ovvero:
Una donna, un’artista, l’istinto, la sensualità e la passione.
Premessa
Un critico esprime un giudizio in base al suo personale intendere l’arte. E lo fa ergendosi a giudice sommario di una certa società, perciò in modo volutamente più o meno settario, valorizzando il bello, il nuovo, l’innovativo e l’interessante.
Egli giudica l’opera per quello che questa appare, disconoscendo spesso ciò che questa vuol dire. E il più delle volte l’opera indica un mondo interiore, sia questo quello dell’artista o della società che lo esprime.
Un simbiologo guarda l’arte per capire le motivazioni che l’ambiente, la cultura e le pulsioni interne hanno generato nell’artista.
Non è uno psicoterapeuta; al massimo la sua analisi è solo uno stimolo, rivolto all’autore, a superare il limite artistico raggiunto.
Che l’opera sia bella o brutta non ha importanza; e neppure che sia quotata, importante o famosa. È di grande interesse il legame che la lega all’artista e all’ambiente in cui costui vive.
Il simbiologo svolge un processo procedurale e intellettivo guardando le opere in modo distaccato, di qualsiasi genere queste siano: l’opera è una delle procedure eziologiche per comprendere l’artista e, al tempo stesso, la società che lo esprime.
Il suo pensiero non è intrinseco all’opera d’arte, ma a tutto ciò che l’ha generata, compreso l’artista.
In pratica l’opera d’arte è il risultato di un processo evolutivo e comunicativo rivolto ad altri, ambientato in un contesto familiare, sociale e culturale preciso.
Le varie opere di un artista creano, nella loro successione temporale, una linea persistente, continua e durevole, che cambia il suo incedere seguendo parallelamente l’evolversi di una vita, composta, come tutte le vite, da gioie, da dolori, da aspettative, da progetti e, talora, anche da sogni.
E su questi punti di partenza intendo attenermi, anche se sorvolerò volutamente su questioni che giudico strettamente personali, perciò private e che tali devono rimanere.
Di Cristina Roncati in precedenza avevo analizzato casualmente solo due opere, molto parzialmente e usufruendo di due fotografie delle stesse: Il cavaliere dell’apocalisse ‘1973’ e La cubista ‘2004’.
Ne avevo tratto un’impressione specifica relativa ad un’apparenza che dietro le forme curate, eleganti e plissettate, celava una profonda aspirazione, soprattutto di una libertà personale intenta a potersi realizzare compiutamente: una soggettività in parte tarpata e vincolata nelle proprie aspirazioni da forti problematiche interpersonali della sfera affettiva, spesso subita, perciò meno ragionata e più istintuale, piuttosto che voluta e costruita.
E se la prima opera emana un aspetto escatologico mitico, in parte legato al religioso fantasmagorico dell’Apocalisse giovannea o di reminiscenze classiche similari, la seconda denota una sensazione androgena di un tentativo di emancipazione sensuale proprio dell’evolversi del nostro tempo.
Le due opere sono assai lontane nel tempo; tuttavia tra di loro, pur nella contrapposta tipologia di soggetto e di tematica, hanno in comune la forma armonica del movimento statico, quasi un perenne attendere l’attimo fuggente che verrà.
Emanano entrambe un assunto esoterico, frutto di un evolversi di un’aspirazione profonda che è ben lungi, pure oggi, dall’aver raggiunto la pace interiore e, con questa, quella soddisfazione personale che ponga l’artista in un’essenza nuova e felice della consapevolezza dell’essersi pienamente realizzata.
Accettando l’amichevole invito di Cristina ho visitato con estremo piacere la sua mostra al Foro Boario, traendone un interessante excursus del suo essere donna e artista, pregnante d’istinto, di sensualità e di passione, elementi intrisi, spesso, anche di abnegazione e sofferenza.
La mostra antologica appare anche nella sua dislocazione logistica un interessante specchio sia della vita che della personalista di Cristina: un affascinante mondo in continua evoluzione che al profano può in diverse opere incutere un certo e profondo disagio.
