domenica 9 novembre 2014

Renzi e Obama: un destino già scritto.

 
Il Senato americano – come si sa - non è eletto in un’unica votazione, ma ha la peculiarità di essere rinnovato in parte ogni 2 anni, anche se il mandato parlamentare dell’eletto dura 4 anni.
L’elezione appena conclusa – si eleggevano anche i governatori – ha sancito (non a sorpresa) la grave sconfitta dei Democratici; i quali, dopo la maggioranza alla Camera persa in precedenza, hanno ora ceduto pure quella del Senato ai Repubblicani.
La sconfitta è ritenuta da tutti una sconfessione per Obama da parte dell’elettorato, considerato che i Democratici hanno perso in stati chiave a loro sempre favorevoli.
Il Presidente si era adoperato assai durante la campagna elettorale, specie nel suo stato d’origine. Il risultato, tuttavia, non è stato per nulla favorevole né al Presidente, né al suo partito, sonoramente battuti.
Obama 2 anni fa era stato rieletto con un buon successo, nonostante gli scarsi risultati ottenuti nel suo primo mandato. L’elettore gli aveva dato credito sia delle buone intenzioni, sia delle difficoltà politiche e internazionali insorte.
Che a metà del secondo mandato il partito di maggioranza sia battuto è, in America, un fattore quasi strutturale. Pochi presidenti, infatti, nel passato hanno evitato d’essere l’anatra zoppa.
Le colpe di Obama sono tante e poche nello stesso tempo. Tante, perché delle promesse fatte a suo tempo all’elettorato ha realizzato solo quella della riforma sull’assistenza sanitaria, estendendola a una maggiore platea. Poche perché tante situazioni le ha ereditate dall’Amministrazione precedente. E a poco vale il bell’indice Pil ottenuto nell’economia nazionale che tira positivamente con buoni risultati, al contrario di quella Ue che da anni è al palo e peggiora.
Questo, tuttavia, considerato il bilanciamento di poteri esistente, è da ascriversi per lo più alla Fed, che grazie al suo statuto particolare può operare autonomamente anche rispetto al Presidente. Val la pena sottolineare, però, l’esplosione del Debito sovrano, che, oltre a raddoppiarsi, sarà una palla al piede dell’economia futura. 
 
Gli U.S.A. da alcuni decenni hanno assunto il ruolo di gendarme internazionale; ma il loro (spesso) miope imperialismo li ha portati in un groviglio politico internazionale da cui non riescono più ad uscire. Pur essendo lontana, la disfatta in Vietnam pare non aver loro insegnato nulla.
Perché, con chi ha una mentalità culturale molto diversa da quella occidentale, una sconfitta militare provvisoria non inficia la resistenza, prima passiva e poi attiva, in grado di ribaltare più avanti la situazione. Ciò è avvenuto prima per i russi in Afghanistan e ora per gli americani, là e altrove.
Controllare i sassi non significa nulla; controllare le coscienze, la volontà e la potenziale ribellione delle persone è ben altra cosa che non può essere raggiunta con le sole armi. A meno che si decida di procedere con la distruzione totale della popolazione grazie alla supremazia dell’attacco nucleare. Non per nulla i popoli biblici passavano a fil di spada tutti gli uomini, facendo schiavi solo donne e bambini.
Gli occidentali hanno costruito lo stato moderno fondandolo sul nazionalismo, perciò sull’orgoglio dell’appartenenza. Gli altri su un agglomerato tribale, dove il cittadino è un numero con propria entità fisica individuale. Perciò uno stato fragile e nello stesso tempo facilmente variabile che poggia, per lo più ma non sempre, sull’appartenenza ad un credo religioso.
L’esportare con la forza degli eserciti la “democrazia” occidentale è stato sia un grande sbaglio, sia un’enorme sciocchezza. Perché la democrazia oggi è mal compresa anche dagli stessi occidentali, giacché si ritiene che questa debba garantire i diritti, svincolandola però dai doveri. Figurarsi poi in chi la democrazia la intende come solo potenziale benessere.
Il mondo dal nazionalismo sta ora puntando sul regionalismo, che in ultima analisi è nella realtà un nazionalismo localizzato in una determinata aerea geografica.
 
