un tenore di vita compatibile, anche a costo di abbassare i consumi e di affrontare sacrifici.

Le aziende finanziarie, oltre ad usare la leva sul mercato del credito, avrebbero anche la possibilità di promuovere un aumento di capitale sociale per dotarsi di mezzi propri.

Ciò, tuttavia, non avviene per una logica ragione finanziaria: stante le carenti quotazioni azionarie attuali l’aumento di capitale non sarebbe conveniente per gli azionisti nel rapporto onerosità, rischio, reddito.

Basti pensare al riguardo che molte aziende non sono neppure in grado di distribuire il dividendo sugli utili, considerato che se non sono in perdita hanno, comunque, immenso bisogno di liquidità.

Un aumento di capitale in tali condizioni rischierebbe di cadere nel vuoto del disinteresse generale. E dove è stato fatto l’azionista o ha rinunciato, oppure ha provveduto a vendere quasi subito parte del proprio pacchetto azionario per recuperare capitale, affossando di conseguenza il valore azionario del titolo.

Tutto ciò pone in evidenza la tendenza moderna a considerare il capitale (perciò l’interesse individuale) maggiormente importante della persona e della collettività.

Si rinuncia, in pratica, ad essere popolo e nazione, perdendo il senso di appartenenza e di provenienza.

Il benessere e l’interesse proprio immediato prevale sull’interesse generale e delle generazioni future.

La plusvalenza dell’investimento esige tempi stretti e veloci, anziché tempi lunghi.

Ne consegue che il capitale non è più destinato all’investimento vero, ma solo alla speculazione che è in grado di produrre risultati in tempi rapidi; ma, pure, perdite ingenti che possono innescare crisi recessive imponenti.

Per convincersi di ciò basta osservare l’andamento delle borse occidentali che sono solite invertire il proprio ciclo intraday sulla base dell’apertura di Wall Street.

Perciò si procede non basandosi sui fondamentali, bensì sull’emotività giornaliera.

Il capitale non è più un bene materiale necessario allo sviluppo, ma un mezzo artificioso di creare ricchezza virtuale.

Il mercato americano è ciò che volenti o nolenti condiziona il mercato globalizzato.

La stessa Cina, pur con il suo Pil positivo a due cifre, ha come maggiore cliente proprio gli U.S.A. Non solo: il suo risparmio è stato attratto dal sistema finanziario degli States per la rendita maggiore che poteva offrire; e, strano a dirsi, è stato “bruciato” nel consumismo.

Il $ ha perso terreno rispetto all’, ma tra poco potrebbe tornare a invertire la propria marcia. Basti pensare all’andamento altalenante del suo corso in questo ultimo anno.

L’aumento delle materie prime, causato più dalla speculazione sui Future che sul reale aumento del prezzo dovuto a un lieve aumento dei consumi, porterà con sé una ripresa progressiva dell’inflazione e perciò pure dei tassi. I quali moltiplicheranno i costi finanziari arrecando ulteriore inflazione.

La recessione porta, alla fine, sempre con sé il saldo del conto finale e non sarà indolore.

Non sono tra coloro[1] che intendono strutturalmente necessaria la speculazione, giustificandola a indispensabile calmiere del mercato.

Lo affermo convinto, come lo ho sempre sostenuto, pure ad alto livello, anche ultimamente.

La speculazione non è un investimento, ma solo una ricerca esasperata di un forte e facile guadagno. E molti prodotti oggi sul mercato, specie i Derivati (tutti), non aggiungono nulla all’utilità finanziaria e commerciale del rapporto economico globalizzato.

Sono prodotti che se va bene producono aleatori guadagni; e se va male pongono problemi a tutta la società internazionale. Sono patate bollenti che gli spericolati sociali si scambiano velocemente tra loro, nella convinzione che alla fine ci sarà il pollo a cui rimane in mano, che si scotterà e … perirà.

Ma spesso, come le grandi recessioni insegnano, a perderci sono poi tutti, anche se chi ha sempre la peggio è l’indifeso.

Speculare non è esattamente il sinonimo di investire.

E chi investe crede in qualcosa e persegue nel tempo il suo obbiettivo.

Chi specula ha una mentalità asociale basata sul proprio egocentrico individualismo: intende solo il suo interesse a scapito degli altri.

È difficile difendere la tesi che la trattazione di oltre 1,5 mld di barili di petrolio al giorno è calmierante al suo prezzo, quando alla società internazionale servono solo 85 ml al giorno. Esattamente: circa 1/20 di ciò che viene trattato.

Solo un pazzo acquisterebbe un prodotto che non sarebbe assolutamente in grado di smerciare, perciò di poter monetizzare rientrando dall’investimento. E se si moltiplica tale cifra per 365 g all’anno si ottiene una cifra … astronomica.

Ciò, tuttavia, è consentito non nel mercato reale, ma solo in quello virtuale.

Si scambia la realtà per la virtualità: l’esistente per l’immaginario.

Perché se la speculazione avesse la sua reale utilità finanziaria, così come viene praticata oggi, allora sarebbe utile moltiplicarla all’ennesima potenza.

La stessa cosa avviene nel mercato mobiliare tradizionale quando viene consentita la vendita allo scoperto, oppure quando si concede la leva sulla speculazione a percentuali impensabili: 1 a 700, con punte che possono arrivare anche a 1 a 5.000.

In questo modo si disincentiva non solo l’investimento di chi realmente ha a disposizione il capitale reale, ma si arreca danno allo stesso “valore reale trattato, perché questo non si basa più sui fondamentali, ma solo sulla quantità della domanda e dell’offerta tanto a salire quanto a scendere (spinta rialzista o ribassista). Il “bene di per sé stesso in pratica potrebbe anche non esistere, come in tanti casi avviene.

Il risparmio reale diventa strutturalmente ininfluente, soppiantato dall’aleatorio indebitamento virtuale.

Vi è, pertanto, la necessità che gli Stati (alcuni dei quali, come l’Italia) propongano questa linea di fermezza e si accordino per stabilire non una lex operativa, ma uno ius regolativo.

Diversamente, senza una direttiva condivisa, il mercato finanziario andrà sempre alla deriva, creando ciclicamente i suoi guasti.

Quest’anno il Pil di molte nazioni è sceso a livelli preoccupanti: il -6% all’incirca nei maggiori paesi occidentali.

La disoccupazione ora sta mostrando i suoi valori reali e non è detto che abbia raggiunto il suo apice del 10% circa, giacché molte aziende non reggono più il mercato e sono costrette o a chiudere o a fallire.

La ripresa sarà molto lenta e ci vorranno anni prima che il Pil attuale perso sia recuperato. Similmente il sistema produttivo ha bisogno di una profonda ristrutturazione e ridimensionamento.

Infatti, come sono inconcepibili 1,5 mld di barili di petrolio, è ovvio che non si potrà continuare all’infinito a produrre beni (auto e altro) che il mercato non potrà assolutamente assorbire, neppure con incentivazioni infinite.

La recessione, anche per chi meno l’ha subita, porterà inevitabilmente con sé un cambiamento nella società. Impone un ridimensionamento e non una continua infinita espansione.

Questa è la sfida che ci attende; da risolvere e vincere se tra poco non si vorrà cadere ancor più di prima.

E la prima sfida è quella di stabilire uno Ius condiviso in grado non di impedire, ma di regolarizzare[2] un mercato senza regole e freni inibitori.




[1] - A. Alesina, F. Giavazzi – La crisi. 2008

[2] - Dare delle regole operative e non nel senso di impedire.

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