Chi profetizzava nel 2008 che la crisi, prima finanziaria e poi economica, sarebbe stata breve è stato servito.
Talora si vedono dei buoni segnali di possibile ripresa. Tuttavia questi, per essere considerati validi, devono assumere un carattere continuativo e non positivi picchi provvisori, di produzione o di Pil, mensili o trimestrali.
Non è detto che il fondo sia stato toccato, perché basta un nonnulla per far ripiombare i mercati finanziari verso il basso, bruciando, di conseguenza, ricchezza patrimoniale che in questo magro periodo servirebbe sia per le aziende, sia per incentivare consumi e investimenti.
Se i consumi calano le aziende producono inesorabilmente meno; e se producono meno è ovvio che quelle finanziariamente malate rischino di soccombere e le sane di sopravvivere facendo ricorso alla CIG.
Se gli investimenti prospettano una certa redditività è ovvio che il capitale possa essere proficuamente impegnato; ma se le prospettive sono negative è altrettanto ovvio che si rischi di bruciarlo inutilmente.
Meno produzione corrisponde a più disoccupazione; più disoccupazione equivale a una drastica riduzione dei consumi.
Negli Usa, ma pure nell’Ue, i dati sulla disoccupazione permangono alti nei numeri e deludenti nelle attese.
Analizzando il corso dei mercati finanziari di quest’ultimo lustro, si nota che le linee Fibonacci accentuano continuamente verso il basso, mentre i rialzi periodici tendono solo a raggiungere picchi ripetitivi e similari nel tempo. Sono, perciò, dei naturali rimbalzi fisiologici che il grande capitale si concede per non affossare troppo i corsi.
Ciò porta ad una semplice constatazione: le borse più che luogo d’investimento sono oggi covo di speculazione, ignorando sistematicamente i fondamentali.
La liberalizzazione (globalizzazione) dei mercati porta con sé inevitabilmente l’incapacità degli stati a controllare i flussi finanziari, perciò anche l’impossibilità di tassare rendite finanziarie prodotte su piazze diverse dalle proprie.
E questa e l’evasione fiscale che colpisce ogni stato in modo considerevole, privando i bilanci di significative risorse.
Sono del pensiero che i rimedi sinora approntati per risolvere e superare la lunga congiuntura negativa siano solo dei surrogati provvisori e inefficaci a medio e lungo termine.
Obama, ora, pare propenso, con il proprio staff, a procedere alla riduzione della leva impositiva per le PMI, onde provare a rilanciare l’economia. Si dice, pure, pronto a ridurre il carico fiscale sul ceto medio.
Questa scelta, tuttavia, qualora venga eseguita non produrrà i risultati sperati, perché i consumi sono fermi e tale ripiego sarebbe dovuto essere eseguito all’inizio della crisi per dare ossigeno alle aziende che si stavano fermando.
Farlo a mercato fermo non ha senso perché la riduzione impositiva su dei redditi inesistenti non produce alcuna (o minima) risorsa. È solo una mossa populista per attrarre consenso politico nell’avvicinarsi delle elezioni novembrine di mezzo mandato.
Il ceto medio è quello che in teoria ha maggior possibilità di spesa durante una crisi; ma va pure sottolineato che in recessione anche il ceto medio riduce drasticamente le proprie spese.
Ronald Reagan, a suo tempo, operò una similare riduzione fiscale, cogliendo anche risultati positivi.
Va sottolineato, però, che l’economia di quel periodo era solo imballata e non nelle condizioni attuali di recessione e lunga stagnazione.
Similmente il debito pubblico era in pareggio e non al 10% del Pil come ora e il debito sovrano degli States era quasi inesistente, mentre procedendo di questo passo tra meno di un lustro questo raggiungerà il 100% del Pil americano.
Per fare un esempio pratico il disavanzo annuale del debito pubblico americano viaggia su percentuali simili a quelli della Grecia e il debito sovrano sta quasi emulando quello italiano.
Gli ingenti capitali immessi dagli stati o dalle banche centrali – Fed e Bce in testa – non hanno risolto il problema recessivo, ma solo sorretto provvisoriamente un sistema finanziario che stava crollando. E tanto Bernanke quanto Trichet hanno constatato che la crisi è sempre attuale e che durerà ancora a lungo pur con alti e bassi.
