Natale 2010 con la … Sla.
Premessa
Nella tarda primavera un amico non tanto anziano – che non ha famiglia - comincia a faticare a reggersi in piedi a lungo. Non sente dolore, ma grande debolezza negli arti inferiori per cui deve spesso sedersi.
Inquadro la sua disfunzione momentanea in un’acuta mialgia; ma poi noto che questa, nonostante le cure, accentua i propri disturbi.
Nel camminare un giorno non “vede” un piccolo gradino e cade malamente inciampando. Lui afferma che non l’ha notato anche se sapeva perfettamente che c’era. E la cosa mi preoccupa.
Non sono medico; ma mi basta per indirizzarlo verso un conoscente, dotto professionista nella neurochirurgia spinale. Il mio sospetto è che dietro questi sintomi vi sia la terribile Sla.
Ovviamente, seguendo le indicazioni del suo medico, fa un’altra trafila diagnostica, anche se, ai fini pratici, una diagnosi immediata avrebbe cambiato poco l’essenza delle cose.
Dopo un paio di mesi, circa a metà agosto, una mattina deve gettare la spugna non riuscendo più a reggersi, anche perché lo sforzo gli produce oltre ad una spossante prostrazione fisica dei forti dolori che non si manifestano quando sta disteso o in assoluto riposo.
E qua comincia il suo calvario in un letto d’ospedale.
…
Ora, a pochi mesi di distanza, ha perso prima l’uso di entrambi gli arti inferiori, poi del braccio sx ed ora sta perdendo pure il dx.
Per girarsi a letto ci devono essere delle persone che lo spostano; e la stessa cosa per metterlo su una sedia a rotelle, per lavarlo e per tutte quelle mansioni che regolano quotidianamente la vita di tutti, compreso l’assumere cibo.
Deve essere assistito per mangiare e bere.
Insomma: una devastazione assoluta.
Ogni settimana, appena posso, passo alcune ore da lui, accanto al suo letto o scorazzandolo su una sedia a rotelle tra i corridoi dell’ospedale se se la sente.
La lingua e il cervello è ancora ciò che gli funziona perfettamente, anche se una bianca bava salivare si nota sempre maggiormente all’estremità sx tra le labbra e la sua voce si affievolisce sempre più. È l’indice dell’avanzante paralisi anche del cavo orale/digestivo. A cui seguirà quella dei polmoni.
Un giorno sono in visita con mia madre e lo rimprovero (positivamente) per il suo lamentarsi perché la lingua e la testa sono sempre buone.
Rivolto a mia madre dice: spero che presto mi vada fuori fase anche quello (cervello), in modo che non capisca più lo stato in cui sono!
È Natale!
Il pronunciarlo, però, ha in tali casi un sapore diverso: non tanto di nascita/speranza, bensì di devastazione/impotenza e di morte.
E ciò mi porta a quell’amico religioso che anni fa mi manifestò[1] la sua riluttanza a concepire compiutamente il sacrificio del Figlio voluto dal Padre nella storia. Religioso oggi devastato dal Parkinson.
La vita spesso è un mistero; e il mistero è una tematica che talora intuiamo, ma che non sappiamo recepire e capire totalmente.
E, come il religioso citato prima, pure noi davanti a queste situazioni vacilliamo ideologicamente sulla finalità del nostro essente.
Ci aggrappiamo talora alla fede; a una fede che davanti all’impossibilità di avere valide e logiche risposte diventa tremebonda e fragile, anche se è tenace.
Perche? Perché proprio a me (o: a lui)?
Lo scorso anno dicevo:
“Noi tutti siamo nudi: nudi perché indifesi.”[2]
E qual è la nudità maggiore se non quella di non essere autonomi e del dover dipendere in tutto dagli altri anche nei bisogni primari e fondamentali?
L’essere totalmente indifeso!
Dire “Buon Natale” a costoro sembra una beffa, perché percepiscono la loro assoluta impotenza al continuo decadere fisico. E lo sconforto diventa maggiormente atroce quando questo è alimentato dal nostro disinteresse reale, pur manifestando noi quello di circostanza.
Eppure stasera, lasciando l’amico dopo avergli praticato a lungo della fisioterapia riabilitativa mentre si chiacchierava, gli ho detto: “Buon Natale! Ci vediamo domenica.”.
“Ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste …” (Mt 25,36).
Spesso l’indifeso bisogna rivestirlo di affetto e l’affetto ad un infermo lo si dimostra visitandolo con continuità, facendo “nascere” in noi l’interesse per lui e in lui l’interesse dell’amorevole considerazione che gli si porta.