E a tale proposito ricordo perfettamente, mentre fotografavo, le parole di un visitatore rivolte all’artista: “Interessante e per molti versi impressionante e sconcertante!”.
Parole che a Cristina corressi con questa frase: “Il visitatore ha sbagliato frase. Non è la mostra impressionante e sconcertante; ma lo è il contesto di dolore e di problematiche che hanno generato le opere!”.
Per essere breve circoscriverò l’analisi alle seguenti opere, collegandomi sommariamente nelle citazioni ad altre: il poker di ritratti di “famiglia” ‘1992-2004’, Lucifero ‘1973’, Sposa all’altare ‘1975’, Ritorno ‘1977’ , L’antenata ‘1981’, Risveglio ‘1997/98’.
Ritratti di famiglia
Benché i ritratti di famiglia siano in ordine temporale appartenenti quasi alle ultime produzioni, li tratterò per primi per l’importanza che i soggetti hanno avuto nella sfera affettiva e formativa dell’Io di Cristina Roncati.
La Roncati non è per ora, a mio parere, una ritrattista nel senso lato del termine, perciò non esprime in queste opere un realismo oggettivo, bensì un impressionismo personale e intimo che mostra ciò che lei nel soggetto ritratto vide importante in relazione alla sua vita. La mia analisi non si interessa pertanto della personalità della persona esistita, ma solo di quanto interiormente viene sviluppato e sottolineato dal pennello dell’artista.
La prima opera che appare, entrando a sx, al Foro Boario è A mia madre ‘2004’, seguita da altri tre ritratti. La mia attenzione si è appuntata su un piccolo particolare apparentemente insignificante: la cornice. Gli altri ritratti, infatti, pur essendo antecedenti nel tempo ne sono senza.
Involontariamente e senza intuirlo la Roncati dà a questo ritratto un’importanza primaria e particolare e un affetto indelebile nel suo esporlo incorniciato.
Ritrae una donna su sfondo violaceo (colore dell’afflizione) avanti negli anni e col viso sofferente, in un atteggiamento apatico, di chi vede ma non comprende appieno la realtà, ed a occhi quasi spenti , caratteristica propria della senilità avanzata quando la lucidità scema.
Indossa una vestaglia a fiori colorati (simboli della vita) su base scura/nerastra (colore della morte e dell’oblio), un po’ eccentrica per la sua età, ma comunque assai graziosa. Sotto, una camicetta verde (il colore emblema della vita) con disegnate sopra 3 carte in diagonale: la picca in alto, il cuore al centro e, in basso il quadro. Rapportando le tre carte di scala 40 ai Tarocchi si potrebbe tradurle così: spada, coppe, denari. E non a caso, poco oltre, alla mostra, si trovano le 4 raffigurazioni/donne dei Tarocchi ‘1975’ a grandezza naturale.
Manca la carta di bastoni, quella che indica il castigo e la penitenza, caratteristica non consona ad una madre.
Nella semantica della simbologia criptologica (criptolalia) spada/picca indica il dolore, non solo quello fisico della malattia o dell’afflizione, ma pure quello del tempo che corre inesorabilmente verso la fine ultima: la morte.
Il cuore/coppa indica l’affetto materno e l’amore, essenza stessa della vita. E per alcuni, specie se istintuali, il cuore corrisponde alla sensualità, perciò indirettamente e principalmente anche al sesso, quindi alla procreazione.
Il quadro/denari la potenzialità dell’essere persona, in quel produrre, progredire e crescere che è naturale in ogni essere umano.
L’artista poteva ritrarre la madre nello splendore e nella bellezza della maturità; però l’ha ritratta nell’anzianità, in pratica dipingendo con la madre il proprio futuro in un transfert inconscio.