I risultati di Obama in politica estera sono fallimentari. Non per nulla la Cina ha emesso un comunicato sul risultato elettorale, dove parla di Obama, presidente incapace e insignificante. E molti, pure negli U.S.A., lo ritengono non a caso il peggior presidente dal dopoguerra.
In politica economica non ha modificato nulla del sistema finanziario, che è poi quello che ha prodotto la crisi. Buon per lui e per gli U.S.A. che la Fed, con i vari programmi di Quantitative easing, ha sostenuto e salvato il sistema bancario e industriale, puntando dritta sul monetarismo e tenendo basso il valore del $, onde sostenere l’esportazione.
Tutte cose che, oltre alle mancate molte promesse, hanno spaventato il cittadino americano, impaurito più da una possibile drastica riduzione del benessere futuro che dalle varie guerre attualmente in corso e … lontane.
Guerre, comunque, il cui costo non è sopportabile a lungo dall’economia nazionale, senza dilatare ulteriormente il Debito sovrano e correre verso un Fiscal cliff incancrenito, preludio a un crack finanziario strutturale.
Renzi, dal canto suo, di promesse ne ha fatte e ne fa a iosa. Basta che apra la bocca e queste sgorgano come l’Arno in piena. Peccato per l’Italia e per lui che non dica mai come intende realizzarle.
A un locale convegno di Confindustria di pochi giorni fa, per due terzi del discorso ha inanellato sperticate lodi (degne da lecchino d’oro) all’industria locale, affermando pure che è meglio della Baviera. Ovviamente sottacendo che mentre in Baviera le industrie viaggiano, producono utili e occupazione, qua sono in crisi, cassa integrazione e con bilanci in rosso, quando non chiudono.
Poi, per farcire la torta, per il terzo terzo ha fatto una valanga di promesse, degne d’imbonitore maliardo, senza attirare le simpatie dell’assemblea che, dati i requisiti professionali, guarda al sodo e non alle chiacchiere.
 
Ma se Obama è stato eletto dal popolo per 2 volte alla presidenza, Renzi alla presidenza ci è andato per 2 motivi non elettivi: il primo operando un colpo di mano nel Pd grazie ad un manipolato voto esterno, il secondo grazie a dei poteri forti che l’hanno finanziato, non tanto convinti che fosse l’uomo giusto per l’Italia, ma quello per i propri interessi.
Ne consegue che nonostante la vis polemica con tutti – Pd, Parlamento e Ue – e il piglio da novello duce, perda gradualmente consensi nell’opinione pubblica, che, come si sa, è spesso più attenta alle facili promesse che alla possibile realizzazione delle stesse.
Non per nulla – ed è la convinzione di molti analisti – l’ascesa di Renzi in politica parte proprio da quella cena a 2 in quel di Arcore, prolungata poi con i vari incontri del Nazareno.
Le contestazioni al Premier stanno comunque diventando sempre più frequenti e significative. Nel popolo si esplicano già nelle frequenti manifestazioni di piazza i primi movimenti tellurici.
La Finanziaria (Legge di stabilità – per favore la si cambi di nome, considerato che di stabile proprio non ha nulla -) è stata presentata in un modo quasi borioso contro l’Ue. Salvo poi correre subito a correggerla di ben 4,5 mld per una semplice richiesta chiarificatrice di prassi. Correzione che, ovviamente, non sarà sufficiente e che – a mio modesto parere – dovrà essere rimpolpata con almeno altrettanta cifra se la Commissione vorrà essere oggettiva.
Questo solo per dire che mentre Renzi imbonisce l’opinione pubblica nazionale con le sue scaramantiche frasi da gradasso – Non andremo a Bruxelles con il cappello in mano – in realtà poi corra subito ai ripari, calando il “cappello” molto più in basso, non avendo neppure a disposizione le adamitiche foglie di fico per coprire le gravi lacune italiche (il re è nudo).
La mia impressione, a carattere istituzionale, è che, in effetti, Renzi ricopra un ruolo fittizio, visto che il vero Premier mi pare Napolitano, intento a richiamarlo al Quirinale quasi giornalmente, onde impartirgli le disposizioni necessarie su come procedere.
Mai, a memoria mia, ricordo un simile andirivieni di un premier chiamato al Quirinale per consultazioni.
 
Renzi, come Obama, ha ereditato una situazione economica e politica ingarbugliata. Che, secondo il suo modo di procedere, sta ulteriormente complicando.
Con l’Ue è in rotta di collisione; e la luna di miele diplomatica dovuta alla cortesia istituzionale è finita da tempo in un botta e risposta mortificante per l’Italia.
Che poi Juncker addolcisca diplomaticamente il suo duro comunicato di risposta “con il mio amico Renzi” non significa proprio nulla, perché diversamente dovrebbe dire peggio; e sarebbe offensivo se non altro per le istituzioni di un Paese membro che il Premier italiano rappresenta.
 