Tale rimedio, pur se tardivo, è stato utile per scongiurare il collasso globalizzato della finanza e dell’economia. Diversamente sarebbe stato il disastro.
Un po’ ovunque si è proceduto a sostenere istituti finanziari e grosse aziende, pur con modalità diverse da nazione a nazione, onde impedire che l’effetto domino contagiasse tutto il sistema strutturale.
Mai si è provveduto a correggere l’impostazione dei mercati finanziari con nuove regole atte a farli diventare luogo di investimento e non di speculazione.
Tutto ciò denota la mancanza di una chiara volontà politica di risolvere alla base le problematiche che hanno innescato, prima, e potenziato, poi, la crisi, conducendola alla recessione e alla stagnazione.
Volontà che non esclude l’incapacità politica di comprendere appieno causa ed effetto di ogni singola mossa.
Dal novembre scorso il rally della produzione cinese e indiana scema inesorabilmente, anche se ancora regge su valori positivi.
Un economista al convegno autunnale dichiarò che “l’economia cinese avrebbe fatto da traino alla ripresa dell’economia mondiale”. Frase che contestai affermando che solo la crescita dei consumi negli States avrebbe favorito la ripresa, perché lo sbocco della produttività dei paesi del Sudest asiatico sono principalmente i mercati occidentali; e, se questi languono, bloccano, o rallentano di molto, la stessa produzione.
Il volano dell’economia occidentale si è sempre basato sui consumi, o interni o nei paesi confratelli.
Una ripresa sicura, non può perciò prescindere dal rilancio dei consumi in occidente, dove ancora le famiglie hanno un reddito di gran lunga superiore agli scarni introiti (stipendi) dei paesi emergenti.
Dire, oggi, che l’economia della Cina sia la seconda al mondo è reale nel computo generale, ma non lo è in quello pratico, perché il reddito medio cinese è circa un decimo di quello occidentale.
E dove il reddito è scarso questo viene impegnato per la sopravvivenza, con la pratica conseguenza che il mercato interno non possa assorbire tutta la produzione destinata altrove.
Molti analisti temono che tra breve in Cina possa innescarsi la crisi dei mutui, di gran lunga più imponente e pericolosa dei sub prime americani, miccia detonante dell’attuale crisi.
E se ciò avverrà è ovvio che l’economia cinese dimostrerà d’essere un possibile gigante con i piedi d’argilla.
Va anche sottolineato che la Banca centrale cinese ha perso, per la crisi dei mutui americani, oltre 400 mld di $ sui mercati finanziari, imponente cifra credibile e dalla stessa comunicata.
La crisi e i rimedi attuali sono l’emblema del serpente che si morde la coda.
Ad ogni possibile rimedio sinora tentato vi è la controindicazione negativa che tampona il problema da un lato, ma lo aggrava dall’altro.
La riduzione della leva fiscale può potenziare i consumi, ma sguarnisce di risorse il fabbisogno statale creando, di conseguenza, ulteriore disavanzo pubblico, perciò aumentando il Debito sovrano. Anche ammesso che possa rilanciare l’economia, è ovvio che i risultati di un ritorno monetario fiscale siano solo a lungo periodo.
Lo stesso discorso vale per lo welfare che tutela la disoccupazione (sussidi o CIG), ma eleva ulteriormente il costo sociale sul bilancio.
E per queste semplici ragioni, in Italia e in tutti i paesi Ue, nessun politico, oggi, ritiene possibile una riduzione fiscale.
Gli incentivi, dove applicati, hanno sostenuto in parte i consumi, perciò la produttività e l’occupazione, ma hanno anche costretto il cittadino ad indebitarsi o a bruciare parte del proprio risparmio.
Gli aiuti delle banche centrali o degli stati ad aziende finanziariamente al collasso hanno salvato le stesse e il sistema, ma hanno ulteriormente dilatato sia il debito delle aziende che quello degli stati.