Nelle opere della Roncati la sofferenza in vita e l’ossessione della morte ricorrono continuamente, sia nelle prime opere giovanili a carattere mitico/esoterico (Donna/animale in danza, Abbraccio, Dafne, Pronta per il volo, La lupa ‘1971-72’), sia nelle grandi composizioni statuarie, o piccole bronzee (i vari Cavaliere dell’Apocalisse, Ritorno, Cavalli alati ‘1973-85’), sia nella lunga serie di donne velate o incartate ‘1975-95’, sia nelle ultime opere (Alice ‘2004’ e La santa/Lo sballo/La vita ‘2010’), sia in quegli autoritratti propri che segnano buona parte della sua produzione (Sudario, Sposa all’altare ‘1975’, L’antenata ‘1981’).
A mio padre ‘1992’ è subito dopo il ritratto materno.
Indica un uomo nella maturità che ti guarda con serietà ed autorità, con attenzione affettuosa, tanto serioso e preso dal ruolo paterno da crucciarsi interiormente per non poterti essere d’aiuto essendo dipartito; è su uno sfondo di un cielo striato che va dal ciano chiaro al blu notte (colori sincroni dell’aldilà/paradiso).
Indossa una giacca nera con camicia bianca e cravatta.
Il ritratto esprime un genitore estinto, molto desiderato nel momento del bisogno per il suo ruolo paterno di consigliere e di capofamiglia.
Tino Pelloni ‘1994’ è un ipotetico nonno saggio, utile ad insegnarti il mestiere, il senso della vita e i valori in cui crescere, capace di sdrammatizzare non solo un evento importante, ma pure di trovarvi in questo la bellezza della vita.
Francesco Arcangeli ‘1992’ non a caso coincide con l’anno di composizione del ritratto paterno e con quel dipinto ha molti punti in comune: il colore della giacca, della camicia e dello sfondo. Ciò significa che pure lui morì prematuramente per le aspettative dell’artista.
Teoricamente, seguendo l’inconscio artistico della Roncati, con il soggetto ritratto vi doveva essere un grande feeling, oltre ad un rapporto/affetto profondo nonostante la diversità di età.
Lo si deduce da quell’apparente cuore colorato disegnato in alto a dx, a mo’ di input passionale e di inserto seminale del suo subconscio.
L’uomo, che in parte avrebbe dovuto sostituire il ruolo paterno (la posa, la serietà, l’aspetto autoritario e lo sguardo) ha comunque delle caratteristiche interessanti che pongono in evidenza delle problematiche complesse.
A differenza dell’aspetto del padre lo sguardo è torvo, specie nell’occhio dx, come se il soggetto fosse incline talora all’ira, e la pettinatura oltremodo squadrata, quasi spiritata. L’attacco nasale riporta una breve linea parallela marcata, ha le narici leggermente dilatate e la mascella è serrata quasi in un ghigno: proprietà di un possibile e volubile soggetto psicolabile e paranoico.
Denota, tuttavia, una notevole cultura e sicurezza di sé. Il busto rappresenta un uomo squadrato e tarchiato.
Il suo rapporto con la pittrice non doveva essere solo artistico/professionale, ma, probabilmente, coinvolgeva il complesso di Elettra.
La gola riporta un particolare interessante: una netta linea nera, parallela al collo della camicia, che è assai marcata alla dx del soggetto e più sfumata a sx, quasi un netto e profondo taglio di ferita, forse il frutto di un violento desiderio inconscio e represso.
Credo che possa indicare un dicotomico rapporto istintivo assai tormentato tipico dell’amore/odio e della gelosia, perciò non affatto ragionato e intellettualmente controllato.
E tale rapporto ha condizionato culturalmente, a mio parere in modo parzialmente negativo, la Roncati nella sua formazione/artistico culturale, pur arricchendola in un’ambivalente sfera affettiva
La figura paterna ha connotati spesso controversi nella persona umana e ancor più in una giovane donna che non ha ancora raggiunto la maturità. Ondeggia tra i connotati del totem e quelli del tabù; totem quale punto di riferimento decisionale e protettivo, tabù come aspirazione di affetto profondo, di predilezione e quasi di possesso individuale.
Lucifero
La composizione impersona l’autrice e il titolo è emblematico dello stato d’animo di prostrazione e di dolore in cui la Roncati si trovava.
