Già
tempo fa m’interessai dei periodici Convegni Ue dei Capi di Stato, definendoli –
concisamente – un inutile spreco di risorse per 2 motivi.
La
prima di
questione economica, per il costo che l’inevitabile codazzo di uomini e mezzi
comporta in simili occasioni per ovvie ragioni logistiche e di sicurezza,
proprio nell’era della digitalizzazione informatica che permette
videoconferenze tra i vari soggetti interessati senza che questi si muovano
dalla propria sede di un solo metro.
La
seconda
di carattere politico, perché al di là dei trionfalistici – e inutili –
comunicati finali sui risultati raggiunti, questi “proclami”, nel reale
contenuto e significato dell’asettico comunicato, indicano in sostanza sia l’inutilità
di questi convegni, sia il fallimento degli stessi, con annessa incapacità di
gestire le questioni e la crisi.
Nulla di
strano, quindi, se pure anche quello appena avvenuto non sia sfuggito alla
stessa regola.
Chi ha
buona memoria, e pensa con la testa propria e non con il mentalismo mediatico o
del premier di turno, avrà ben presente che nelle varie conferenze stampa tutti
– e
dico tutti – i premier italiani hanno inanellato uno dietro l’altro i
risultati raggiunti, come se questi risultati fossero delle pietre miliari per
la politica italiana.
In
effetti, questi risultati in pratica non sono mai esistiti e, al contrario,
sono stati spesso dei diktat che abbiamo dovuto subire in primis dalla Merkel. Non solo: gli
ultimi premier del Governo italiano sono stati … voluti e nominati … all’estero
in modo indiretto.
E, caso
strano, la stessa sorte ha subito sia la Grecia sia il Portogallo, gli altri 2 paesi massacrati economicamente dai diktat Ue.
Monti affermava che con la
sua credibilità carismatica s’era salvato l’Italia dal baratro e dal finire
come la Grecia. E appunto perché lui era credibile in ambito Ue ottenevamo (secondo lui) concessioni e
benefici.
Va da sé
che abbia strangolato tutta l’economia italiana, portando gradualmente la
disoccupazione verso il 15% ufficiale; perché, volenti o nolenti, abbiamo circa
più di un decimo delle persone in età lavorativa disoccupate.
I fallimenti delle aziende non
hanno mai raggiunto, dal dopoguerra, una percentuale e una quantità così alta;
mentre oltre 110 mila imprese hanno chiuso i battenti, creando circa 1,5 milioni di
nuovi disoccupati. Ufficialmente abbiamo circa 3,3 mln di disoccupati, ai quali
vanno aggiunti quelli non ufficiali o con reddito miserevole o in Cig; sommando
ai quali i circa 3,5 mln di dipendenti pubblici, gli oltre 16 mln di pensionati
e gli 8 mln studenti, ben si capisce come faccia poi una nazione a sostenersi
economicamente. Se poi si aggiungono a queste categorie le casalinghe e gli
infanti, si giunge alla tragica conclusione che il vero peso produttivo di
tutta la nazione cada su circa il 35% dei cittadini.
Certo,
il Pil somma tutti gli emolumenti percepiti. Tuttavia la stragrande maggioranza
di questi emolumenti sono a carico dello Stato, direttamente (dipendenti) o
indirettamente (Inps: pensionati).
Letta, dal canto suo,
vantava la
sua alta considerazione nelle cancellerie internazionali, tanto che, come
diceva, veniva considerato uno con le palle di acciaio. Tuttavia l’acciaio è una lega pesante, tanto da affondarlo nel
mare tumultuoso e burrascoso del Pd, proprio da chi continuava – a parole – a gridare la sua fedeltà
al Governo: Renzi.
Il suo
mandato come premier ha seguito la falsariga finanziaria montiana, tanto da
affossare ulteriormente l’economia italiana.
Ora vi è
Renzi - esaltato “novello dittatore” della Repubblica Italiana, secondo la considerazione
della minoranza Pd - pronto e svelto in ciance e in promesse, senza però,
finora, aver combinato nulla di nuovo.
Ai suoi
predecessori, che vedevamo la ripresa dietro l’angolo – per Monti forse quello in … Sudafrica; per Letta già
timidamente in atto per un miserevole 0,1% in un mese – contrappone il suo
mantra: non
siamo ancora fuori della crisi. Il che è innegabilmente vero, come è vero che con qualsiasi
riforma di Camera e Senato non si creerà un solo nuovo posto di lavoro, come l’eventuale
nuova assunzione nella pubblica amministrazione di 15.000 giovani – ammesso che ciò
avvenga – non risolverà affatto l’altissima percentuale di disoccupazione
interna, non riducendo neppure il mastodontico apparato statale di dipendenti
se non di miserevoli 45.000 unità, ammesso che i soggetti interessati accettino
di andare in quiescenza a metà stipendio.
Molti
possono ritenere che il poco è sempre meglio di niente. È ovvio sottolineare
che con questi numeri Renzi non porterà affatto la disoccupazione a una sola
cifra (perciò sotto il 10%) - come in una sparata populista ha affermato -;
salvo poi nel Def economico dichiarare che questa verrà ridotta al 12% entro il
2017.