L’affetto sincero porta l’infermo a superare con maggior volontà e tenacia le avversità, perché sente al suo fianco delle persone che lo amano e che lo assistono; e che comunque, anche nel deperimento continuo, comprende che lui è importante per noi nel suo esistere: ci dona l’amore di saperlo aiutare, in quella carità fattiva che vede in lui lo stesso Gesù che dona grazia e misericordia anche nel sacrificio di nascere Uomo, prima piccolo e indifeso al freddo di una grotta per morire poi, da grande, sulla croce.
La semantica della croce, unita alla sua criptolalia, esprime perfettamente l’incedere finale umano verso quella fine naturale che noi tutti chiamiamo morte, per distinguerla dall’inizio che denominiamo nascita.
Alfa e omega: che coincidono sempre con il dolore d’entrare in un mondo e di lasciarlo.
Non tutti però sono indifesi nel fisico; alcuni lo sono anche nell’equilibrio psicofisico o nello stress quotidiano dovuto magari a delle problematiche complesse.
E quest’essere nudi spesso sfugge ai più, anche perché il pudore (orgoglio) di ognuno cerca di celare non solo la propria eventuale povertà economica, ma pure quella fisica e mentale.
Il nostro voler sembrare si sovrappone quasi sempre e esattamente con il nostro cercare d’essere: un’aspirazione contrastante alla realtà contingente.
Una realtà che cerchiamo quasi di nascondere e che perciò è molto più difficile da percepire dell’infermità fisica.
L’uomo dei nostri giorni ha sempre meno tempo e spazio per meditare, perciò di pensare a sé stesso e alle sue finalità: una socialità sempre più ristretta che impone la frenesia quasi in ogni nostra azione.
E smarrendo il nostro tempo e spazio perdiamo anche il nostro essere uomo e persona, clonandoci in oggetti che usano altri oggetti in ogni senso: stanze/case sempre più piccole e tempi operativi ridotti che ci portano sempre a dover correre senza lasciarci il tempo di riflettere e di realmente amare.
E da un mondo patriarcale e rurale siamo passati ad uno di comunicazione virtuale in quasi ogni azione che espletiamo nella vita giornaliera: virtuale perché ci pare di condividere e fare, ma che nella realtà isola sempre di più tutto il nostro essere.
L’amore coniugale è diventato, travasandosi, di norma un compito da espletare in 5 minuti alla fine della giornata scambiandolo per il semplice rapporto sessuale; quello per la prole o per il coniuge un servizio che si dà senza poter comunicare e condividere, e quello per i genitori o parenti un disturbo che si vorrebbe delegare ad altri.
In pratica ci appartiamo sempre più senza comunicare e senza dare e ricevere Amore, pretendendo continuamente il diritto e dimenticando il dovere.
Il diritto bisogna meritarselo (conquistarlo); perciò è fortemente congiunto al dovere.
E la tecnologia che inseguiamo ci isola maggiormente, pure alla mensa familiare, con televisori, Pc o telefonini che ci derubano del tempo che dovremmo riservare ad altri nel comunicare: amici, parenti, familiari … bisognosi.
Leone[3] così raccontava:
“Mi fermai accanto e gli feci un attimo compagnia. L’uomo era … nudo, ma mi … riscaldava. Io ero vestito, ma non sapevo … riscaldarlo.”.
Quante volte vediamo la nudità altrui ma non sappiamo riscaldare l’altro e con lui noi stessi, sia che si sia pastore o pecora del gregge?
E, strano mondo, i primi ad accorrere a riscaldare Gesù appena nato furono proprio i pastori con il loro gregge di pecore o di armenti. Almeno così racconta la tradizione.
E nel riscaldarlo infiammarono pure la loro speranza in un futuro migliore, anche se assai nebuloso.
Pastori/uomini semplici che accolsero il tempo (invito) per fare visita al neonato, perché la nascita è l’inizio sempre di qualcosa: della creazione, dell’uomo, del nostro … essere (dedicarci) anche altri nella società.
E col tempo trovarono poi il loro spazio (finalità) nella storia.
È Natale!
“lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia … troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia (Lc 2,6;12)”.
Un neonato, per sopravvivere, ha bisogno che i genitori si prendano totalmente cura di lui, piccolo essere indifeso.
Si spera che viva, cresca e diventi adulto.
L’ammalato grave è come un neonato nudo: ha bisogno di tutto per poter vivere.
Pure lui spera sempre di poter guarire, di fortificarsi e di esistere ancora, pur nella virulenza del male.
La solidarietà sociale ha creato ospedali, la ricerca tecnologia e medicine, il volontariato personale che assiste in molti casi. Tutto ciò, però, non ci esime dal delegare all’organizzazione sociale la cura del nostro prossimo, perché l’affetto/amore ha bisogno dell’amico e del parente: necessita del calore dell’amore che solo chi ti sta veramente vicino sa dare.
A Natale il consumismo impone i regali, sostituendoli con quelli che dovrebbero essere i doni.