Vi è un angelo nero su sfondo rosso fuoco, nel pieno rispetto del personaggio indicato nel titolo.
Lucifero è un arcangelo della mitologia ebraico/cristiana: il primo in importanza degli arcangeli, classe celestiale seconda solo a Dio per importanza.
Il fuoco indica la dannazione, il nero la disperazione della condanna.
Lucifero, tuttavia, è in una posizione particolare, come se stesse, ipoteticamente, nell’atto di precipitare agli inferi dopo la cacciata di Dio.
La Roncati, tuttavia, lo ritrae in posizione eretta, cosa inusuale in un corpo umano in caduta libera da distanza siderale, giacché la testa, essendo di peso il 35% in media del corpo, dovrebbe far rappresentare il soggetto capovolto durante la caduta.
Le ali/mani, hanno infatti le piume rivolte verso l’alto, come se l’attrito del precipitare le rivolgesse naturalmente in su.
Le pieghe dell’abito, tuttavia, indicano una naturale propensione al basso, proprietà adducibile ad un corpo eretto.
Quest’impressione palese viene ulteriormente evidenziata dall’ampia manica del braccio sx (ipotizzando come naturale che il soggetto sia frontale all’osservatore) rivolta nella sua fluttuazione verso il basso.
Ne consegue che il soggetto, a parte la deviante posizione delle ali, sia in ben altro atteggiamento del precipitare negli inferi.
La testa sembra reclinata all’indietro e alla sua sx, rivolta verso l’alto alla ricerca di un punto di riferimento e di perdono: Dio, la felicità, la salvezza.
Le braccia/ali innalzate ad implorazione verso il cielo. Il corpo in torsione come avviluppato dal dolore. I piedi leggermente divaricati per una stabilità definitiva e sicura nella prospettiva, con la posizione flessa, del decollo verso l’alto, pronte quasi a catapultare il corpo verso il cielo.
Lucifero rappresenta un essere nella prostrazione profonda e assoluta che implora, soffre e impreca nello stesso tempo.
Un essere che riconosce il proprio stato perché in parte lo ha cercato o volutamente perseguito.
In apertura affermavo – come dissi a Cristina – che lei ha ritratto sé stessa sotto un simbolo mitologico.
Ciò è totalmente plausibile se Lucifero lo si collega a Letto sfatto, Sudario e Sposa all’altare, tutti del 1975.
Il letto, pur argenteo (colore del desiderio terreno di felicità) indica che in quel letto non vi è una coppia, ma una persona sola con sé stessa e con le proprie delusioni. Le lenzuola/coperta, infatti, sono sollevate solo da una parte, da quel lato da cui la persona si è alzata.
E il sudario, nelle sue sembianze di una forma femminile riconducibile all’accennato seno, ha il capo cinto da una grossa corona di spine, mentre il sudario facciale lascia liberi la fronte e gli occhi: occhi vivi che ti guardano dal profondo della loro cavità, immersi nel loro grande e immenso dolore.
Sposa all’altare
Pure questa composizione è un autoritratto della Roncati.
Il complesso artistico è tutto di colore nero (funereo e anacronistico per un matrimonio) sia nel colore degli indumenti, sia nell’inginocchiatoio.
L’abito pare appoggiato all’inginocchiatoio, ma in effetti sotto le eleganti e sapienti pieghe della stoffa si nota un corpo esile essente, pur se macerato dal dubbio e dal dolore.
Il corpo ha il braccio dx, con mano guantata, abbandonato e esangue sulla parte superiore del banco nuziale, la posizione inginocchiata, il busto superiore riverso in avanti come se la sposa avesse perso i sensi.
L’imponente e ricco collare è rovesciato verso il basso, quasi a imitare una capigliatura abbondante che celasse il capo.
Non si vede alcuna testa, mentre si intuiscono perfettamente sotto l’abito sia il braccio abbandonato che il corpo inginocchiato.