Campa
cavallo che l’erba la cresce.
La stessa
cosa vale per le “sue” riforme, per le quali ora ha chiesto 1.000 giorni di tempo contro
l’una al mese che trionfalisticamente aveva all’inizio del suo mandato
dichiarato.
Secondo
Renzi la posizione italiana al recente vertice Ue ha ottenuto una
grande vittoria che, sinceramente, mi è impossibile vedere, anche perché le
regole sono sempre inalterate, mentre il nostro Debito sovrano cresce
inesorabilmente e viaggia sui 2.200 mld. In pratica intorno al 140% del Pil.
Perciò,
ammesso che la Commissione Ue conceda una deroga al pareggio di bilancio e nonostante che
l’anomalo – secondo i tedeschi - operato di Draghi alla Bce abbia ridotto notevolmente il monte
interessi sui Titoli sovrani nazionali, sarà molto difficile avere risorse disponibili per
rilanciare l’economia.
Squinzi afferma che l’Italia non sta più
sul baratro, anche perché forse, sul bordo non ci sta più, ma c’è … caduta
dentro. Infatti, le aziende continuano a chiudere e a fallire e la
disoccupazione cresce.
Elencare
tutte le promesse inattuate di Renzi sarebbe facile, come è facile prevedere
che la copertura una tantum trovata quest’anno per gli 80 € “elettorali” - non è forse voto di scambio? – nel 2015 imporranno
una manovra di almeno 20 mld di €, quasi uguale a quella capestro di Monti.
Senza calcolare che con le nuove tasse, proprie e improprie del governo Renzi,
la tassazione ha raggiunto un record storico nazionale mai toccato dall’inizio
del Regno d’Italia, perciò non solo della Repubblica. Record che ci pone tra i
28 Paesi Ue all’invidiabile primo posto.
Ci si
affida ad un’auspicata flebile ripresa, che però gli enti interessati alla
previsione correggono continuamente al ribasso. Perciò, se i prossimi mesi
saranno a Pil prossimo allo zero o leggermente negativo, una manovra correttiva
sarà forzatamente necessaria già in autunno.
L’Ue,
per accontentare tutti nei comunicati finali, punta alla flessibilità (???) sui bilanci,
ricorrendo agli strumenti già previsti nei trattati.
Ciò
significa che nulla cambierà.
Renzi,
perciò, può benissimo dichiarare fiero i grandi risultati ottenuti.
Salvo
poi, nel suo discorso al Parlamento Ue,
tornare alla carica sulla tematica, per vedersi subito “sbertucciato” dal
capogruppo Ppe Manfred Weber e, poco dopo, anche dal governatore della Bundesbank Jens
Weidmann. Non a caso entrambi tedeschi.
Perché,
in effetti, condivido le preoccupazioni tedesche (anche se interessate)
riassumibili in: dove Renzi prenderà i soldi considerato il costo dell’apparato
statale e l’ingente Debito sovrano che l’Italia ha?
Sforare
il debito è facile, magari aggiungendo altri 100/150 mld nel tentativo di
rilanciare i consumi e abbassando l’imposizione fiscale. Però, se la ripresa
probabilmente sarà comunque lenta e inefficace, ci ritroveremmo con un’Italia
ulteriormente zavorrata e sempre più malata, buttando alle ortiche tutti i
sacrifici – più o meno giustamente – fatti.
L’amletico
dilemma è: come rilanciare il Pil e con questo la crescita?
Abolendo
il Senato o facendo altre riforme inutili ai fini macroeconomici e adatte solo
a garantire il potere ad un certo gruppo dirigente a scapito della democrazia
popolare?
Oppure snellendo drasticamente il mastodontico
apparato statale, creando ancora almeno un altro milione di disoccupati o di
pensionati?
Oppure sforando il bilancio per ridurre la
tassazione diretta e indiretta?
Credo
che in Italia, ma pure in Ue, non vi sia
una ricetta utile a risolvere il problema della disoccupazione, perché se la
disoccupazione esiste è perché manca il lavoro e non vi è più interesse a fare
Impresa.
Negli
ultimi decenni, infatti, con la Legge Amato che parificava le banche commerciali a quelle d’affari si è
creato il presupposto dell’attuale crisi, seguendo l’esempio americano che, non
per nulla, è stato l’origine della crisi globale.
I pratica si è stabilito che non era più conveniente investire
nel Lavoro, ma che fosse molto più redditizio investire nel finanziario, perciò
nell’aleatorio (Derivati).
Non si è
capito – o non si è voluto capire, ignorandolo – che non vi può essere per
molto Finanza senza Impresa, perché viene a
mancare il valore vero e reale della Produttività, la sola in grado di creare Reddito e Lavoro.
Una
delle leggi e delle riforme oggi necessarie – in pratica la principale – è
quella di poter finanziare le imprese manifatturiere a costi bassi, agendo per legge sui tassi: stabilendo un tasso di usura
invalicabile.
