domenica 8 novembre 2009

Uomo e persona.

(Questa è la copia del breve commento lasciato sul blog di un amico. Considerato che il contenuto può essere di interesse generale l’ho riportato pure qua. Per brevità si rimanda al link seguente per la conoscenza della tematica che l’ha generato. Per non essere liquefatti...)

Uomo e persona.

Nel tuo breve meditare hai fatto un po’ di … confusione.

Parto dall’ultimo per arrivare al primo.

Dici: “… il ritenere un essere umano una persona è il modo …”, “La persona è sempre un dono per sé e per gli altri …” e “Persona è l’essenza, il substrato fondamentale di ogni essere umano, che va oltre la sua corporeità e la sua spiritualitàche lo rende unico perfetto …”.

A questo punto sarebbe interessante sapere cosa tu intenda per uomo, cosa intenda per “dono per sé” e, pure molto interessante, sarebbe percepire la differenza che interpreti tra dono e regalo.

Ovviamente la mia è una domanda retorica.

Siamo liquidi, flessibile e leggeri attaccati a “valori ‘solidi’ ”? E questi sono l’essenza di persona?

Io non ritengo di essere né liquido, né flessibile, perché allora mi riterrei un idiota se i cambiamenti mi condizionassero.

L’essenza del concetto di uomo, in verità va scisso da quello di persona solo nell’interpersonale: si riconosce all’altro il nostro stesso diritto ad esistere e a coesistere nella “parità”, pur nella diversità. Ci si riconosce “Società”!

In questo sta ( l’identificarci) il nostro essere uomo e persona.

E se l’uomo è sé stesso nel rapporto con l’altro (persona; nell’accettare la parità esistenziale e non di diritto), allora ha il dovere non di liquefarsi (adattandosi all’esistente momentaneo), né di essere “flessibile” all’altro o all’evento, ma di padroneggiare e dirigere il processo evolutivo sociale e personale in base a principi e valori che devono essere recepiti nella loro totalità e importanza, perciò intellettualmente condivisi.

L’uomo è individualità nella percezione di sé stesso; ma si trasforma (identifica) in persona nel momento stesso che si relaziona all’altro, riconoscendolo come alter ego sociale.

E non solo riconoscendo il contemporaneo che gli sta accanto, ma pure il trapassato e l’addiveniente.

La cultura universale (bagaglio sapienziale) è forse il vero concetto lato di persona, sia nel bene che nel male. Infatti, a noi insegna i valori e i principi che hanno permesso ai nostri avi di esistere e di relazionarsi e per i posteri il rispetto di un ambiente e di un rapporto sociale ultratemporale che riconosca loro una parità esistenziale priva di obblighi pregressi.

Principi e valori che non sono, giova sottolinearlo, immodificabili, ma continuamente evoluti nel perfezionarli.

Perché se noi interpretiamo l’essere persona al solo “relazionarsirealizzarsi nella misura in cui allarga e perfeziona le sue relazioni”, allora colleghiamo il nostro incedere al solo compito di completare un rapporto pacifico e utile alla nostra esistenza.

Solo in questo modo il “diritto” non avrà quella priorità di pretesa che impone a chi è più indietro (in ogni senso e pure fisicamente – handicappato reale o momentaneo -) di volere (pretendere) ciò che l’altro può avere nella sua operosità e capacità, ma di riconoscere (dove è possibile) che l’aiuto che viene concesso non sia un diritto acquisito, ma solo un volontario supporto che la “persona/società” ti dà per consentirti di vivere nella parità esistenziale. Parità che non significa identità né continuità.

La nostra attuale società, perciò noi tutti, tende a scaricare sugli altri i propri doveri. Si intende solo il proprio diritto.

I figli “pretendono” che la società si faccia carico dei genitori anziani o infermi, le giovani coppie dei figli, le aziende che mal si sono programmate o fatto buchi l’aiuto statale, chi rimane senza lavoro dell’assistenza (stipendio) sociale, chi meno ha … vuole ciò che chi più ha si può concedere.

La cicala, spesso, nella pratica vuole avere ciò che ha la formica!

Ma allora siamo solo in quella flessibilità e liquidità del “diritto” che non sa apprezzare e riconoscere il dovere. Ne è incapace!

In pratica non si è in grado di percepire il “Voldere: volere il dovere”. Dove il volere è l’essenza dell’essere persona per sé e per l’altro nella percezione esatta del proprio “Io maturo”.

Si è “Samaritano”; ma il samaritano è tale nel vedere volontariamente la necessità e non nel diritto della pretesa altrui.

Con buona pace di Mounier e di Bauman.

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