Credo che il tutto rappresenti bene lo stato d’animo che l’artista esprime in questa, nelle dubbiose aspettative, tragica cerimonia: quello della grande inquietudine e insicurezza, degna di una classica tragedia greca.
Riassumibili in: un matrimonio quasi forzato interiormente, uno sposo ipotizzato ma non desiderato totalmente, la percezione di un amore coniugale difficile da costruire e forse impossibile, l’assenza di una figura paterna in grado di intervenire ed impedire con autorità, discernimento e consiglio un simile scempio interiore per un enorme errore procedurale.
La sofferenza che traspare da questa composizione non è solo riferibile allo stato d’animo contingente, ma pure alle fobie che spesso un’unione indesiderata e subita dall’imporsi di uno stereotipo sociale portano spesso interiormente e fisicamente con sé: una provvisoria frigidità sensuale, un’ovulazione sospesa, una fecondità forse impossibile e il terrore d’essere fisicamente anormale nella propria sessualità; requisiti che nell’esatto punto di transizione – il matrimonio - dal sogno alla realtà impongono il dubbio del poter essere all’altezza del compito prefissato e pronti alla rivoluzione interiore del proprio Io evolutivo.
Il matrimonio è un punto di arrivo adolescenziale e un punto di partenza progettuale.
La sua dicotomia esistenziale sta proprio in quel suo essere un forzato punto di passaggio tra il sogno del desiderare e il progetto del costruire. Ne consegue che porti con sé quell’apprensione del possibile sbaglio o dell’inadeguatezza personale a proiettarsi in un mondo nuovo, solo ipotizzato e non ancora conosciuto, punto di passaggio tra il protetto e ovattato mondo dello sviluppo e quello costruttivo della realizzazione.
Viene pertanto visto, e talora subito, come una via del non ritorno, con l’assunzione di responsabilità, impegni e doveri che prima erano propri di altri e che, come tali, incutono sicuramente un certo timore.
Il terrore di sbagliare attanaglia l’intimo e può creare dolorosa angoscia. Quell’angoscia che la Roncati “canta” con la sua opera sulla vita.
Parallelamente a quest’opera potrei collegare La monaca di Monza ‘1973’, la cui veste, quasi abbandonata su una sedia, fa risaltare tenuamente un esile corpo celato nelle morbide movenze, sempre però priva di capo.
E la storia dei destini dell’ipotetica sposa all’altare e della monaca di Monza si intrecciano in modo indissolubile nel loro angoscioso destino che la storia della letteratura e della realtà esistenziale ci hanno tramandato, ammantandole spesso da tragedia.
Ritorno
Nelle opere della Roncati i cavalieri, più o meno apocalittici, sono di casa e assai numerosi.
La sua adolescenza deve essere stata assai ricca di questi racconti popolari, apprezzati e in parte temuti dai bambini.
Ritorno è un punto di arrivo della Roncati, quello che idealmente completa e chiude un ciclo della vita: quello dell’angoscia, della dura prova esistenziale, dell’apprensione, della non conoscenza della vita, quello dei lutti affettivi non solo materiali ma pure interiori, quello della fatica dell’andare avanti, del realizzarsi e dell’affermarsi, quello del non vedere chiaramente il traguardo prefissato, seppur agognato, del sentirsi almeno parzialmente realizzati.
Ritorno potrebbe essere benissimo il prodromo del suo essere artista e donna, dove Visita alla novizia ‘1976’, appunto come tale, indica l’avvicinarsi della fine di un “noviziato” artistico e umano del proprio essere persona.
Avvicinandomi all’opera, che giudico una di quelle maggiormente indicative e basilari della crescita umana di Cristina, mi sono dilettato, nel fotografare, a dare “luce” col flash al volto del cavaliere: un volto anonimo e irriconoscibile che comunque sotto le spoglie del drappo che copre integralmente la testa, mostra la luce che illumina la vita, pur nel buio della fatica e dello sconforto.
