(Il presente articolo non ha un link relativo a dove l’ho postato per motivi strettamente personali e di privacy.
Si collega comunque perfettamente all’articolo precedente – in più parti - Analisi transazionale e sottobosco culturale.
L’ho denominato, semplicemente, nel modo sottostante)
Pensiero aggiuntivo.
Sul Corriere avevo notato il suo articolo e m’ero ripromesso di rivederlo; perché un ottimo articolo val sempre la pena di leggerlo due volte.
L’ho cercato in rete per comodità e l’ho trovato qua. Sfrutto l’ospitalità per aggiungere un pensiero supplementare.
Inizio citando lo stralcio di una sua frase “… sono le espressioni che indicano un abbandono dell’uomo nelle mani di Dio” e mettendola in correlazione a un’altra frase evangelica del Figlio al Padre: “ Elì, Elì, lemà sabactani” cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. (Mt 27,46 ; Mc 15,34).
Ho sempre voluto intendere questo abbandonato in senso positivo: un grido di dolore, e non di disperazione, per la sofferenza umana e per la scelta personale del Figlio d’assoggettarsi volontariamente e liberamente alla volontà del Padre.
Quello che K. Häbsburg[1] definì il voldere (volere il dovere).
Perciò un abbandonato che va inteso come libertà assoluta di accettare o di rifiutare la volontà del Padre nella drammaticità degli eventi.
Anni fa dialogai amabilmente con un religioso, il quale mi confidò la sua grande difficoltà a concepire esattamente (accettare anche nella fede) il Sacrificio a cui il Padre aveva sottomesso il Figlio. Si chiedeva se non fosse stato possibile per Dio agire diversamente.
Obbiettai che il doloroso “problema” del Padre forse nasceva dall’evolversi della creazione. In pratica che noi vedevamo la morte storica, anziché la morte speculativa. E parlai di venerdì storico e di venerdì speculativo, correlandoli strettamente.
Nella nostra società c’è una cultura fenomenologica un po’ ovunque, che è prettamente personalista e di norma individualista.
Nella Chiesa vi è nella maggioranza (laici e clero) la tendenza a soppiantare il concetto di “popolo” con quello di “comunione”, perciò quello di “cammino” con quello di “sinergia”.
Quindi la sacralizzazione del totem (mi si perdoni la citazione) con quella del ministero.
Dicevo di fenomenologia; e, in relazione al suo articolo, di fenomenologia della morte, che l’autore citato elucubra elegantemente.
Una morte storica: un tabù da focalizzare individualmente e da scongiurare. Là dove la morte diventa fattore unicamente individuale, anziché umano: spettacolarizzazione fine a sé stessa.
La Chiesa, nei secoli, non nei Padri bensì nel clero, ci ha messo spesso del suo, dipingendo la morte quale ultimo tragico baluardo che ci divide dal Giudizio. Il che è vero, però se rapportato alla Misericordia e alla paternità/chiamata di Dio.
La morte, nella fenomenologia e nel personalismo, assume il connotato inconscio del processo presimbolico, perciò di un’immagina non vista complessivamente nella sua totalità, ma solo nella chiarezza di alcune sue particolarità appariscenti: il travaglio, il dolore, la fine materiale e la nullità esistenziale (nell’agnostico; e spesso, inconsciamente, condivisa anche dal credente).
In pratica il giudizio è formulato su impressioni sensoriali personali (esperienza su morti vissute in prima persona) o su tensioni istintuali (esperienza culturale ricevuta oralmente), che sottolineano la spettacolarità dolorosa e il traumatismo dell’evento invece della finalità.
Si ha, in definitiva, una visione ristretta e sommaria del problema.
Nella morte speculativa si effettua, invece, una comunicazione analogica nell’ottica sistemica, perché il discorso elabora la relazione completa tra emittente e ricevente, perciò tra morte e finalità o, se si preferisce, tra uomo e Dio.
Il messaggio materiale della morte diventa comunicazione reale, unendo i due terminali (fine e aldilà) in comunicazione fattiva nel suo passaggio naturale: il tornare al Creatore nel divenire.
Pulvis es et pulveris reverteris!
Mai, come in questo caso, l’inizio e la fine (polvere – nullità senza Dio[2]) combaciano, proprio perché l’essere figlio rende il tabù (morte) finalità di cammino verso il totem (Dio).
Proprio come l’abbandonarsi del Figlio al Padre presuppone la comprensione in un’unione manifesta e volontaria che prevede un divenire, geometricamente esemplificabile nella retta infinita nello spazio; la quale è una successione interminabile di punti, che alla fine si ricollegano al punto di partenza chiudendo la grande ellisse della vita: la continuità permanente.
La comunione diventa effettiva a livello antropologico e non solo individualistico; perciò comunicazione analogica tra evento e percezione che rende il “colloquio” mutuo consenso.
Il problema legale (procedura statale - legge) è, in effetti, un falso e labile quesito; come lo diventa quello dell’affidarsi alla scienza o allo scienziato. Come lo sono altri quesiti similari che coinvolgono la coscienza, perché destinati non a regolamentare una contingenza, ma solo quale protocollo operativo per chi è incapace di concepirlo e di padroneggiarlo.
