Questa frase la si attribuisce a Galileo, mentre era dedito sia alle osservazioni astronomiche sia alle susseguenti derivazioni filosofiche/teologiche.
Proviamo ad … imitarlo con alcuni brevi pensieri.
Prima, se il Governo doveva fare qualcosa, le opposizioni dicevano subito “No!”, magari etichettandola come legge ad personam o con conflitto d’interesse. Ovviamente si era in un sistema bipolare e se una parte diceva bianco l’altra urlava subito nero. Il bene comune e l’interesse nazionale erano, nella pratica, l’interesse della propria fazione, anche se la necessità dell’azione implicava una convergenza comune su quel problema.
Ora, miracolo dei miracoli, essendoci un tecnico, tutti sono concordi a concedere la fiducia, magari mugugnando in cuor proprio. Siamo nell’ammucchiata quasi generalizzata. Dire inciucio sarebbe forse offensivo all’orecchio … di alcuni.
La realtà è però ben diversa: senza voto di fiducia questo Governo va sempre sotto per interesse trasversale anche più volte al giorno, nonostante possa contare su una maggioranza bulgara. Di fatto non vi è né una maggioranza politica, né una tecnica; vi è solo la paura del contingente calata dall’alto sotto mentite spoglie.
L’Italia ha (aveva) un sistema bicamerale, utile in democrazia a controllare che qualcosa non sfuggisse. Però questo bicameralismo perfetto oggi è reso nullo proprio dai continui voti di fiducia. Se qualcosa viene modificato in un ramo del Parlamento il Governo procede subito con un emendamento, ponendo subito il voto di fiducia. Ottenutala si va nell’altro ramo e la si pone di nuovo, sistemando capra e cavoli secondo l’unico volere del governo. Vi è un deterrente per ottenerla: la minaccia che in caso diverso il differenziale esploderebbe di nuovo nel mercato, anche se non si spiega chi lo manipoli astutamente e interessatamente.
Del voto di fiducia negli ultimi anni si è abusato assai.
La concertazione con le classi sociali ora appare solo un escamotage di facciata, utile a mostrare con i media che siamo sempre e ancora in democrazia. Quale? Quella del governo di tecnici, ovviamente. Ecco perché gli accordi – secondo Monti – non sono affatto necessari.
Sicché la democrazia del voto popolare è stata turlupinata: prima imponendo alla nazione un governo tecnico – direi, visti i redditi, oligarchico/tecnocratico/plutocratico -, poi i due rami del Parlamento che restano solo a fare il lacchè di turno, svuotati in questo modo della loro competenza.
È finita la democrazia e siamo passati ad un regime pre-dittatoriale? Sì, se si considera che da molto si seguano le imposizioni esterne dell’alta finanza; no, se si considera che comunque il voto popolare potrà rovesciare tra poco questa sconcertante situazione.
Però molti già ipotizzano, per il dopo elezioni, un Monti bis. A che servirà, allora, andare a votare?
Il Pdl ha la responsabilità del sostegno al governo. Diversamente questo sarebbe subito travolto. Però, vista la dissociazione della Lega alla politica intrapresa dal centrodestra, il suo sostegno non è sufficiente; ed allora ecco una nuova grande coalizione, con centro e centrosinistra necessari a puntellare una maggioranza solo di facciata.
Per la verità il centro sarebbe superfluo; ma all’Udc si è pensato bene che era necessario rientrare nei giochi per non perdere il treno, pur se con percentuale esigua, raccogliticcia e assai disomogenea, dopo aver rischiato per qualche frazione di punto di essere estromessi dal Parlamento nelle ultime elezioni.
Non per nulla Casini è sempre il più entusiasta dell’operato e delle decisioni del governo Monti; molto meno i suoi alleati nell’Unione di centro: Fli e Api. Pare colui che dice sempre entusiasta: Signorsì! Forse sta facendo ancora la … recluta.
L’umore degli italiani è molto diverso rispetto a quello dei parlamentari e il malcontento serpeggia ovunque sempre più. Non per nulla chi crede ancora nell’operato dei partiti è solo il 4% degli elettori, cioè 1 su 25. Ciò significa che i partiti hanno fatto default e perciò si giustifica sia il sostegno all’attuale governo, sia la resistenza ad andare subito alle elezioni, che vedrebbero favorite assai le attuali compagini che stanno all’opposizione parlamentare e extraparlamentare.