Il cavaliere non indica la devastazione e la morte, come i primi cavalieri dell’Apocalisse, bensì l’artista stessa che con il titolo perfetto dato all’opera esprime, in un inconscio più o meno percepito, un punto provvisorio di arrivo: la casa ritrovata e vicina, perciò il cominciare a vedere il proprio senso della vita. Una traslazione voluta tra l’essere stato e il proprio divenire che si sta manifestando sempre più chiaro.
Il complesso cavallo/cavaliere è molto bello in ogni particolare, maggiormente valorizzato dalle sapienti piegature del grande drappo nero che avvolge e ricopre, esaltandoli, i particolari tanto del cavallo che del cavaliere: il cavallo è la vita di Cristina ( o di ogni persona in cammino), il cavaliere lei stessa.
Il cavaliere ha un elmo/sudario molto leggero, perciò distaccato e diverso dal drappo pesante che ricopre tutto il resto. Un elmo/sudario che nella sua leggerezza consente di vedere la strada che si sta facendo.
Il bagliore del flash mette in rilievo un assetto ascetico, quasi meditativo, che tuttavia ha prostrato nel suo analizzare ed incedere il cavaliere.
L’andatura della scultura è lenta, quasi solenne, seppur provata della fatica delle prove della vita e della ricerca del ritrovare sé stessa, perciò il proprio ambiente naturale.
Esprime la tenacia dell’andare sempre e comunque avanti, l’abnegazione del dovere perciò del percepire esattamente il proprio incedere, la sofferenza che la vita crea per le nostre scelte più o meno volute, l’assenza iniziale di una ragione esistenziale che con lo scorrere degli anni e degli eventi dà comunque un senso alla vita e alla sofferenza, la ricerca costante di un tetto definitivo e familiare proprio sotto cui tornare a ripararsi e ritemprarsi per altre nuove sfide, una finalità che sfianca nella ricerca ma che poi, nella gioia del vedere la meta vicina, fa passare in subordine la grande fatica e sofferenza per l’impegno patito e profuso.
L’antenata (autoritratto)
Per la prima volta la Roncati mostra il proprio volto: il volto di una donna.
Il capo è ancora coperto da un velo, ma il viso mostra una persona reale e non evanescente.
L’abbondante serie di donne velate fa apparire, sotto velami funerei, armoniosi e sinuosi, quasi una donna sfuggente a sé stessa e all’osservatore (società reale), capace di celarsi in un drappeggio morbido ed esaltante, ma di essere inafferrabile ed evanescente nell’ipotetica esistenza reale, sia nella gioia della bellezza interiore, sia nel dolore della contorsione angosciosa.
Una donna che gioca quasi a rimpiattino nel suo lamento lugubre e lancinante – a questo proposito ricordo il breve filmato che Cristina mi mostrò su una sua performance teatrale giovanile -, ora esaltato da acuti, ora sottolineato da lenti e sommessi singhiozzi, in parte quasi paurosa di mostrare la propria vera essenza di donna alla ricerca della propria compiutezza: una donna che quasi si compiace della tragedia che vive e che il mondo le addossa.
Per la prima volta, nello scoprirsi, l’artista diventa Popolo e non singola individualità, perciò persona che, nella diversità propria esistenziale e del proprio incedere, accetta di mettersi in gioco e alla pari con altri, a viso scoperto (aperto) pur con tutti i limiti possibili che ogni persona può avere.
Antenata è la definizione esatta, magari inconsciamente non compresa nel suo significato complessivo sociale: una donna che è l’antenata di sé stessa, perciò che accetta il suo iter esistenziale precedente, guardando il quale scopre in questo la grande sofferenza del procedere, dovuta non solo a sé stessa, ma anche a tutti quegli stereotipi maschili, familiari e sociali che l’hanno in parte vincolata nella propria crescita esistenziale.
Iter il cui ricordo le crea ancora lamento e contrazione; è il dolore di una vita passata nella sofferenza interiore invece che nella gioia della felicità, oberata da una ricerca spasmodica e fisicamente prostrante di un equilibrio esistenziale e affettivo stabile e sicuro.
