giovedì 23 ottobre 2008

Private Equity: opportunità, destinatari e liceità etica.

Le Borse salgono e … scendono, nonostante l’impegno profuso dai nostri governanti per stabilizzare e rassicurare i mercati.

Perciò: nulla di nuovo sotto il sole!

Di per sé il fatto potrebbe sembrare abitudinario nella sua ciclica ripetizione, se non fosse che dietro ci sta una situazione abbastanza ingarbugliata che è difficile non solo districare, ma pure comprendere nella sua interezza.

Gli esperti, ovviamente, non mancano. Quelli veri se ne stanno prudenti e molto preoccupati, non conoscendo tutti i parametri che stanno venendo a galla, anche se da mesi predicavano cautela, inascoltati, nel deserto dell’ottimismo (ottusità).

Gli altri, quelli coinvolti, si arrampicano sugli specchi, cambiando opinione ogni giorno e assolvendosi perché questa è una crisi senza precedenti e perciò sfuggevole ad ogni confronto con situazioni analoghe anteriori.

Il petrolio e l’€ sono scesi rispetto al $ e, probabilmente continueranno a scendere con possibile ciclo altalenante.

La BCE ha iniziato a ribassare il TUS, anche se lievemente onde non rovinarsi la faccia, semmai questa (la testa) l’abbia potuta avere, innescando così, gradualmente, pure la discesa dell’Euribor.

L’Abi, ieri, si è riunita ed ha sentenziato che non sono necessarie capitalizzazioni, “perché i nostri “ratios” sono perfettamente a posto!”.

Ne sono contento per loro (banche) e per noi!

Comunque proprio tanto tranquillo non lo sono, se Unicredit, in fretta e furia, ha dovuto varare un sostanzioso aumento di capitale.

Perché? Beh, mi pare ovvio: per far posto ai … libici!

Giorni fa, spulciando alcuni dati relativi ad una banca importante del Nord, trovai che era inguaiata per 100 milioni di € nel crack della Lehmann Brothers; un'altra, riconducibile ad un noto politico, doveva coprire, addossandoseli, altri 180 milioni di €.

Tali cifre non sono comunque significative per affossare una banca, anche se potrebbero assommarsi ad altre in futuro.

Il presidente della prima banca, dopo la risposta di rito sui “ratios”, a precisa domanda aggiunse che “per ora parlare di utili e di dividendo è estremamente prematuro!”.

E lo credo: con cotale perdita da contabilizzare!

La Spagna è quella che, tra i paesi occidentali industrializzati, sta peggio di tutti essendo troppo esposta nel settore immobiliare, perciò invischiata nella grande ragnatela dei bonds propri, tanto più che l’indice di mercato[1] continua a scendere a due cifre ogni tre mesi e con un’accelerazione preoccupante nell’ultimo periodo.

Poco tempo fa Zapatero espresse trionfalismi sui risultati raggiunti dal suo Paese, salvo poi essere smentito subito dopo dal crollo delle Borse e del mercato finanziario internazionale.

Ciò la dice lunga sulla capacità di certi politici di comprendere ciò che stava avvenendo sotto i loro occhi e di individuare anzitempo i punti deboli del sistema strutturale nazionale.

Diverse nazioni europee stanno predisponendo dei fondi di investimento per il sostegno delle imprese, che alcuni confondono con i Fondi sovrani e con la loro difesa contro acquisizioni estere, specie a matrice araba.

Le modalità procedurali abbozzate sono diverse da nazione a nazione, ma traspare spesso l’interpretazione che tutto ciò venga equiparato non tanto allo statalismo keynesiano, prospettato inizialmente, ma per lo più ad operazioni di Private equity pubblico non generalizzato, bensì dedicato alle imprese maggiormente a rischio.

L’utilità di tale operazione, ovviamente, è assai diversa, nelle intenzioni (obbiettivi) dello Stato, da quella che vede coinvolte, nella stessa modalità, le aziende che la praticano.

Lo Stato difende il patrimonio pubblico e l’interesse nazionale tutelandosi come socio[2] o come investitore, le aziende solo come investimento profittevole[3] a medio lungo termine ad elevata resa. Qua un salvataggio a tutela, là un puro investimento.

Tutto ciò è ben accetto, specie se il progetto è concepito come un piano dettagliato di intervento economico/finanziario, anziché come tampone occasionale per smorzare la crisi speculativa.

Appare, infatti, chiaro che la stessa strategia operativa non può privilegiare solo le grandi attività, ma tutto il tessuto commerciale ed industriale del paese. Diversamente si salverebbe il tronco del corpo, ma non le membra senza le quali il corpo non ha ragione di esistere.

La prospettiva di tali interventi pone in essere la perenne diatriba sul perché si sia aspettato finora per intervenire; e la risposta è subito detta: i nostri politici non sono stati in grado di leggere gli eventi, di analizzare le cause, gli effetti e le prospettive non solo a lungo termine, ma neppure a medio e a breve.

Tutto ciò pone inquietanti dubbi sulla capacità esecutiva attuale di aver compreso perfettamente le problematiche innescate dalla crisi finanziaria globalizzata e, di conseguenza, sulla capacità operativa reale di farvi fronte.