La Bce
di Draghi offre alle banche danaro allo 0,15%, vincolandolo al finanziamento
delle aziende. Quindi le risorse sono già disponibili.
Però le
aziende si trovano a sostenere poi tassi alti nella forbice 5%-10%, che con le aggiunte
dei vari oneri e balzelli possono raggiungere in certi casi anche il 15%. Un costo
impossibile da sopportare – oggi – nel fare impresa.
Perciò,
se Renzi vuole effettivamente fare le riforme e rilanciare la crescita,
stabilisca in comunione con l’Ue dei tassi usura per le banche, senza i quali
mai ci sarà voglia e spirito di impresa.
Si fa
impresa solo se vi è convenienza e utilità,
mai se costrizione e perdita.
Con
l’aumento dell’imposta sulle rendite finanziare al 26% il governo Renzi va
nella direzione opposta a quella di favorire l’impresa, creando un ulteriore
baratro tra redditi di Titoli sovrani e redditi da impresa. In pratica,
considerata la tassazione doppia, sottraendo i capitali necessari alle aziende,
specie a quelle quotate al Mercato che per varie ragioni sono costrette a
rafforzare la capitalizzazione per far fronte ai danni della crisi.
Si
tolgono risorse al lavoro per darle al Debito.
Avere
un’Ue nominale non serve a nessuno; e prima o poi si giungerà alla sua
disgregazione, perché non basta la moneta Euro a fare il collante tra 28 Stati.
Servono
regole uniformi sovranazionali che prevedano: un costo (tassazione) del lavoro
uguale ovunque, un costo del danaro uguale ovunque, un’imposizione sui redditi
uguale ovunque, una ri-localizzazione delle imprese sui territori con un
progetto comunitario, in grado di supportare i vari stati nel rendere le
imprese soggetti stabili e giuridici del territorio.
Perché
senza impresa non vi è occupazione,
senza occupazione non vi è consumo, senza consumo non vi è crescita e sviluppo.
I
convegni Ue finora sono stati solo passerelle mediatiche per i vari Capi di
Stato o di Governo, inutili - o assai marginali - ai fini dell’integrazione
comunitaria di tipo federale.
Non
hanno affrontato né risolto la crisi, acuendola per lo più nelle nazioni
deboli.
Tutti
han cercato di difendere le posizioni acquisite, spesso a scapito di quelle
altrui. Ciò nonostante i comunicati ufficiali finali.
In
pratica si possono definire in modo perfetto i
convegni del nulla.
Le
ultime elezioni comunitarie hanno evidenziato l’avanzata degli euroscettici
anche in nazioni – come la Francia – dove la situazione è ben diversa economicamente, anche se non
florida.
Si dice
che il Pd renziano abbia contrastato questa deriva. In effetti, è il contrario,
perché proprio il Pd renziano può essere considerato uno dei partiti
maggiormente euroscettici in ambito Ue. Basti citare il suo stesso intervento
al Parlamento di Strasburgo e le sue
continue idiosincrasie politiche rispetto alla Germania merkelliana, ad là dei
sorrisini di facciata.
Renzi sarà
pure diplomaticamente rozzo e con l’istinto autistico del dover essere il
gradasso Capitan Fracassa. Tuttavia chi crede nell’Ue non infarcisce i suoi
discorsi di frasi pessimistiche sulla fine dell’Ue, anche se condizionate dai tanti “se”.
Perché a
nulla serve scontrarsi rissosamente - come i bulli - con fior di personaggi,
che per capacità, ruolo e cultura lo sovrastano nettamente. Anzi, da questi
dovrebbe imparare dove e come saper intervenire, perché i moniti sarà pur vero
che non arrivano direttamente dal Governo tedesco, ma da via parallele per far
capire pure ai sordi l’antifona.
Quest’Ue
è di là da venire.
La crisi
non penso sia finita, perché tale potrà essere considerata solo quando la
disoccupazione scenderà ai livelli prossimi ai precedenti.
La
disoccupazione salirà ancora almeno fino al 2015, indebolendo ulteriormente
territori e popoli. Ciò significa che altre aziende saranno costrette a
chiudere.
Con la
sola Finanza non si campa, anche perché la crisi attuale ha dimostrato che la speculazione
ha dilaniato pure capitali e risorse di tutti gli istituti finanziari, molti
dei quali han dovuto correre ai ripari per non fallire, talora pure con gli
aiuti dei vari stati.
Relativamente
all’Italia mi è impossibile capire come si possano rilanciare crescita e
consumi con stipendi di molto inferiori a quelli di altre nazioni sul nostro
livello, neppure se elemosinati dagli 80 € mensili – 1.000 o 1.100 non fanno
differenza – e da pensioni estremamente basse poco sopra i 500 €.
Se si
vuole costruire e mantenere l’Ue bisogna
cambiare passo, sia nei paesi mediterranei sia in quelli nordici.
Perché
il rischio reale è che le nazioni siano sempre più commissariate nei propri
bilanci, facendo montare quell’avversione popolare che per ora si è solo parzialmente
manifestata.
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