Il sostegno Ue e del Fmi ai paesi a rischio default ha permesso di salvare l’€ e la stessa unità Ue, tuttavia ha solo procrastinato il problema senza risolverlo. L’€ permane debole e si è, di fatto, svalutato rispetto ad altre valute, mentre i paesi pericolanti dovranno essere sostenuti ancora per anni prima che possano superare i loro problemi.
Tutto ciò porta ad una semplice conclusione: non vi è uniformità di veduta e di azione sulla crisi, perché a livello statale e internazionale non c’è la volontà politica di risolvere i problemi strutturali che hanno creato per decenni il problema.
E questi problemi sono principalmente: il debito sovrano e la speculazione selvaggia nei mercati finanziari, unitamente alla crescita continua del debito privato.
Ed oggi vi sono troppe multinazionali che influenzano pesantemente gli stati con i loro capitali, essendo alcune più potenti di molte nazioni, in grado di condizionare scelte economiche e finanziarie sia del debito sovrano che delle linee programmatiche economiche e strutturali produttive.
La Chiesa con Centesimus annus ha in pratica sdoganato il Capitale; ed ora continua sulla stessa linea d’azione, convinta che le banche – in Italia per lo più d’ispirazione cattolica nelle popolari o nel credito cooperativo – possano essere di sostegno sia alle PMI che al ceto popolare grazie al microcredito.
Il microcredito, tuttavia, non è la risoluzione del problema, ma solo un tampone provvisorio che può dare ossigeno alle piccole imprese e al ceto popolare, specie a quello rimasto senza lavoro: concede di tirare avanti per un certo periodo, ma non è in grado né di garantire e ridare l’occupazione, né di rilanciare i consumi e quindi la produzione.
Inoltre il credito concesso deve essere restituito e la contrattazione con gli istituti finanziari su tassi e spese non è affatto vantaggiosa per chi ne abbia estremo bisogno, ammesso che le banche rinuncino a determinate garanzie di futura solvibilità.
La Chiesa, inoltre, invoca una nuova classe dirigente politica, destinata negli intenti a sostituire quella attuale, usurata dagli anni, dal malcostume e dal malaffare.
Il creare una nuova aggregazione basata sulle radici cristiane non è il toccasana, pur se in teoria ciò fosse possibile.
Infatti, più che l’uomo cattolico, oggi esiste il personalismo individualista cattolico, che antepone l’interesse individuale, o di classe, all’etica comportamentale. Ciò porta inesorabilmente a far sì che la coscienza individuale ottenebri la visione complessiva di un progetto cattolico sociale di grande respiro: la stessa, per assurdo, che ha prodotto la Centesimus annus, basandola sulla fenomenologia personalista a deriva giansenista.
La crisi globalizzata impone un nuovo assetto di società, di capitale e di impresa radicati saldamente sul territorio, che creino un distretto sociale e produttivo, solidale e federalista, non solo in uno stato, ma anche nei vari continenti.
Per ottenere ciò bisogna avere le idee chiare in proposito – che già alcuni hanno formulato – e non solo postulati morali, politici o religiosi, stantii e basati su concezioni da tempo superate e di sola ideologia di base.
Perché auspicare è un conto, elaborare idee e progetti è un altro, e il realizzarli un altro ancora.
Serve innanzitutto una volontà politica ineccepibile capace di imbrigliare il Capitale globalizzato delle multinazionali e di renderlo un soggetto nuovo per l’utilità della Persona/Uomo, radicandolo nel territorio in maniera stabile come un necessario soggetto giuridico alla pari dell’impresa e delle maestranze.
Ciò implica un nuovo patto sociale che possa anche ridurre il diritto del lavoratore, ma in grado di garantirgli quella stabilità esistenziale che oggi manca un po’ ovunque.
Una stabilità esistenziale che comunque deve essere ridimensionata e sgombrata dal consumismo uso e getta.
Quello stesso consumismo che ha ridotto la famiglia a semplice contenitore, in grado di dare unione e stabilità solo sulla base di alcuni interessi, cadendo i quali tutto si sfalda.
E proprio ciò è successo nella finanza e nell’economia.
Per creare una nuova classe politica dirigente ci vuole una nuova cultura, diversamente si ricicleranno idee e persone che da anni hanno fatto il loro tempo.