La regolamentazione civica del furto, ad esempio, è superflua per il credente, giacché nella fede il comandamento divino universale è già presente e la legge da imperativo categorico già condivisa. Perciò la legge umana è solo sempre un doppione riduttivo e imperfetto.
Tuttavia è necessaria per stabilire una convergenza tra il credente e l’agnostico o l’interreligioso: un modus vivendi.
“Quid est veritas?” (Gv. 18,38) sorge spesso spontanea nell’uomo attuale, impregnato di quel razionalismo che non è in grado di rimanere fedele alla vita in cui si manifesta, perciò in noi stessi.
Sant’Agostino suggerì “Vir qui adest!”, traendolo e facendolo suo da una vulgata apocrifa. E non solo perché Gesù è “Emet” (la Verità – in ebraico), ma perché etimologicamente questa parola è composta dalle tre lettere (alef, mem e taf), di cui mem è la centrale, alef la prima e taf l’ultima dell’alfabeto, con ciò indicando non solo la duplice identità Verità/Dio, ma anche la totalità del sapere che permane nello scorrere del tempo.
Emet corrisponde al lemma greco Aletheia.
E Heidegger, disquisendo[3] su quell’etimologia, giunse alla conclusione che significa “ciò che non si nasconde” e che sfugge al tempo quantificandosi sempre nella storia, pur rimarcando che questa è l’omologo e l’antitesi della verità religiosa.[4]
Vi è, infatti, una duplice problematica parallela che, da un lato, quantifica l’efficacia della parola sugli altri e, dall’altro, pone la consistenza del rapporto della verità con il reale. Proprio come la morte storica e la morte speculativa.
L’affidarsi al Padre, o al samaritano di turno, diventa un convenzionale diritto, e non una condivisione reciproca nella necessità o nella finalità, se visto solo in modo fenomenologico.
Ma, come Lei scrive, l’abbandonarsi al Padre è andare incontro al Signore risorto: a chi è Emet (Verità/Dio) e nello stesso tempo Salvezza nell’abbandono della fede.
Bisogna cercare l’annuncio di speranza, lasciandoci simultaneamente ricercare nel mutuo consenso col Signore asceso.
Il concetto di vita non può essere ristretto al solo valore fenomenologico, perciò ad una semplice entità temporale, perché in questo modo la vita diventa essenziale nella materialità esistenziale. E, allora, anche la vita vegetativa pone al parente un valore di continuità pur nell’assoluta incapacità. Siamo però nel materialismo o in quella religiosità personalista individualista che si basa su un processo presimbolico a cui necessita il totem e il tabù.
La scienza e la tecnica hanno prolungato la vita; e la prolungheranno sempre di più specie se tra alcuni decenni la ricerca sulle staminali consentirà di ricostruire organi vitali usurati dall’uso e dal tempo.
Anche la scuola subirà profonde evoluzioni se i dati sapienziali potranno essere elargiti non con anni di studio, ma con cips, impiantati sulla corteccia cerebrale, in grado di contenere molto dello scibile umano.
Le sfide che attendono l’umanità non sono quelle relative a definire come regolamentare la fine/morte materiale di una vita, bensì quelle culturali che debbono essere totalmente comprese nell’abbandono convinto all’evolversi della creazione stessa, perciò al progetto divino di uniformare sempre più la creatura a Sé (Gen. 1,27) nel mutuo consenso.
Perché, in ultima istanza, la vita non cessa con la morte, ma prosegue oltre: oltre lo scorrere del tempo nella morte speculativa.
Vorrei chiudere citando uno stralcio del suo ultimo paragrafo:
“Ciò però non esclude il rischio e la responsabilità che ciascuno deve saper assumere quando venisse il momento di farlo. È così che chi sente il mistero di Dio incombere sulla propria vita potrà anche esprimere quella fiducia nelle mani del Padre, da cui siamo partiti in questa breve riflessione.”.
E, se mi è consentito, instaurando con il Padre quella comunicazione analogica nel totale mutuo consenso, anche e sopratutto nella Chiesa.
Perché nella fede non vi può essere una finalità diversa tra «nelle tue mani» con «nelle proprie mani», anche quando il nostro corpo ci riserva delle sorprese dovute o a noi o alla nostra genetica personale.
[1] - Filosofia, sociologia ed etica nel nostro tempo – Kärl Häbsburg - 1984
[2] - Basti ricordare la parola ebraica Golem (גולם) per riandare alla mitologia ebraica e al folklore medioevale; in pratica alla zolla di terra amorfa e senza vita – Salmo 139.
[3] - Essere e Tempo – Martin Heidegger - 1927
[4] - Basti pensare a: L'évolution des idées en Chine et en Grèce du VI e au II e siècles - P. Vernant e J. Gernet
1 commento:
La serie di articoli è molto interessante e spero che ce ne siano altri a seguire che completino il discorso.
La connessione con la vita sociale chiarisce molti comportamenti.
Saluti.
G.P.
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