La crisi continua ad accentuarsi, la disoccupazione e la CIG a crescere, la recessione si fa largo, le tasse hanno portato l’Italia all’invidiabile (detestabile) medaglia d’oro nel mondo, l’inflazione a crescere, la svalutazione promossa dal quantitative easing della Bce serpeggia, … la povertà si incrementa nei ceti popolari mentre il ceto medio tende a diventare esso stesso popolare. In compenso i benestanti e le caste accrescono i loro redditi e privilegi a discapito di tutti gli altri.
Comunque, stando ai proclami, l’Italia sta superando le aspettative sia dell’Ue che del mondo intero. Quali non si sa se non quello chiaro a tutti che procedendo con questa politica di austerità e di rigorismo penalizzante siamo incamminati verso una deriva economica e di bilancio di tipo … greco.
Certi redditi sono inconcepibili sia nel privato che nel pubblico. Qualcuno grida la sua “innocenza” affermando che guadagnare molto non è un reato in Italia, ma lo è il non pagare le tasse.
La seconda parte del ragionamento è condivisibile; la prima eticamente errata e scorretta. Infatti, si possono capire certi redditi di impresa o di capitali, ma non quelli di … un avvocato (o altro) che a conti fatti dichiara ben 40 mln di vecchie lire nette al giorno. Ciò, più che un reddito, pare una rapina continua verso i … malcapitati clienti, pur nell’ipotetico valore professionale dell’interessato.
Per non dire dei grandi top manager, che in un mese possono beneficiare anche del rapporto – in certi casi – di 1 a 800 rispetto alla media dei loro dipendenti. Se non è scandaloso è, di sicuro, eticamente deplorevole e cristianamente … peccaminoso.
Nel settore bancario, secondo dati Abi, il rapporto del manager è posto a 1 a 84 rispetto al comune bancario. Ciò significa che quel che guadagna un manager in un anno l’impiegato di banca non lo vede in tutta la vita, considerando pure la pensione e il Tfr.
Questo Governo sta facendo cose che anche molto prima andavano fatte, compresa la riformulazione (cancellazione) dell’Art. 18. Ciò che non convince è l’urgenza e la frenesia del procedere in ogni problematica, come se si fosse al capolinea e calpestando il consenso con le parti sociali.
Affrontare non vuol dire risolvere; spesso la fretta nasconde interessi non dichiarabili e grossi guasti procedurali.
L’Italia da decenni procede con l’Art. 18; e ha resistito bene al mercato sia prima della crisi che pure ora nelle aziende che sono competitive. Perciò è un falso problema che incide poco sulla produttività.
Il lombardo veneto, ad esempio, produce pure ora un surplus export notevole nella bilancia commerciale. Basti pensare che il solo Veneto ha un attivo di 9 mld di €, contro un passivo nazionale di 24 mld. Per non parlare della Lombardia che ha cifre positive ancora maggiori. E in queste regioni la bilancia commerciale è sempre stata positiva. Attualmente il Pil nazionale è in recessione, ma lì è ancora leggermente positivo; e quando quello cresce minimo è il doppio di quello.
Riformulare il mercato del lavoro può essere utile solo se si cambiano simultaneamente le regole sociali. Diversamente può nascondere il pericolo che grosse aziende e lo stesso stato si accingano a licenziamenti di massa, come già sta avvenendo in Grecia, magari per assumere personale con costi decisamente inferiori.
La flessibilità è un fatto positivo, se è compensata da contratti diversi che prevedano, per i datori che ne vogliano usufruire, di erogazioni contributive e salariali maggiori più la precarietà sia probabile.
Serve non tutelare il posto di lavoro, bensì salvaguardare l’operaio, perché l’alta finanza ha prodotto i guasti e di sola finanza non si vive.
Questo governo sta demolendo la pace sociale, perciò pure la coesione nazionale, onde fare ciò che da tempo si doveva. Ciò non è un fattore democratico, bensì un procedere dispotico. E in questo i partiti hanno la loro grande responsabilità appoggiandolo ad occhi chiusi.
L’handicap dei partiti oggi è il non saper (voler) ideare una nuova società basata su una divisione più equa della ricchezza, una regolamentazione etica del mercato, un nuovo sistema industriale capace di fare distretto, emolumenti lavorativi maggiori e flessibili e gli stessi doveri individuali paralleli ai diritti.
La storia ci dirà cosa … accadrà.