I regali spesso sono superflui e presto vengono accantonati e dimenticati.
Eppure tanto i pastori quanto i Magi portarono dei doni e non dei regali, ognuno in base alla propria possibilità.
Pure il solo visitare è un immenso dono, perché dà a chi lo riceve l’attenzione della sua importanza che lui ha in noi, piccola o grande che sia.
Per l’ammalato e l’infermo la visita è un’immensa gratificazione: egli si sente soggetto nella nostra vita e non oggetto usato finché serviva e poi subito dimenticato.
I pastori dormivano, oppure vegliavano i loro armenti; era notte fonda.
Tuttavia all’annuncio dell’angelo (Lc 2,9-14) si misero in fretta in cammino, non spinti dalla curiosità di accertare la veridicità di quanto a loro detto, ma per dimostrare la loro fede e riconoscenza al Messia da lungo annunciato, in quell’essere presenti nell’anima che è l’accettare la salvezza in condivisione con Dio e con il suo Popolo.
La salvezza non è dovuta alla predestinazione, ma al nostro vivere nella socialità della carità, pure nel condividere con gli altri le debolezze, le difficoltà, le amarezze, il consiglio, le problematiche, il dolore, l’afflizione, lo sconforto, l’infermità … e anche la gioia. Talora pure la morte, perché anche questa è un atto della vita.
È Natale!
E lo è per tutti, perché è speranza di salvezza.
Lo è per chi crede e per chi non crede, specie se la nostra testimonianza saprà dare luce al nostro vivere nel donarci agli altri nelle necessità.
Il dono è una testimonianza e la testimonianza è lo stare accanto a qualcuno, specie se costui soffre o è momentaneamente inerme.
Un neonato è impotente e senza i genitori perirebbe; ma lo è pure l’adulto quando la deficienza fisica lo rende bisognoso dell’aiuto altrui nella sua necistà totale.
E la presenza solidale è calore e conforto, donando a chi la riceve e la dà la speranza in un futuro, anche se la degenerazione fisica è inarrestabile.
La teofania della Natività pone in rilievo l’attenzione che dobbiamo rivolgere all’altro.
I pastori si incamminarono prontamente alla ricerca del bimbo, senza porsi minimamente il quesito se fossero stati accettati o respinti per la loro relativa importanza sociale.
Il possibile “No!” non era un loro problema, perché nell’incamminarsi s’erano già resi disponibili: davano già tutto di loro stessi.
Spesso nella mia vita mi sono trovato davanti ad inghippi procedurali, di norma altrui, per risolvere i quali ho bussato a molte porte, spesso ricevendo anche dei “No!”.
Sono dell’idea che un diniego sia nell’ordine delle cose, nel rispetto dei ruoli e della disponibilità sociale e culturale di ognuno. Ciò non mi ha mai offeso, perché la risposta negativa ha “dimostrato” il valore reale dell’altro: il suo individualismo ed egoismo, oltre che, molto spesso, il suo smisurato orgoglio che gli impediva di mettersi in gioco.
Tuttavia ho sempre preteso che questo diniego fosse motivato, perché l’ho sempre richiesto nella liceità sociale ed etica, oltre che nelle possibilità della persona interpellata. E, astenendomi dal giudicare, ho “capito” le motivazioni altrui, magari non condividendole: cioè il suo essere uomo e persona, diverso culturalmente da me e da chi nel bisogno in quel momento fosse stato.
Se l’aiuto richiesto viene negato, il soggetto interpellato dimostra la sua “socialità” relativa, perciò, per un cristiano, la sua carente carità o disponibilità verso l’altro.
Ne sortisce una personale dicotomia edulcorata: legalmente corretta, moralmente discutibile.
Credo che il dare aiuto a chi è nella difficoltà – e per aiuto ci sta pure il consiglio nel dialogo – sia un dovere sociale del cristiano.
L’aiuto non è solo quello materiale/economico e spazia in ogni campo, specie là dove il soggetto si trova momentaneamente in difficoltà, perciò pure nella malattia invalidante, talora anche psicologica.
Perché quello che ad uno è biologicamente (in forza o in intelletto) negato, può essere consentito ad un altro.
Aiutare è spesso capire, e il capire entrare nella vita altrui, se accettati, dando quell’amore che può essere su gradini diversi: solidarietà, filantropia, carità.
Perché, in ultima analisi, l’uguaglianza è l’essere tutti uguali pur nella diversità che ci contraddistingue. Una diversità che non è mai limitazione, ma valore aggiunto ed equilibrio in una società evoluta, anche e soprattutto nella malattia.
A te, caro amico con la Sla e ormai totalmente inabile
e pure a te, caro religioso devastato dal Parkinson
e anche a tutti voi che mi seguite da tempo
vada il mio sentito e sincero
Buon e felice Natale 2010!