A tutto ciò si aggiunge l’opportunità sociale di sostegno ai destinatari, come pure la liceità etica di simili interventi.

Ma, procediamo con ordine.

Opportunità

Considerato il punto in cui siamo, peraltro iniziale di una crisi lunga e estremamente difficile, credo che nessuno si sogni di contestare l’utilità di tali interventi, specie se, diversamente, il non intervenire innescherebbe problematiche occupazionali e sociali di enorme rischio per la stessa democrazia.

Ovviamente tali interventi devono essere mirati, facendo una sostanziale differenza tra le aziende finanziariamente sane e quelle tarlate dal virus di una gestione fallimentare (speculativa o industriale).

Le prime vanno solo sostenute finanziariamente; le seconde sottoposte ad un rigido controllo che coinvolga il declassamento operativo (non il licenziamento) dei responsabili dell’errata strategia industriale o della speculazione rischiosa effettuata.

Perché se non si parte da questo semplice postulato che gli inetti, o i temerari, non devono mantenere la loro posizione di comando, appare evidente che la risalita sarà proibitiva.

Destinatari

Sostenere le imprese in difficoltà significa sorreggere anche l’occupazione, perciò pure l’operaio e la sua ragione di esistere.

Ciò implica una determinata strategia politica che impegni l’azienda, destinataria dell’intervento pubblico[4], ad assecondare un piano sociale basato sia sulla sinergia operativa volontaria con altre aziende, sia sul mantenimento di uno stato occupazionale prestabilito.

Ciò non può prescindere dal creare una rete complessa di aziende in grado di muoversi simultaneamente a gruppi, onde conseguire insieme uno stesso risultato: finanziamento, produzione e commercio del prodotto.

Diversamente alcuni ne trarranno giovamento ed altri saranno destinati a chiudere con la prospettiva pratica che la chiusura di alcuni sarà pure la rovina di tutti.

Alcune delle nostre principali aziende sono state (e lo sono tuttora) destinatarie di benefit pubblici vari, atti a sostenere (e potenziare) la loro esistenza sul mercato; ciò nonostante la quasi totalità dell’indotto viene prodotto all’estero in paesi a basso costo di mano d’opera: un inconcepibile controsenso!

Perciò possono essere aumentati gli utili annuali, ma pure l’esposizione finanziaria. E ciò non è utile al sistema paese.

Quello di cui oggi abbiamo assoluto bisogno è che le nostre aziende operino e reggano il mercato aderendo ad un progetto nazionale di rinascita, anche a costo di dover lavorare in pareggio per un paio d’anni.

Liceità etica

Perché lo Stato, perciò il comune contribuente, deve essere chiamato a “pagare” gli errori industriali e finanziari di alcuni, specie se tutto ciò aumenterà necessariamente il debito pubblico, al quale non verranno (probabilmente) conteggiate le somme destinate agli investimenti produttivi?

La risposta la si trova solo nella convenienza sociale, se questa ingloba l’appartenenza e l’essere nazione. Diversamente non ha ragione di esistere.

Perciò la liceità è correlata sia all’opportunità che ai destinatari, senza di che non si è popolo/nazione, ma solo branco che vaga per conto proprio con la sola legge della foresta.

La realtà di questa crisi finanziaria globalizzata ci ha mostrato che alcuni anelli deboli della catena sono già saltati; e mi riferisco ad Islanda, Ungheria ed Ucraina.

Ora pure l’Argentina, che già era stata sulla cresta dell’onda per i bonds truffa, distribuiti un po’ ovunque, sembra sia sul punto di aggiungersi alle altre, senza contare i paesi poveri sottosviluppati che sono sempre stati annoverati nelle nazioni fallimentari.

Il nazionalizzare tutto non credo sia il metodo migliore, come l’intervenire direttamente nelle imprese a maggior rischio. Ciò è etichettabile come pure populismo, perché di norma toglie lo stimolo all’investire e tiene lontani i possibili capitali esteri.

Tutti i capitali disponibili ad essere investiti in una nazione oggi sono ben accetti; ma solo se questi capitali scinderanno la loro etica procedurale dal puro guadagno/investimento, puntando perciò a radicarsi definitivamente sul territorio e a diventare, nel lungo termine, soggetti fattivi di una comunità locale (regione) e nazionale (nazione).

Le regole non credo che debbano essere riscritte, ma solo ben ideate e chiare a tutti.

Diversamente si continuerà a speculare e la fine potrà essere rimandata, ma non risolta.




[1] - Tanto in volume, quanto in quotazioni.

[2] - Operazione di tipo Special Situation

[3] - Operazioni del tipo Seed capital, Angel Investing, Venture capital e Development capital

[4] - Con sovvenzioni pubbliche dirette o con altre parallele, quale l’accesso a finanziamenti, di qualsiasi forma, garantiti dallo stato a tasso agevolato. Sarebbe opportuno che il finanziamento a fondo perduto fosse depennato e destinato solo al sostegno di determinate realtà sociali.

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