Un velo bianco, e non più nero, le copre il capo e incornicia il volto. Volto in parte celato nella fronte da una ciocca di capelli, rimasuglio di pettinatura voluta che il tempo, la convezione, il substrato culturale e i rapporti affettivi le hanno praticamente imposto.
La copia in terracotta lucida (sull’esempio artistico della ceramica invetriata dei Della Lobbia) esalta maggiormente sia la contrazione facciale e della bocca, aperta ad un profondo e tragico desolante lamento, sia il lacrimar doloroso che gli occhi ribassati e socchiusi, tra il pianto irrefrenabile e il sonno agitato, esaltano maggiormente.
Caratteristiche che ancor oggi Cristina porta seco nel suo look facciale complessivo e nella pettinatura che le incornicia ancora il viso, in parte nascondendone la potenziale bellezza complessiva e la personalità tuttora in continuo “cammino”.
Risveglio
È l’opera che dà il nuovo corso non solo all’attività artistica espressiva della Roncati, ma pure alla sua vita interiore.
Il soggetto non è totalmente disteso, ma quasi intenso a rialzarsi.
Intento, dicevo, perché l’atto è figurativo, proprio di colui che passa dal sonno profondo alla semicoscienza che anticipa il risveglio, ma che, tuttavia, elabora nel sonno finale le varie mansioni che lo attendono nella giornata.
Il viso è totalmente scoperto e il parziale velame della nuca, ricadente sulle spalle, pare più una florida capigliatura anziché una velatura.
L’aspetto denota tranquillità e appagamento, con la bocca socchiusa quasi alla ricerca di un nuovo sensuale bacio.
Il soggetto persegue la felicità, con quella gioia interiore che gli dona il riposo notturno alle fatiche della vita, pur costose nel sacrificio della dedizione, ma spesso necessarie per la propria realizzazione interiore.
Il dolore e l’afflizione sono superati e alle spalle, l’aspetto tragico della vita è scomparso, la serenità, anche se non totalmente percepita, avanza nella mente e nel cuore, pur nella percezione che la vita non ci porterà sempre e solo rose.
Cristina non si è solo risvegliata, ma è risorta dal sudario che era!
Questo decennio (relativo all’opera) ha portato l’artista a degli studi personali sul movimento, quasi alla ricerca di una sua stabilità esistenziale ed emotiva che giunge al suo apice prima con Movenze armoniche ‘1994/95’, per transitare indi da Lei e il collare, Regina delle messi ‘1997’ e dai vari Passo e, quindi, per finire con Il gioco della palla, Lei e i pesi ‘2000’, dove la figura umana comincia a recepire una stabilità esistenziale giornaliera e gioiosa.
È arricchito non solo da 3 ritratti di famiglia – in precedenza trattati -, ma anche da quell’esplosione di colori che mostra un gioioso e affascinante mondo che si sta delineando, proprio della serie Tenerife ‘1992’, contrapposto all’anarchia visiva e compositiva di Animale in fiamme e di Il cielo si accartoccia ‘1985’, oppure dalle colorate ed esoteriche figure di La sedia della malia ‘1985’, Quando gravita il pensiero e Diavolo vestito di viola ‘1986’, opere a cui va aggiunto Omaggio a Fidia ‘1991’, dove il sangue sulle vesti candide accentua quella “decapitazione” soggettiva di un mondo interiore che fu, non dimenticato ne rigettato, ma semplicemente riconosciuto.
È da notare che l’estro artistico della Roncati ha avuto anche in precedenza un grande sussulto artistico nelle composizioni sulle stagioni Estate, Autunno ‘1977’ e in Maria Maddalena nell’armadio ‘1979’.
Conclusioni
La Roncati canta la vita; e la canta nella poesia che la maturità e l’esperienza gli hanno progressivamente donato.
Il suo incedere attuale, pur tra revisionismi giovanili artistici e nuove vie, si è incanalato nel filone della composizione realista e sensuale, dove la sessualità, spesso ostentata, tende a rivestire un aspetto ordinario della vita quotidiana.