La crisi mondiale attuale ha molti padri e trae la sua origine dagli anni ’90. Ne consegue che i politici attuali – Obama e Renzi tra questi – siano in realtà tra i meno colpevoli.
La loro colpa, è, tuttavia, un’altra e non meno importante: quella di voler raddrizzare la barca che procede in un mare burrascoso senza provata capacità e professionalità, quasi andando allo sbaraglio.
Perché è indubbio che il popolo sia facilmente abbindolabile in campagna elettorale (politica o di segreteria) con facili promesse demagogiche e populiste, oppure con mancette elettorali; ma, poi, quando questi si avvede che la situazione peggiora anziché migliorare, è naturale che tolga col voto il proprio consenso elettorale.
Ciò è avvenuto già a Obama. E avverrà pure a Renzi se continuerà sulla falsariga attuale.
Se ciò accadrà, Renzi sarà tramandato alla storia come un ragazzo presuntuoso e arrogante che ha voluto ricoprire un ruolo per lui improponibile, senza le necessarie capacità e senza un effettivo consenso popolare.
 
Renzi ha un bel dire che bisogna smettere di piangersi addosso, considerato che da inizio crisi la politica ha sempre fallito, peggiorando continuamente la situazione.
Sarebbe interessante disquisire se in buona parte la crisi dei paesi Ue non sia addebitabile all’, costruito e realizzato in modo maldestro e infame, atto a favorire qualcuno e a danneggiare altri.
Perché è facile pensare che per rilanciare la crescista basti pagare 50/100 mld di debito dovuto alle imprese dalla pubblica amministrazione, perché questi tornino in circolo e producano (rilancino) investimenti, anche se ciò non corrisponde alla realtà.
In economia si investe dove la possibilità di reddito è reale, non dove la tassazione e il rischio è elevato, dove l’impianto strutturale statale è in disfacimento, dove le regole locali penalizzano imprenditoria e occupazione. Perché val la pena chiedersi perché un’opera realizzato da un privato costi ad esempio 100, mentre se la stessa è realizzata dallo stato costi molto, molto di più.
Lo Stato non può sempre fare il volano dell’economia, spendendo più di quel che dovrebbe, perché ciò poi diventa un costo che crea uno sbilanciamento economico e reale notevole, pagabile poi negli anni futuri.
In Italia e in Ue si addebita la mancata ripresa italiana alle riforme non fatte. Però se le riforme (Legge elettorale, Art. 18, Senato non elettivo,  …) sono quelle che sono in cantiere è ovvio che la ripresa latiterà ancora parecchio, acuendo disoccupazione e crisi. Non possono creare occupazione, non essendo parametri economici.
Se le aziende – come la Fiat – spostano altrove la propria sede e il proprio baricentro è perché là hanno margini economici (minore tassazione) maggiori che in Italia.
Se l’Irlanda ha messo a segno un Pil quest’anno del 5%, ciò è dovuto non alla bravura e laboriosità degli irlandesi, ma alle facilitazioni fiscali che è in grado di garantire alle aziende che là portano lavoro. Diversamente non avrebbero potuto ottenere un simile risultato, perché le stesse aziende sarebbero rimaste dov’erano prima a parità di benefici.
L’Italia “renziana” non può abbattere il costo del lavoro, né ridurre l’imposizione fiscale, perché ciò significherebbe avere minori introiti e proiettare in alto il proprio Debito, portando lo Stato all’implosione strutturale di bilancio. È in una spirale strutturale che si chiama Ue. Là deve operare perché le vere riforme vengano fatte.
La crisi nei paesi periferici resterà tale finché nell’Ue, oltre alla moneta comune (€), non vi saranno regole comunitarie che pongano tutti sullo stesso livello – imposizione fiscale, costo del lavoro, stato sociale, costo del danaro, accessibilità al credito, … -, togliendo quegli squilibri strutturali che portano le nazioni a farsi una concorrenza spietata tra loro, creando poi quei dissesti strutturali (come l’Irlanda col salvataggio delle banche) che hanno poi dovuto essere ripianati da interventi comunitari, addossando alle nazioni in difficoltà ulteriori costi aggiuntivi.
 
Le troppe promesse sono deleterie, anche se di primo acchito possono arrecare consenso. Perché il vecchio detto sapienziale “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” indica appunto che in politica il guado del Mar Rosso si basa sì sul consenso, ma pure sulla capacità di realizzare le promesse fatte.
In politica il mare è composto da: competenza, capacità e lungimiranza. Mai dal solo interventismo fine a sé stesso.
Diversamente si finisce nell’ignominia della futura e sicura bocciatura elettorale.
 

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