Il cittadino si è disaffezionato alla politica e l’astensionismo alto ne è il termometro naturale.
Tuttavia non solo la politica deve essere aggiornata e riformulata con nuovi uomini politici d’estrazione cattolica, ma anche la Chiesa, forse, ha bisogno di pensionare molti dei propri Pastori.
La Gens cattolica non solo non segue più il politico di riferimento culturale, ma spesso non si riconosce neppure più nel vertice ecclesiale.
2 commenti:
Gentile Sam la seguo sempre con estremo interesse.
I suoi articoli entrano sempre nel vivo della questione senza servilismo alcuno, denotando una grande indipendenza culturale.
Ultimamente i suoi articoli economici mi hanno frastornato, considerato che mettono la crisi in un vicolo cieco dalla qyuale è difficile uscire. Difatti si sta trascinando da lungo tempo.
A me pare che i governi abbiano fatto il possibile, specie il nostro, anche se i risultati non sono stati eclatanti e hanno solo salvato la situazione.
Ciò nonostante lei afferma che non vi è la volontà politica di voler affrontare alla radice il problema.
Credo che la situazione sia tanto complessa e di non facile soluzione perché tutta l’economia globale soffre di mali comuni, avendo l’indiziato principale nel debito sovrano consolidato.
Se abbiamo retto una certa positività c’è; diversamente saremmo affogati.
La saluto cordialmente.
A.V.
Premesso che non sono il Padre Eterno, parto dal presupposto che pure il mio pensiero è parziale, perciò carente e sempre perfettibile, magari pure errato.
Condivido il suo pensiero; anche se annoto che, a mio parere, i rimedi alla crisi sono stati insufficienti, tardivi e spesso anche carenti nell’eziologia.
I Governi han fatto quel che hanno potuto, e con ciò intendo pure politicamente; perciò condizionati dall’elettorato di riferimento o dai gruppi industriali/finanziari di appoggio.
E per farsene un’idea basta seguire i “sermoni” della Mercegaglia o il pontificare di alcuni top manager che vanno per la maggiore, intenti, ovviamente, a curare più gli interessi (business) del rispettivo gruppo invece di quelli della nazione, pronti, come sempre, a spostare altrove i propri poli se il guadagno è maggiore.
Perché, dicendola tutta, siamo tutti italiani o europei “globalizzati”, ma ognuno per l’interesse proprio.
Ciò implica un’idea distorta della democrazia e la concezione d’essere classe/lobby/gruppo invece che Popolo.
Quando lei afferma che “tutta l’economia globale soffre di mali comuni” porta il discorso a sottintendere che questi mali, essendo generalizzati, devono essere prontamente corretti se non si vuole che tutto crolli come un castello di carte.
Perché il problema è proprio quello: oggi l’economia e la finanza, compresi i grandi capitali, si basano sull’esposizione finanziaria generalizzata, tanto pubblica che privata.
In pratica siamo come i miserabili di Hugo, che procedono verso il baratro sostenendosi l’uno con l’altro.
Da decenni ci affidiamo al Debito e questo ha continuato a crescere. Continuando di questo passo si arriverà al giorno – come avvenne in Argentina – che gli interessi saranno maggiori delle entrate. Ed allora il default sarà inevitabile.
All’ultima riunione del G 20 si stabilì che ogni paese avrebbe dovuto dimezzare il proprio Debito sovrano entro il 2016. Ciò sarà assolutamente irrealizzabile.
Rapportando questa decisione all’Italia, e tralasciando la manovra correttiva già stabilita per il biennio prossimo, vorrebbe dire far rientrare il Debito sovrano di circa 150 mld d’€ all’anno. E la nazione potrebbe sopportare una tale manovra capestro per un anno, ma non reggerla per il secondo, perché tutti sarebbero strozzati: aziende e cittadini.
Si salverebbero i “soliti” benestanti, quelli che con la globalizzazione hanno l’utilità e la possibilità di spostare i propri capitali altrove (se non l’hanno ancora fatto), ai quali l’essere italiani o europei equivale solo al riconoscere il proprio luogo di nascita. Perché, se potessero, avrebbero già variato anche quello.
La ringrazio dell’attenzione
Sam Cardell
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