I vari soggetti delle opere cominciano ad essere colorati, spesso sbarazzini e infantili, limitati da imperfezioni, da vizi e da malattie, ma emblematici della nostra società: Alice ‘2004’, La giustizia ‘2004/05’, Venendo dall’est, Il ventaglio, Togli il grembiulino rosso ‘2005’.
Questi soggetti fanno il paio con la perfezione sensuale di opere maggiormente impegnative, quali Minerva/Dea/Donna e Venere con revolver ‘2008’, anche se la mitologia torna talora prepotente nelle sue velature con Regina dei boschi e La santa/Lo sballo/La vita ‘2010’.
L’artista canta la sua vita, e con essa quella del mondo femminile: la vita comune di tutti i giorni intrisa di gioia e di dolore, di progetti e di delusioni, di alti e bassi, di stereotipi e ruoli che limitano e vincolano la libertà personale, di normalità e di esaltazione, di successo e di malattie, di un benessere interiore che gratifichi un’esistenza necessariamente laboriosa, di vita e di … morte.
Nelle sue opere mancano totalmente quegli accenni religiosi/culturali, se non larvatamente e per traslazione, di una matrice culturale popolare in grado di dare un senso escatologico ed eleusino alla vita, soppiantati dall’esoterico e dal mitico; ma il perché di ciò andrebbe ricercato in quel substrato culturale impregnato talora di nichilismo e massimalismo propri di una terra.
Non per nulla nelle opere stesse è carente la differenziazione tra dono e regalo, tra fare all’amore e fare sesso, tra sensualità e sessualità: dicotomie esistenziali e comportamentali che portano spesso l’individuo ad affermare come realtà il proprio Io individuale come oggettistica prioritaria al proprio essere.
A mio parere la Roncati ha ancora molto da dire artisticamente e culturalmente, specie nell’esprimere quella felicità e gioia di vivere che viene resa manifesta dai volti appagati o dalla natura, proprio come Risveglio esalta la ricerca dell’amore nel bacio, nella reiterazione gestuale inconscia del desiderio.
Il canto della vita diventa armonioso e poetico quando travasa nell’altro (chi recepisce) la propria gioia interiore e la propria soddisfazione d’essere sé stessi nell’essere Popolo.
Ciò non può avvenire in un volto velato o in parte limitato, perché allora la bellezza interiore viene ridimensionata e quasi separata dalla realtà.
Sotto un velo, ad esempio, possiamo mettere una bellissima statua maschile o femminile; ma il soggetto che la vede e desidera fare all’amore scopre facilmente il trucco quando, denudandola, trova non una persona, ma solo un freddo anche se artisticamente valido oggetto, che è incapace di comunicarci le sensazioni e gli atti voluti: il donarsi totalmente.
La bellezza non sta nell’oggetto (o nel soggetto), ma in chi guardando è in grado di valorizzarla nel mutuo consenso. Non ha paura di mostrarsi perché per esistere non ha bisogno dell’assenso generalizzato.
Forse per questo alcune delle sue ultime opere possono essere configurate (sembrare d’acchito) come caricature claunesche o come giullari di corte.
E il bello, nell’amore, è proprio quella valorizzazione che il coniuge, nella sua donazione di coppia, esalta traendo dal bagaglio interiore dell’altro: un iter continuo che non ha mai fine, basato su quella comunione interiore e culturale che arricchisce e migliora continuamente la coppia e con questa l’altro.
Un filosofo diceva che le donne belle si lasciano volentieri agli uomini senza fantasia. Proprio perché la bellezza sta nel nostro saper percepire e valorizzare, oltre che potenziare ed esaltare operativamente, le caratteristiche altrui.
Diversamente si ha una bellezza artificiosa di facciata che non regge e che ci lascia infine indifferenti.
Il bello non è quello che fa dire alla maggior parte “oooohhhh!”, facendolo stare a bocca aperta per il semplice fatto che l’opera osservata è stata già declamata assai, perché allora la percezione sarà viziata dal culturalismo di massa.